10 brani reggae e dub che altereranno la tua percezione

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Alla ricerca di brani reggae e dub che con i loro suoni e vibrazioni altereranno la vostra percezione.

Di Andrea Pomini

THE UPSETTERS

Black Panta Upsetters 14 Dub Blackboard Jungle (Upsetter – 1973)

Fra la manciata di LP che si contende il titolo di primo album dub della storia, e fra i vertici della lunga e frastagliata discografia di Lee “Scratch” Perry, Upsetters 14 Dub Blackboard Jungle (per lo più noto come Blackboard Jungle Dub, complice soprattutto l’uscita due anni dopo di una sua versione più o meno alternativa così intitolata) è quanto di più stonato e visionario si potesse ascoltare nella Giamaica del 1973. Mixato da Perry stesso insieme all’altro genio King Tubby con superba gestione delle potenzialità creative della stereofonia, è aperto da questa tonante versione di Bucky Skank, traccia già bizzarra di per sé: ritmo sul canale sinistro, ingigantito e sincopato da echi e delay; effetti di ogni genere, prodotti con la voce o chissà quali attrezzi, che entrano ed escono dal destro insieme a una frase di fiati da giudizio universale.; un terzo mix, ancora diverso, per i due canali insieme. E tensione alta, come quando l’euforia cede il passo alla paranoia.

COUNT OSSIE AND THE MYSTIC REVELATION OF RASTAFARI

Grounation – Grounation (New Dimension – 1973)

Ai 25 minuti è come se si svegliassero tutti, e parte un incongruo swing sferragliante da Arkestra in parata che va fino ai 30 totali. Ma quello che succede prima è esattamente come ci si immagina una grounation (cerimonia chiave della dottrina rasta) nella comunità di Wareika Hill a Kingston: ripetitiva, interminabile, chalwa sempre accesi e lodi su lodi a Jah. Chi l’ha fondata, nei primi anni ’50, è il percussionista e bandleader Oswald Williams, fra gli inventori dello stile musicale nyabinghi, chiamato come la più antica e ortodossa delle interpretazioni del culto. A suonare sono tre tamburi di diverse dimensioni e intonazioni (bass, funde e akete), su ritmi influenzati da lontane radici Ashanti e Bantu, e da più recenti stili afro-giamaicani come kumina e burru. A levarsi al cielo sono canti corali tratti da salmi e inni biblici, che ritroveremo in tanti successi reggae fino ai giorni nostri. Il primo album di Ossie e banda è addirittura triplo, e la title-track il suo manifesto.

KEITH HUDSON

Satia – Pick A Dub (Mamba – 1974)

In copertina, il disegno di un rasta seduto ai piedi di una palma, impegnato a fumarsene una bella grossa e a riflettere di conseguenza. Dentro, la carica innovatrice di un produttore fra i più originali del roots reggae anni ’70, per l’occasione impegnato anche al mixer come dubmaster. La sua missione? Fare economia. Ridurre al minimo indispensabile tracce che già in partenza non possono certo dirsi sovraccariche; costruire musica nuova estraendone gli elementi essenziali, e talvolta nemmeno quelli. Di un classico del reggae mistico come Satta Massagana degli Abyssinians, ad esempio, cosa ci viene in mente come prima cosa? Esatto, la melodia di fiati che lo apre e ne punteggia lo svolgimento, una delle più note e amate del genere tutto, immediatamente riconoscibile. Bene, qui non c’è. Ci sono batteria, basso e un poco di chitarra in compenso, e tanto delay. Quanto basta per organizzare una spirale scura e penetrante, che avvolge l’ascoltatore e lo ipnotizza.

