Intervista: Viridanse

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di Nicholas David Altea

C’è stato un momento, in cui il sottosuolo musicale alessandrino, aveva qualcosa da dire e lo diceva a voce alta, senza nessuna remora e senza nessun complesso di inferiorità. Lo hanno fatto i Peggio Punx nell’hardcore e lo hanno fatto – quasi negli stessi anni – i Viridanse per la dark/new wave. Quattro o poco più, intensissimi anni, che hanno portato la band, nata dalle ceneri dei Blaue Reiter, ad esibirsi in tutta Italia in un periodo in cui, la fervente scena fiorentina degli anni ottanta la faceva da padrona con Diaframma e Litfiba delineando lo scenario di una buona parte della wave italiana. I Viridanse non erano da meno, tanto che ebbero passaggi televisivi su RAI3, Discoring Sanremo Rock o sul circuito radiofonico RAI. Nacquero nei primi anni delle autoproduzioni, in cui si occupavano spazi, c’era cooperazione e si faceva rete già all’epoca, tra band della zona. Un periodo in cui si iniziava a suonare anche se non si era capaci, in quegli anni l’importante era ‘fare’. Un mondo apparentemente lontano che chi non ha potuto viverlo in prima persona, spesso sente il bisogno di una testimonianza, di un ricordo di come in quegli anni ci si muovesse nell’underground della città di Alessandria e non solo. A distanza di 27 anni dal loro scioglimento, tornano i Viridanse e decidono di intraprendere un percorso lasciato anni fa, per colpa di dinamiche discografiche. Una reunion non facile, che però non vuole essere solo una semplice riunione nostalgica, ma un qualcosa di più, un nuovo punto di partenza in un cammino interrotto ingiustamente. Li vedremo dal vivo, insieme ai Diaframma di Federico Fiumani al Teatro Macallè di Castelceriolo, in provincia di Alessandria, sabato 18 ottobre. Abbiamo incontrato Enrico Ferraris, chitarrista della band piemontese, che ci ha raccontato di questo nuovo inizio.

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Quando si è materializzata in voi l’idea di una reunion? C’è stato un momento o un episodio preciso?
Enrico Ferraris: “In realtà eravamo tutti scettici in una reunion di un certo tipo: che andasse a rinvangare il passato con una botta di nostalgia un po’ fine a se stessa. La cosa è maturata in tempi molto recenti: si parla di marzo di quest’anno. Abbiamo registrato notevole interesse verso il gruppo, anche un po’ sull’onda del disco di raccolte, Gallipoli 1915 e altre storie (2012) che include l’EP Benvenuto Cellini (1984), l’ LP “Mediterranea (1985), diverse registrazioni live e il demo tape Psycho Session (1987). Gestendo i social abbiamo riscontrato che l’interesse verso di noi c’era ancora. Flavio (basso) ed io (chitarra), che siamo gli unici membri originari, abbiamo capito che forse era il momento di riprendere anche a fare qualcosa di nuovo. Per noi era essenziale ripartire, ricominciare. Poi ci hanno proposto l’idea della serata ad Alessandria coi Diaframma e questo è stato poi l’input definitivo. E così ci siamo reinventati una band, essendo rimasti solo due su quattro della vecchia formazione”.

C’è un motivo particolare per cui gli altri membri non hanno aderito alla reunion?
E.: “In realtà all’inizio avevamo coinvolto anche Paolo Boveri (voce e chitarra) ma non se la sentiva per motivi personali di impegnarsi in una cosa del genere. Mentre il batterista storico (Antonello De Bellis) non suona più da anni. Ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d’onda nel dover reinventarci, sia una formazione, che un nuovo percorso. Per noi è stato molto stimolante, perché malgrado avessimo tutti avuto altri progetti, il nome Viridanse è sempre stato il nostro primo punto di riferimento. Abbiamo così cominciato a cercare nuovi membri. Potevamo già contare sull’apporto di Giancarlo Sansone che con Flavio porta avanti il progetto di dark ambient/cinematico DeLaVega. Poi abbiamo avuto la fortuna di trovare in tempi brevissimi un cantante (Giancluca Piscitello) estremamente bravo, versatile e soprattutto in sintonia con noi; e un batterista (Fabrizio Calabrese) che in pochissimo tempo è entrato nel mood del nostro stesso cammino. Si è riniziato recuperando pezzi più vecchi, quelli prima dell’album Mediterranea (1985)”.

