Intervista a Max Casacci: “Non ho avuto la percezione di registrare qualcosa in via d’estinzione, ma quella di realizzare un album senza data di scadenza”

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Max Casacci racconta le ricerche e le suggestioni che hanno ispirato Earthphonia, l’album realizzato con suoni della natura

RUMORE COVER FB NATALE 2023

di Chiara Longo

Max Casacci, storico chitarrista dei Subsonica, ha pubblicato un disco abbinato a un libro edito da Slow Food, tutto ricavato manipolando digitalmente suoni tratti dalla natura: dall’acqua ai sassi, dai vulcani all’aria, dalle Alpi alle Ande, Earthphonia è un museo di suoni naturali che ci raccontano una natura incombente ma anche meravigliosa. Nel raccontare il disco Casacci è prodigo di episodi e soprattutto ci tiene a condividere le fantastiche scoperte scientifiche che ha appreso nel lavorare con un team di scienziati, divulgatori, artisti e attivisti che l’hanno aiutato a raccogliere i suoni necessari per la realizzazione dell’opera. Con lo stupore del bambino davanti a un atlante di storie e colori, ci ha raccontato di api che ballano, lupi che suonano il basso, mari del nord glaciali e misteriosi, sassi magici e curiose coincidenze.

Come è nato e come si è sviluppato il progetto di Earthphonia?

“L’idea zero di lavorare a un album con i suoni della natura è nata durate il lockdown, quando avevo già collezionato alcune di queste esperienze. Già da 10 anni mi occupo di trasformare i rumori in musica, relazionandomi però allo scenario urbano, ai luoghi di lavoro, ai mezzi di trasporto, alla città, ai motori. Due anni fa mi era capitato di fare un’esperienza sull’isola di Gozo vicino a Malta. Avevo sentito parlare di alcune pietre, utilizzate nell’antichità, capaci di generare suoni. Sono andato in località Ta’ Cenc, che dà il nome alla traccia, insieme a Luca Saini di HatiSuara, e avendo con noi un registratore digitale e una telecamera, ci siamo messi a giocare con queste pietre. A sera, allineando i file sul computer, abbiamo scoperto che erano naturalmente intonate tra di loro, e quello che doveva essere un semplice trastullo musicale, è diventato un brano musicale e un video. Questa prima esperienza ha innescato il secondo capitolo, Watermemories, su richiesta da Michelangelo Pistoletto, che aveva ascoltato Ta’ Cenc e mi aveva chiesto se fosse possibile trasformare in opera sonora i suoni dell’acqua di Biella. Successivamente l’Ente del Delta del fiume Po, in Emilia Romagna, mi ha chiesto di replicare l’esperienza anche relativamente a quella zona umida. Mi stavo preparando a partire con i microfoni per andare a registrare, quando il lockdown mi ha bloccato, e sono rimasto a casa a lavorare con i suoni che mi sono stati spediti da quel luogo: versi di uccelli meravigliosi, rumori del vento, rumori dell’aria etc etc. Da lì sono entrato in contatto con Mariasole Bianco della Onlus Wordrise che mi ha inviato i suoni del Grande Oceano. A quel punto, chiuso in casa, con la prospettiva di avere del tempo da destinare a questi esperimenti, è nato dentro di me un sentimento in più, la sensazione di stare facendo qualcosa di significativamente legato al mondo che sarebbe venuto dopo il lockdown: sia dal punto di vista dell’approccio alla musica, più che sperimentale quasi eretico, senza strumenti musicali, di sperimentazione giocosa, ma soprattutto dal punto di vista della materia prima indagata, cioè i suoni della natura, quasi a volerne svelare alcuni lati più stupefacenti”.

Quindi sei stato produttivo in lockdown.

“Stavo facendo qualche cosa che mi ispirava moltissimo, dopo un primo periodo in cui quella che è la fonte principale della mia ispirazione, la città, era ferma, e quindi non stava dando segnali. Con una connessione relativa a un mondo che fermo non era, la natura si stava paradossalmente riappropriando dei propri spazi, e così ho sentito una connessione profonda con qualcosa di molto significativo. In quel momento ho deciso che avrei proseguito e avrei cercato di dare una forma compiuta per arrivare ad avere un album intero. Non sapevo ancora bene come e con quali argomenti, però ne sentivo la necessità”.

Il progetto Botanica dei Deproducers consisteva nel dare alle piante un suono tramite l’uso degli strumenti. Com’è stato approcciarsi alla composizione nel caso di Earthphonia?