KING TUBBY

Invasion Dub From The Roots (Total Sounds – 1975)

Da riparatore di cose elettriche con piccola e caotica bottega, a costruttore di amplificatori per i migliori soundsystem di Kingston. Da gestore di un soundsystem in proprio, a esploratore delle potenzialità infinite di uno studio di registrazione, anche minuscolo e con attrezzatura obsoleta. Fino al ruolo riconosciuto di figura cruciale per i destini della musica popolare tutta, primo responsabile della nascita del dub e dunque, di fatto, della pratica del remix. Invece di produrre semplici versioni strumentali per il lato B dei 45 giri, Osbourne Ruddock si avventura fra le singole tracce audio dei brani, e con mixer, equalizzatori ed effetti autocostruiti lavora di sottrazione, isolamento, manipolazione. Lo studio è il suo strumento, e con esso crea musica nuova da altra musica già esistente, in tempo reale, buona la prima. Concendendosi addirittura, nel caso di Invasion, una decina di secondi di gorgoglio acido alla Aphex Twin in apertura, prima di una rilettura solenne di My Guiding Star di Horace Andy.

THE CONGOS

Congoman – Heart Of The Congos (Black Art – 1977)

Intorno c’è un gioiello come il primo album dei Congos, con ogni probabilità il miglior lavoro di Lee Perry come produttore conto terzi, nonché disco fra i migliori di tutti i tempi non solo in ambito reggae. Nei 6’39” di Congoman c’è persino di più: le armonie vocali celestiali di Cedric Myton, Roydell Johnson e Watty Burnett (con i Meditations ai cori) non planano infatti sul roots reggae di taglio spirituale del resto dell’album, ma concorrono alla definizione di qualcosa di diverso, nemmeno istantaneamente identificabile come reggae in senso stretto. Qualcosa che è già oltre, e anticipa di 15/20 anni gli incroci fra dub e techno di gente come Basic Channel, Rhythm & Sound, Deadbeat, Deepchord. Gli elementi fondanti del suono giamaicano sono parte di un tutto più grande, insieme a microsuoni ed effetti avventurosi, schemi poliritmici africani e ripetizioni minimaliste. Con una nitidezza sonora impressionante, visti anche i mezzi rudimentali dei leggendari studi Black Ark di Perry.

DERRICK HARRIOTT

Slave 12″ (Crystal D – 1978)

Nati e cresciuti come un canonico quintetto vocale di casa Motown, i Temptations svoltano nel ’68 verso quello che verrà chiamato psychedelic soul. Uno stile figlio di tempi turbolenti, che declina in chiave afroamericana tecniche e atmosfere del rock psichedelico, fra coscienza razziale ed estetica hippie. La Giamaica prende nota e crea, come sempre. Uscita nel ’69 negli Usa, Slave è ripresa inizialmente da Derrick Harriot nel suo Psychedelic Train (appunto) di due anni dopo, ma è questa versione allungata e dilatata del 1978 che completa la transizione. Il tempo lento e sinuoso, l’accompagnamento musicale scarnificato (linea di basso, tamburello, qualche pennata di chitarra, qualche breve frase di organo), le voci trattate con il delay. Passata la durata originale, la seconda metà del brano diventa una version ancora più ipnotica, perfetta per un testo che parla di prigioni e ingiustizia, e una melodia da spiritual antico. I prigionieri in catene ai lavori forzati paiono materializzarsi nella stanza.

RANKING JOE

Natty The Collie Smoker  Weakheart Fadeaway (Greensleeves – 1978)

Il deejay, una delle due o tre invenzioni della musica giamaicana che hanno cambiato tutto il pop a seguire. Nel resto del mondo è quello che mette i dischi per far ballare, là è quello che prende il microfono e improvvisa rime quando il selecter sceglie un pezzo strumentale. A costruirne la reputazione sono impatto, sagacità, intuizione lirica, padronanza dei topos del genere, ma trovarne uno che resti intonato al riddim originale per tutta la sua durata… beh, quello è un altro discorso. Gli esempi sono tanti, ma questa traccia dal primo album di Ranking Joe – uno dei più noti e amati della seconda generazione di deejay, diciannovenne all’epoca – rende bene l’idea. Su una traccia roots/dub profonda prodotta dal veterano Joseph “Jo Jo” Hoo Kim negli storici studi Channel One, Joe procede stonato in entrambi i sensi barcollando sul filo della musica, la logorrea post-canna a compensare eventuali mancanze. Perfetto per una canzone il cui titolo è traducibile grossomodo come Rasta il fumatore d’erba.