Che poi era un po’ il vostro periodo più cupo, a dire il vero.
E.: “Sì, ma non li abbiamo ripresi perché ci piaccia l’idea di dover essere dark a tutti i costi, ma perché erano i nostri pezzi che hanno resistito di più al tempo, mentre paradossalmente, quelli che potevano essere i brani più maturi – dal punto di vista compositivo e anche più fruibili – sono quelli che sentiamo un po’ più lontani dal nostro nuovo corso. E quindi ci siamo concentrati su quelli, approfittando del fatto che quest’anno sono passati trent’anni dall’uscita di Benvenuto Cellini (1984) che è stato il disco che ci ha fatto conoscere di più. Questo lo dico perché tutt’ora, me ne accorgo dai sentori che leggo sul web: rimane un punto di riferimento della dark wave italiana. E sinceramente non ce lo saremmo mai aspettati: per quanto ci credessimo tantissimo era un disco registrato in quattro giorni e alla prima esperienza”.

I brani di Benvenuto Cellini sono poi stati inclusi in quella raccolta uscita due anni fa?
E.: “Esatto. Risentendolo, mentre ci si apprestava a curare questa raccolta, ho avuto modo di accorgermi che i brani funzionavano ancora, le canzoni potevano essere riviste senza stravolgerle. E così abbiamo fatto: nel concerto riprenderemo sicuramente tre dei pezzi di Benvenuto Cellini, naturalmente rivisti e riadattati alla nuova formazione e a come sentiamo la musica adesso. Suoneremo altri brani estratti dal primo periodo, quello del demo tape del 1983, Gallipoli 1915.

Ci sarà un nuovo disco con brani nuovi? Se sì, come coordinate musicali dove lo andreste a inserire, nella vostra discografia?
E.: “Sì, l’idea è quella. Come coordinate richiamano il nostro periodo primordiale anche perché il primo periodo degli anni ’80, diciamo fino al 1985, a nostro avviso sono gli anni più creativi, nella musica in generale: si veniva dai settanta e dagli ottanta, dove c’era il punk, il post-punk ed erano rifiorite molte etichette musicali che facevano parte di un unico filone. In quel momento sentivamo il bisogno di far cose nuove, di rompere gli schemi. L’aria che si respirava allora era quella di voler sperimentare qualcosa di nuovo.

Ad Alessandria, in quel periodo su un binario alternativo parallelo – ma di un’altra estrazione – c’erano i Peggio Punx.
E.: “Con i Peggio Punx eravamo amicissimi e all’epoca si aveva un punto di riferimento che era un collettivo autogestito situato in via Scazzola, quello che poi sarebbe diventato anni dopo il Centro Sociale Subbuglio. Erano scantinati e luoghi lasciati dal comune e noi li avevamo messi a posto, creato delle sale prove e resi dei punti di incontro e di aggregazione. All’epoca era una novità in senso assoluto, li abbiamo adattati alle nostre esigenze: si suonava, si produceva, si creava, si insegnava, si preparavano concerti, si faceva anche politica o semplicemente incontri e ci si ritrova. Questo ha sicuramente giovato alla città ed si era d’accordo con il modo in cui si affrontava la musica in quel periodo: sperimentazione, voglia di rompere gli schemi, voglia di spaccare. Quello che stiamo cercando di ripercorrere e riproporre adesso, è lo stato d’animo che vogliamo riuscire a inserire nei nuovi pezzi che stiamo creando. Uno di questi lo eseguiremo al concerto, come inedito.

Ma c’è una data di uscita del nuovo disco?
E.: “È difficile dirlo. Noi ci siamo posti come obiettivo, quello di produrre musica nuova e un certo numero di pezzi per il 2015, perché abbiamo e conosciamo i nostri ritmi. Naturalmente li vorremo far sentire e poter andare anche fuori dall’Italia, perché qui vediamo spazi davvero esigui. Siamo dell’idea che siccome cerchiamo di fare una musica non prettamente italiana, ma internazionale, aldilà del nostro cantato in italiano, non ci sentiamo vincolati all’Italia in quanto tale. Adesso farla conoscere è più facile, cerchiamo di orientarci sia verso etichette italiane ma anche a qualche etichetta straniera.