“Rispetto a quell’esperienza l’approccio è ribaltato, e anche il processo creativo. Nel momento in cui vuoi scrivere o accompagnare una suggestione scientifica o una narrazione con gli strumenti, parti dalla forma più tradizionale, cioè cominci a suonare il tuo strumento e vedi un po’ dove ti porta. Per Earthphonia ero in balia di quello che trovavo, era una scoperta continua. Quando sono andato a Biella a cercare fra le sorgenti e tutte le zone che il torrente Cervo attraversa nel suo percorso fino all’ingresso in città, collezionando i suoni che incontravo, cercavo di capire da dove partire. Quando spacchettavo le cartelle audio che mi arrivavano dagli oceani o dalle terre umide del delta del Po, era come aprire un pacco regalo: vediamo cosa abbiamo qui e vediamo che cosa la casualità mi suggerisce. Quindi come ti anticipavo l’approccio è stato inverso, sei un passo indietro rispetto al processo creativo ed è uno smarrimento costante. Per me è stata una grande esperienza, non c’è di meglio dello smarrimento da un punto di vista musicale”.

In quell’occasione avevi già collaborato con Stefano Mancuso, che compare anche nel progetto Earthphonia.

“Mancuso mi aveva parlato dell’inizio dei suoi studi, che erano proprio legati ai movimenti delle piante. Da biologo aveva analizzato il movimento delle radici, e aveva fatto una constatazione molto semplice ma sconvolgente. Le radici delle piante in presenza di un ostacolo deviano il loro percorso, ma senza il supporto degli organi di senso. Osservarne il movimento è stata un’epifania. Da lì ha cercato di capire come la pianta potesse accorgersi dell’ostacolo e ha intuito che le piante utilizzano il suono per orientarsi. Dunque gli ho chiesto di passarmi le registrazioni che aveva realizzato in uno spazio anecoico, cioè un luogo acusticamente neutro, senza la contaminazione dei rumori della natura. È un suono che va ultra-amplificato ovviamente, perché è quasi inudibile, e assomiglia incredibilmente a un clic digitale. Immagina un suono della natura, precedente a qualsiasi forma non dico di tecnologia, ma di attività umana, che alla fine sembra una funzione tecnologica. Da quel suono è nato un intero brano, Roots Wide Web. In questo caso la manipolazione è stata molto forzata, ho cercato di estrarre una risonanza usando un campionatore granulare, attraverso la quale costruire degli strumenti immaginari che restituissero quest’idea di foresta guardata dall’alto ma contemporaneamente anche sottoterra, dove si svolge l’intensa attività cognitiva delle piante”.

Esistono molti progetti di library musicali che conservano suoni in via d’estinzione, così questo album in alcuni momenti mi è sembrato un museo di suoni che rischiamo di non sentire più, penso per esempio al ronzio delle api del brano The Queen. Avevi pensato a questo tipo di responsabilità?

“La specie in via d’estinzione in realtà non è l’ape mellifera perché gli apicoltori la preservano. Quelle a rischio sono gli insetti impollinatori, le api più solitarie, che hanno una conformazione biologica adattata perfettamente alla struttura dei fiori dei quali sono i principali impollinatori. Non ho avuto la percezione di registrare qualcosa in via d’estinzione, ma quella di realizzare un album senza data di scadenza. L’idea di fare un’opera sonora che non ha scadenza mi piaceva moltissimo. Anche questo mi ha ispirato tanto: un album che usa come materia prima i suoni della natura e che non fa riferimento a dei generi musicali, se non forse nei due casi del brano sui vulcani e proprio il pezzo delle api, che hanno una pronuncia di genere abbastanza espressa, ma che rientra nel quadro narrativo di quel brano”.

Puoi spiegarmi meglio questo concetto? Com’è nato il brano sulle api?

