Intervista ai Vanishing Twin: “Siamo un labirinto di passaggi da un mondo all’altro, con un sacco di indicazioni ma nessuna destinazione”

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di Alessandro Besselva Averame

Cathy Lucas, cantante e multistrumentista, cresciuta a Bruxelles prima di trasferirsi nella capitale britannica, ha suonato in passato con Fanfarlo e Innerspace Orchestra. Valentina Magaletti, batterista italiana trapiantata a Londra, è da tempo attivissima protagonista della scena avant cittadina e non solo (il suo progetto Tomaga, ma anche Raime e i Neon Neon di Gruff Rhys). Phil MFU (dove MFU sta per Man From Uranus) diffonde da anni la propria versione weird dell’universo library music e in questo caso offre dettagli e coloriture. E poi ci sono il bassista giapponese Susumu Mukai (che ha suonato, tra gli altri, con Floating Points, e in proprio produce musica con il moniker Zongamin) e l’eclettico Elliott Arndt, occasionale flautista e percussionista, ma pure videomaker e artista visuale. Un brain trust che converge nel progetto Vanishing Twin, band il cui secondo album, The Age Of Immunology, è per chi scrive uno dei lavori più riusciti del 2019. Un disco che riesce a mettere insieme suggestioni da “futuro nel passato”, sperimentazioni ad ampio raggio, acute riletture dell’universo library, geni krautrock riprocessati, e una vena pop nutrita a malinconie e suggestioni altre. Di fatto, l’esito di una visione artistica lucida e peculiare, lo dimostrano le parole di Cathy Lucas, interpellata alla vigilia delle date italiane – esordio assoluto da queste parti – della band.

Il nucleo originario del progetto era costituito da te e da Valentina Magaletti, in che modo avete coinvolto gli altri componenti della band?

“La band è diventata Vanishing Twin poco dopo le nostre prime session in studio, nel 2015. Noi due avevamo appena coinvolto nuovi musicisti, Phil MFU, Susumu Mukai ed Elliott Arndt, incontrati tutti quanti frequentando la scena londinese, ognuno in grado di mettere in campo la propria personalità artistica. Avevamo fatto alcuni concerti utilizzando la sigla Orlando, che era il mio progetto solista, ma ci sembrava necessario ripartire con un nome nuovo, serviva qualcosa che riflettesse la nuova configurazione. Durante quelle session avevamo registrato una canzone intitolata Vanishing Twin Syndrome, che parlava del gemello assorbito nel mio utero (in medicina, la cosiddetta sindrome del gemello scomparso, “vanishing twin” per l’appunto, nda). L’idea di un gemello scomparso, o assorbito, offriva l’opportunità di esplorare tutta una serie di concetti (mondi-specchio, identità multipla, origini mitologiche, perdita) che rappresentano tuttora il fulcro della band”.

Siete una band che, allo stesso tempo, ha un autore principale, tu (o quantomeno le cose stavano così all’inizio), ed è un collettivo di individualità molto forti che lavorano insieme per un obbiettivo comune. Come risolvete gli eventuali problemi di ego? Immagino che essere sulla medesima lunghezza d’onda sia un buon punto di partenza, ma l’approccio “quotidiano” al suonare insieme a volte può essere problematico. Avete stilato una qualche forma di “protocollo interno”?

“Dopo aver lavorato a lungo da sola, formando una band mi interessava esplorare la chimica che si crea quando i singoli individui introducono nella conversazione il loro peculiare linguaggio musicale. Nei primi tempi portavo delle linee di basso, dei groove di batteria o delle melodie, ma questa fase non è durata a lungo, perché il modo in cui ciascun componente del gruppo esplorava quelle idee iniziali mi pareva molto più interessante delle idee stesse. La comunicazione la ottieni proprio così: attraverso la musica, letteralmente, ci si parla gli uni con gli altri. Probabilmente alcune band hanno la tendenza a parlare con una sola voce, e riescono comunque a produrre qualcosa di notevole e di bello. Ma la mia impressione, riguardo la musica che facciamo, è che riusciamo a incorporare i suggerimenti di ciascuno in maniera molto simile a quello che avviene in una conversazione. Probabilmente in questo modo si riesce a tenere l’ego fuori dal discorso. E quindi non ci sono delle regole, al massimo la regola è quella di non avere regole. Il più delle volte cerchiamo, ciascuno di noi, di parlare con la nostra voce musicale. Come osservi correttamente, siamo molto diversi, ma in buona parte apprezziamo gli stessi generi di musica, e abbiamo la tendenza a essere sintonizzati naturalmente su quello che ci pare possa funzionare, quello che ci sembra suoni bene. Ovviamente arrivare a far funzionare un tipo di conversazione del genere è frutto di un processo. Ma diciamo che, corso del tempo, si sviluppa una sorta di telepatia”.