Avete qualche etichetta di riferimento?
E.: “Non voglio peccare di presunzione ma io credo che far sentire un nostro lavoro alla Season of Mist non sarebbe una cosa fuori portata. Poi vedremo. Sicuramente quello potrebbe essere il riferimento, visto quello che suoniamo e anche perché la SoM non produce solo band che cantano in lingua inglese come i Sólstafir che cantano in islandese. Però l’atmosfera musicale è quella. In paesi come la Germania c’è un seguito notevole della wave italiana e sorpresa di questi ultimi tempi: ci conoscono perfettamente, nella nicchia c’è un bel riscontro. Chiaramente se l’Italia offrisse qualcosa di bello, ben venga, è il nostro paese. Penso che sia giusto che la musica non si racchiuda all’interno di certi limiti.

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Come band siete stati attivi circa 4/5 anni, dal 1983 al 1987. Com’era la scena musicale alessandrina ai vostri tempi?
E.: “La scena alessandrina era fertile, come lo era in tutta Italia in quel periodo, tenendo conto che non c’erano tutte le possibilità che c’erano adesso. C’era però la voglia di mettere su delle band pur non sapendo suonare. Era proprio l’atteggiamento che derivava dal punk che è stato davvero una rivoluzione culturale a tutti gli effetti. In quegli anni lì, nel passaggio dai ’70 agli ’80 si respirava la stessa aria che si respirava nel passaggio dai ’60 ai ’70: quando vennero fuori Beatles e tutto il beat che andò a rompere gli schemi. Peccato che poi questa vitalità non sia stata incanalata con la genuinità giusta. In quegli anni ho visto molte persona voler far musica nuova. A quell’epoca Torino era la città in assoluto con più band giovani alternative ed era fantastico. Gli spazi erano quelli che erano, te li andavi anche ad occupare se serviva. Poi il concetto di autoproduzione a tutti i livelli è nato proprio in quel frangente ed è stato sicuramente qualcosa che ha giovato tantissimo: perché alcune etichette maggiori hanno ‘abbassato un po’ il tono’ e si sono aperte di più”.

Poi però è cambiato tutto nella seconda metà degli anni ’80.
E.: “Beh, poi dopo la seconda metà degli ’80 tutto è crollato e le cose genuine si sono perse. Alessandria gravitava attorno a questi centri (come quello di Via Scazzola) e con i mezzi rudimentali che avevamo si faceva già tantissimo: al Collettivo Autogestito ci eravamo attrezzati con un quattro piste e si producevano dischi di gruppi punk e altro che passavano di lì e registravano in presa diretta. Il secondo 45 giri dei Peggio Punx lo avevamo prodotto lì al collettivo, catturato da session di quel periodo. Si arrivava da un momento in cui se non avevi un’etichetta ed un investimento milionario non si poteva fare un disco. E noi l’abbiamo rotta questa elite insieme ad altri, ed è sicuramente una fortuna averlo potuto vivere in diretta”.

Per alcuni anni siete stati sotto l’etichetta Contempo? Come è stata quell’esperienza?
E.: “Siamo arrivati alla Contempo con il primo demo tape autoprodotto e avevamo già le idee abbastanza chiare su quello che doveva essere il nostro futuro. Era l’etichetta cha aveva prodotto le prima cose di Diaframma e aveva lanciato il nome Diaframma oltre ai primi dischi dei Litfiba. Era diventata un po’ un’etichetta culto, e quindi ci siamo presentati alla porta dell’etichetta con un demo di quattro pezzi registrati da noi. Eravamo partiti con il treno e siamo andati al negozio della Contempo per farglielo sentire. Alla sera, tornammo con un contratto discografico. Ci diedero lo studio e la possibilità di suonare per quattro giorni tutto spesato; abbiamo prodotto un lavoro (Benvenuto Cellini) che per il tempo che abbiamo avuto a disposizione si è rivelato estremamente interessante e ha colpito nel segno, poiché da lì si è deciso di fare un LP investendo di più.