LINTON KWESI JOHNSON

Street 66 – Bass Culture (Island – 1980)

Fra tutte le poesie in musica di Linton Kwesi Johnson, è la frenetica Dread Beat An’ Blood quella con i riferimenti più espliciti alla marijuana (“Una piccola stanza inzuppata di fumo/Una casa nella nebbia da ganja“, “La ganja avanza lentamente, si arrampica fino al cervello” e via così). Ma è Street 66 la rappresentazione più reale e quotidiana del suo uso comunitario fra i giovani immigrati caraibici, nel buio della Gran Bretagna thatcheriana. È questa la vera stanza inzuppata di fumo, nei minimi particolari: sei di mattina, luci basse, disco di I Roy sul piatto, l’ondeggiare pigro di chi balla, gli scherzi, le discussioni a oltranza (il reasoning dei fedeli rasta portato in un nuovo contesto), l’incursione della polizia.  Che i ragazzi stiano fumando è evidente, non serve dirlo, e nel testo infatti dell’erba non c’è menzione diretta. Ma pare di respirarla, quell’aria rarefatta, mentre Linton appoggia le sue parole su un ritmo al rallentatore fra i più affascinanti della sua discografia.

SCIENTIST

Landing – Dub Landing (Starlight – 1981)


L’anello di congiunzione fra la prima e la seconda generazione di stregoni del dub, nonché fra la fase roots degli anni ’70 e quella dancehall degli anni ’80, Hopeton Bronw in arte Scientist. Apprendista alla corte di King Tubby (sul cui banco mixer pare riuscisse a trovare suoni e soluzioni che il re nemmeno immaginava) e quindi maestro in proprio, lo chiamano Scienziato perché un giorno, scherzando ma non troppo, propone a Tubby di costruire un banco con i fader automatizzati elettronicamente, cosa che qualche lustro dopo succederà sul serio. Traffica con circuiti e trasformatori fin dall’adolescenza, e si sente, perché i trattamenti a cui sottopone il materiale di partenza sono innovativi, fantasiosi, radicali. Basso in primissimo piano, effetti trasformati in percussioni, percussioni trasformate in suoni da videogiochi, voci tagliate e gonfie di delay che tornano all’improvviso come fantasmi ammonitori. Le tracce delle fonti scompaiono anche dai titoli, tutti caratterizzati da un tema sci-fi che calza a pennello.

AUDIO ACTIVE feat. BIM SHERMAN

Free The Marijuana  We Are Audio Active (Tokyo Space Cowboys) (On-U Sound – 1994)

Il messaggio, affidato alla voce angelica del giamaicano Bim Sherman, è sufficientemente forte e chiaro: “Passami le (inserire nome di famosissima marca di cartine)/Lasciami far su la mia ganja/E riempire il mio cilum/Lasciami fumare la mia marijuana/Legalizzala/Non criticarla”, tanto per cominciare. Poi si continua con gli esempi di utilizzo e gli appelli per la libertà di chi fuma, mentre sotto ribolle un impasto digitale che porta la Giamaica nello spazio. Un suono di classica scuola On-U Sound, nonostante la provenienza giapponese del quartetto, a riprova del peso senza confini che ebbero Adrian Sherwood e compagnia. A metà strada fra le intuizioni di pionieri come Lee “Scratch” Perry, e quelle appunto dell’etichetta/team produttivo londinese, snodo fondamentale per gli incroci del reggae puro con elettronica e post-punk. Quello dei Cowboy Spaziali di Tokyo è un dub di effetti e intrecci (basso, chitarra, sintetizzatori, echi) più che di sottrazione, ma il decollo è assicurato comunque.


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Qua sotto la playlist da ascoltare su Spotify con i brani reggae/dub e rap che altereranno la vostra percezione.
Leggi l’articolo sui 10 brani rap.
Leggi l’articolo sui 10 brani stoner e psych.


Redazione Rumore
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