“Per The Queen mi sono recato a registrare sulle colline della mia città, un’esperienza che mi ha messo nelle condizioni di capire che tipo di storia sonora raccontare. Tutto è incominciato nel momento in cui mi sono andato a comprare una tuta da apicoltore. Sin da bambino ho sempre avuto il terrore di essere punto dalle api e dalle vespe, non mi è mai successo, e non mi hanno mai molto rassicurato le storie relative allo shock anafilattico, quindi sono partito con la mia tuta da apicoltore e con dei farmaci cortisonici in tasca insieme a un assistente microfonista. Abbiamo raggiunto le arnie di Mauro Pizzato, uno dei responsabili della produzione del miele di Slow Food. Dire che è un appassionato di api è riduttivo, sente proprio una vicinanza animale. Ascoltarlo raccontare la figura della regina mi ha molto colpito: contrariamente a quanto immaginiamo è sì la figura cardine di tutta la vita dell’alveare e del corpo sociale delle api, ma è anche schiacciata in questo ruolo. Mi ha ricordato improvvisamente Marie Antoinette del film di Sofia Coppola, perché la storia della regina delle api ricorda in tutto e per tutto una letteratura di intrighi di corte… questa regina che a un certo punto deve uccidere le altre regine nel nido, viene scelta dalle api operaie però poi deve sfornare almeno 2000 uova al giorno e quando non è più in grado di emettere i ferormoni che facciano sentire all’intera comunità la sua presenza, viene pugnalata con il pungiglione oppure scaldata fino alla morte. Ho scoperto che un meccanismo di difesa delle api è anche la capacità che hanno nell’addome di raggiungere una temperatura di 40 gradi, che cuoce il calabrone di turno. Storie veramente incredibili. Intorno alla figura della regina ho capito che avrei orientato il brano verso la musica della monarchia per eccellenza, il barocco. Avrebbe avuto una pronuncia barocca, ma contemporaneamente, attraverso le altre storie che mi sono state raccontate, ho scoperto che le api sono una democrazia dance, cioè prendono alcune fra le più importanti decisioni per le sorti dell’intero alveare attraverso una serie di passi di danza, che sono in realtà delle coordinate. Quando l’alveare si sdoppia, le api esploratrici indicano la migliore località per andare a trasferire il nuovo alveare. Più api ballano con questo passo, più la decisione dell’alveare propenderà a maggioranza verso quel tipo di soluzione. È una cosa incredibile”.

Forse dovremmo adottarlo anche noi ogni tanto come metodo.

“Infatti sì (ride). Da questo punto di vista, la cadenza ritmica della danze di corte suggeriva una sorta di ballo in onore della regina. Queste storie che ho ascoltato la mattina stessa in cui sono andato a prendere i suoni, hanno orientato poi il pezzo e di conseguenza la ricerca del suono. Inoltre l’ape regina ha questa vocalità quasi da trombetta, che mi ha consentito di costruire una specie di oboe virtuale, uno strumento della musica barocca”.

Un altro brano dove hai ricavato dal verso di un animale quello di uno strumento musicale è Terre alte, in cui i lupi prestano la voce per i bassi e l’assolo. È un altro brano particolare perché è l’unico che contiene le voci umane e anche dei suoni non propriamente della natura, cioè le campane.

“Sentivo la necessità di inserire anche l’uomo in Earthponia, non sapevo ancora come però. Ho trovato nell’ultimo brano un buon motivo per farlo perché l’elemento antropico è quasi sempre visto come un’intrusione negativa nei confronti degli equilibri della natura, soprattutto rispetto alle necessità degli ecosistemi, a tutta una serie di fenomeni distruttivi. Nel caso delle terre alte invece, è l’abbandono delle montagne da parte dell’uomo a rappresentare un fattore di squilibrio e di rischio. A un certo punto si sentono anche delle voci di un mercato andino. La premessa è che in pieno lockdown non potevo andare a cercare dei suoni, e mi è venuto incontro Carlo Petrini di Slow Food Terra Madre, che ha lanciato una sorta di appello ai coltivatori di tutto il mondo, dall’Azerbaijan, all’Africa, alle Ande, che inviassero dei brani dalle loro zone. Inizialmente la mia formazione culturale mi avrebbe portato a realizzare un brano intendendo la montagna come la intendiamo noi alpini, ovvero un luogo di silenzio, di sfida, un luogo ascetico, di salita verso l’alto e quindi di elevazione che implica fatica e impegno. In realtà le montagne non sono necessariamente un luogo silenzioso, infatti da altre parti, con altri colori e altre modalità, mi sono arrivate suggestioni diverse. Le Ande hanno in qualche modo sostituito le Alpi che erano l’immaginario a me più vicino nella narrazione della montagna. Invece dalle Alpi mi sono arrivati suoni che rappresentano forse l’esperienza acustica più frastornante e ipnotica che si possa fare, ovvero la transumanza. Trovarsi in mezzo a quelle centinaia e centinaia di campane e campanelli che suonano all’unisono ti stordisce in modo euforizzante, e quindi sul finale del bel brano piano piano insieme alle voci andine crescono tutte queste campane della transumanza alpina e appenninica”.

Tu personalmente quale ambiente sonoro preferisci tra quelli presenti nel disco?