Quindi arriviamo al periodo di Mediterranea (1985). Cosa successe?
E.: “Beh, grazie alla Contempo che ha creduto in noi si è potuto fare. Le etichetta avevano la fiducia di voler investire in qualcosa di nuovo. Mediterranea è stato un disco che si era già incanalato in un altro settore diverso, era il disco che seguiva la wave italiana del periodo”.

Era più pop?
E.: “È stato volutamente più pop, anche se poi la produzione che noi abbiamo messo, anche grazie all’ aiuto di Marziano Fontana – che ora sta producendo lavori solisti di Marcus Reuter dei King Crimson, per intenderci – che ci ha aiutato a produrre un disco non commerciale al 100%, con le sonorità comunque vicine a noi. È un disco che, nonostante accenni all’atmosfera di quegli anni, si rifaceva soprattutto a livello di produzione artistica e di suoni, agli anni settanta: aveva dentro delle batterie tipiche di quell’annata e per noi è stata una vittoria, quello di proporre qualcosa contro gli schemi. L’album Mediterranea è stato proprio un’altra cosa, mirava veramente a fare il salto di qualità. Ci ha dato tante soddisfazioni permettendoci di suonare in tutta la penisola ed essere ai primi posti delle classifiche dei lettori di Rockerilla e Mucchio Selvaggio. Arrivammo nel 1985 davanti a Diaframma e Litfiba. Per noi fu una sorpresa che premiò i nostri sforzi.

La scena italiana degli anni ’80 era interessante e molto attiva: c’erano Gaznevada e Neon, ad esempio. Hai qualche ricordo di quel momento storico-musicale?
E.: “Noi abbiamo conosciuto parecchi di questi gruppi. Con alcuni membri dei Gaznevada siamo molto amici, ci suonammo assieme in una rassegna a Palermo, Musica Contro il Silenzio (3 settembre 1986) ed fu un modo per conoscere band nate un attimo prima di noi ma ci sembravano davvero i precursori di tutto un movimento musicale, spaccando tutto. La scena di Bologna era stupenda, riascolto ancora i Confusional Quartet e rimango sempre estasiato. Noi abbiamo vissuto più quella fiorentina perché siamo arrivati dopo, che è stata un po’ la continuazione ma più orientata sulla dark wave e l’elettronica, come i nostri compagni di etichetta Pankow. Poi si è evoluta verso la wave italiana. I primi Diaframma e i primi Litfiba sono nati a Firenze, che è stata un po’ la culla; e il titolo “Benvenuto Cellini” è un omaggio ad una città che per noi ha significato tanto. La seconda parte degli anni ’80 è poi esplosa come delle schegge impazzite e il panorama si è un po’ sgretolato anche a causa di una certa saturazione che ha poi ha portato al collasso”.

E le etichette, all’epoca, come si comportarono?
E.: “Nei nostri confronti le etichette di allora si comportarono un po’ da provinciali. La Contempo distribuiva in Italia la 4AD (Pixies, Cocteau Twins, Breeders, Clan Of Xymox) e nonostante avessero obiettivi ambiziosi, la scena musicale fiorentina, quella delle etichette/produzioni, si faceva la guerra tra di loro: una era la Contempo,appunto, e l’altra, l’IRA records. Si sono annientate e distrutte a vicenda. Non hanno certo aiutato i gruppi come noi a poterci esprimere nel modo migliore. Dopo Mediterranea, avevamo l’intenzione di fare veramente il salto di qualità, ci siamo trovati in mezzo ad una situazione in cui altre etichette ci volevano e noi non siamo riusciti a rescindere in nessun modo nessun contratto con la Contempo che ci ha tenuto fermi e ci ha fatto morire. Tra 1986 e il 1987 avevamo prodotto 12 pezzi per un nuovo disco, che non uscì mai. Ci contattò anche Franco Mamone, che era uno dei più grossi promoter italiani – portò in Italia Depeche Mode, Springsteen, Bob Marley – e ci portò a registrare a Milano a sue spese dei provini per il disco nuovo. Peccato che, come già detto, il contratto con la Contempo non si riuscì a rescindere ed per quello che poi il gruppo si è sciolto, perché c’era tanta rabbia, frustrazione e stress. Perché nessuno voleva arricchirsi, volevamo essere liberi di suonare e portare in giro la nostra musica. L’importante è riprovarci adesso”.

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