Avete sviluppato alcune idee poi finite nell’album a partire da alcune improvvisazioni effettuate in un vecchio mulino della campagna inglese, che poi avete pubblicato come cassetta a tiratura limitata lo scorso anno. Immagino che una buona parte del vostro lavoro si sviluppi suonando live. Avete un ethos alla Can, voglio dire, suonare molto insieme, registrare tutto, isolare alcune idee, montarle, incominciare a improvvisare su frammenti già registrati? Oppure ciascuno suggerisce idee e poi le sviluppate insieme?

“L’improvvisazione e il registrarci sono diventati due elementi importanti del nostro lavoro insieme. In questo momento rappresentano il cuore del suono della band. È come un sandwich costituito dalle varie performance: suoniamo e registriamo un sacco di idee, ne isoliamo alcune, le spezzattiamo, le ‘roviniamo’, le processiamo, poi lavoriamo nuovamente in cima al tutto legando insieme le parti e tirando fuori un brano. È un metodo che funziona quando ci si fida davvero gli uni degli altri, ci si lascia guidare dall’istinto e da quel senso di freschezza che quando si lavora sul materiale già scritto non è possibile ottenere”.

Immagino siate un po’ stufi di essere paragonati a Stereolab e Broadcast, ma credo che in qualche modo stiate portando avanti il loro testimone, in particolare vi accomuna, credo, l’idea che la musica sperimentale possa essere anche pop, che sia qualcosa che si può fischiettare durante la giornata, che entrambi i mondi possano lavorare insieme producendo qualcosa che è ancora più interessante delle singole parti…

“Credo che, con entrambe le band che citi, condividiamo più di ogni altra cosa le influenze. E forse questo fa sì che possano saltar fuori melodie o progressioni armoniche che li ricordano. Parlo di influenze come echi di pop francese o di folk inglese, o di library music italiana. Credo però che il nostro approccio, nel contesto di oggi, sia piuttosto diverso. Quei gruppi agivano in un modo molto controllato, c’era una sorta di regia, mentre noi siamo potenzialmente più anarchici, abbiamo una attitudine un po’ più laissez faire”.

È in corso da tempo un dibattito sulla cosiddetta hauntology, e in generale sul concetto di “retrofuturismo”, sull’idea di immaginare passati alternativi per reimmaginare in qualche modo il presente, trovando nuovi modi per superarne l’impasse, in ambito culturale e politico. Come vi posizionate in questo dibattito, sempre che vi interessi farlo? Si tratta di elucubrazioni escapiste oppure, al contrario, è un modo per essere politici attraverso l’immaginario?

“Ho una consapevolezza solo vaga dei dibattiti all’interno della cultura popolare su questa specie di saccheggio del passato. Facciamo senz’altro parte di una comunità che è attratta dalle sonorità dei vecchi dischi, forse perché ci sembrano delle finestre su altri mondi, o forse perché siamo delusi dalla forma e dalle intenzioni di parte della musica contemporanea, anche se non tutta, ma non ci sembra particolarmente utile tirare fuori tutti i feticismi annessi a queste riflessioni, perché dal nostro punto di vista ciò che facciamo è estremamente onesto. Le influenze sono molto varie, e da fan delle musiche altrui abbiamo la speranza di poter combinare quello che ci trasmettono quei dischi con nuove interessanti modalità, capaci di emozionare. È proprio qui, credo, che la faccenda diventa politica: tenersi strette le cose che ti emozionano ignorando le pressioni esterne per farti fare le cose in un modo o nell’altro”.

Il video di Magician’s Success mi pare un veicolo perfetto per l’immaginario della band, la sua anima visiva, integrata nella musica. Metà (p)op art, metà Jodorowsky, a voler semplificare. Anche il video sembra suggerire, in parte almeno, che la vostra concezione di musica possa avere a che fare con il concetto di magia, di arti magiche…

“Per noi la musica ha sempre avuto a che fare più con il porre domande che con il fornire delle risposte, con l’evocare un qualche genere di mistero o di elemento intrigante, lasciando sempre qualcosa di non detto, e lasciando spazio all’immaginazione dell’ascoltatore. È quello il genere di musica che ci attrae in quanto ascoltatori: musica con un forte carattere sinestetico, suoni difficili da identificare, armonie irrisolte o qualche bizzarra progressione. È qualcosa di invitante che però, in sé, non fornisce alcuna risposta. Credo sia un po’ come la magia, suggerisce più che essere conclusiva, ed è scritta nel linguaggio del prestigiatore, un linguaggio che conosce solo lui. Il video ci ha fornito l’occasione di esplorare questo genere di connessioni, quella apertura, quella non conclusività, attraverso i concetti di mito e di rituale. Guidati e diretti da Elliott, abbiamo messo insieme molti oggetti, idee e personaggi i quali, a loro volta, hanno generato un universo mitologico, culturale o estetico, ciascuno differente dall’altro. È diventato un parco giochi in cui tutti questi elementi potevano essere combinati in modalità sorprendenti. Il risultato è un labirinto di passaggi da un mondo all’altro, con un sacco di indicazioni ma nessuna destinazione”.

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