“Io sono legato all’aria, infatti nei testi dei Subsonica il cielo è uno degli elementi che ricorrono più spesso. Direi quindi il brano Delta. Anche Watermemories però è simbolico per me. Credo che contenga un rapporto quasi psicanalitico con l’elemento dell’acqua. Mi piacciono molto queste gocce che da piccole diventano sempre più gravi, e ti spingono ipnoticamente a entrare nel flusso. Lì non sei solo nel torrente di Biella, sei in una sorta di relazione con una memoria ancestrale, biologica, una cosa che abbiamo dentro. Inoltre il 2 ottobre la palazzina di Città dell’Arte che ospitava l’opera di Pistoletto da cui è nato il brano, è stata distrutta dal torrente Cervo, che si è riportato via i suoi suoni. Mi sembrava la chiusura di un cerchio. La parte di composizione è stata il 50% del lavoro, perché la parte di missaggio ha richiesto tantissimo tempo nella misura in cui scegliere di dare peso o meno a un singolo suono cambiava completamente la risposta emotiva alla sollecitazione sonora. In Watermemories il suono del flusso portante del fiume dopo una certa esaltazione delle basse diventava ansiogeno. Tagliando troppo le basse diventava rilassante, ma mi sembrava un po’ un effetto da sauna o sala massaggi. Non volevo che fosse semplicemente rilassante, perché era giusto che anche l’acqua di Watermemories restituisse anche il fiume come elemento di minaccia. Ho speso moltissimo tempo a cercare di trovare il giusto equilibrio tra la rilassatezza e l’inquietudine”.

Questo senso di incombenza si sente anche in Oceanbreath.

“Esatto, l’oceano di Oceanbreath non è “chiudi gli occhi e ascolta il mare e rilassati”. È un mare che sollecita, che smuove delle corde profonde. Il respiro dell’oceano è un respiro maestoso. Gli oceani che ho in mente da quando ero bambino sono quelli del nord: le acque fredde, le orche assassine, quindi non volevo che fosse la lettura che hai dalla spiaggia. Per prima cosa ho girato le onde al contrario. Sembra un dettaglio ininfluente ma in realtà tutta l’azione si svolge sotto l’acqua, e girando il suono ho ribaltato la posizione dell’ascoltatore”.

Una delle parole chiave del progetto è sostenibilità. Che significato ha per te? Hai applicato qualche pratica nel tuo quotidiano per vivere una vita più sostenibile? Cosa hai imparato dai ragazzi e le ragazze di Fridays for future e Extinction Rebellion?

“Il comportamento individuale ha un peso, ma nei fatti poi è la massa, è Greta che cambia le cose, che spinge l’economia, l’industria e soprattutto la politica alle scelte. Dal mio punto di vista ho fatto quello che potevo fare, avendo la possibilità di farlo, nel rendere il mio appartamento a impatto bassissimo, ho fatto una scelta di autonoleggio a lungo termine con un’ibrida. Vivendo in una delle città più inquinate del mondo l’idea che nei miei spostamenti possa danneggiare un bambino o una persona possa contribuire a sporcare l’aria è una cosa che non mi fa stare bene, però credo che il valore aggiunto di Earthphonia sia nell’imporre un cambio di registro nella narrazione di inquietudine in senso allarmista. Dobbiamo trovare altre strade per empatizzare con la natura e con gli ecosistemi, scoprendo che sono luoghi delle meraviglie. Meritano tutta la nostra attenzione, non solo per la loro fragilità o perché compromettendone i meccanismi ne veniamo danneggiati, ma proprio per il fatto che sono dei luoghi interessanti, si scoprono delle cose incredibili che ci aiutano ad aumentare il senso di empatia e diventare più generativi nel cercare soluzioni. Questa è la mission di Earthphonia, arrivare ad un coinvolgimento che sia di vicinanza e conoscenza della natura. Per questo si è reso anche necessario completare l’operazione con un libro: ogni brano si porta appresso una grande quantità di storie, relazioni e dialoghi, che ho potuto realizzare grazie a un dream team di tutto rispetto”.

Quando si potrà tornare ai live, hai pensato a dei luoghi non convenzionali dove ti piacerebbe portare Earthphonia?

“È un progetto che si presta a essere abbinato a luoghi suggestivi, anche se io l’ho già sperimentato anche per le strade durante le manifestazioni dei Fridays e dei Rebellion. Può stare anche sul palco di un festival rock. Quest’estate ho portato i brani non ancora definitivi in un festival a Empoli, dove il pubblico era stato invitato a mantenere le distanze in un prato portando delle coperte che delimitavano naturalmente gli spazi, e i ragazzi erano seduti e sdraiati ad assimilare queste suggestioni sonore. È stato un momento molto bello. Vale dai giardini botanici agli acquari, ai musei di storia naturale. Sto mettendo su un live con un supporto visual perché sia poi in grado di affrontare anche la nudità del palco tradizionale. Sul finale poi virerò sulle esperienze di musica senza strumenti legate allo scenario urbano, quindi più ritmate, tratte per esempio dai mezzi di trasporto pubblico, per cui in qualche modo la chiave ecologista si trova anche nell’utilizzo del suono più urbano. Così il set si completa, con una parte più sognante e una più incalzante per ballare, quando si potrà”.

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