Intervista ad Adrianne Lenker: “Noi umani siamo parte del pianeta ma ce ne dimentichiamo”

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(Credit: Genesis Báez)

Nel bellissimo film Senza Lasciare Traccia di Debra Granik nel 2018, un padre (veterano di guerra con disturbi post traumatici) vive con la figlia tredicenne in una foresta vicino a Portland, per sfuggire allo stress degli obblighi sociali della vita fra le persone. Il loro alloggio è una tenda riparata dagli alberi. Intorno, solo il rumore del vento che sibila fra le foglie e le loro conversazioni ridotte a minime istruzioni pratiche per sopravvivere. Non serve altro. Alla fine, mentre la figlia troverà un nuovo inizio in una comunità dell’Oregon, il padre riconoscerà la propria incapacità di condurre un’esistenza normale. La saluterà con la mano e un sorriso, addentrandosi dentro l’abbraccio degli alberi del suo bosco.

Il nuovo (doppio) disco di Adrianne Lenker sarebbe stato perfetto come colonna sonora e concetto d’accompagnamento alle immagini del film. Musica che si nutre di sottrazione, a confermare con un sussurro che, a volte, non serva altro. Un disco nato dalle limitazioni della pandemia: il tour della sua band Big Thief interrotto all’improvviso e la scoperta di un piccolo cottage sulle montagne a ovest del Massachusetts. Un’occasione per riprendersi il proprio tempo, comporre nuove canzoni lasciando che la natura circostante ne sveli narrativa e ragioni. Con i suoi ritmi non adulterati, i suoi rumori, il suo invito ad una solitudine che diventa sollievo. L’ingegnere del suono Philip Weinrobe rende le necessità della chitarrista/compositrice attuabili, con i suoi registratori a nastro e un microfono binaurale.

Il disco nasce nella penombra della baita/chitarra, fra le limitazioni dell’ambiente circostante che svelano possibilità nuove. Si registra la mattina e la sera. In mezzo camminate, bagni nel ruscello vicino e cene davanti al camino. La natura intorno al cottage diventa strumento che i microfoni catturano, lasciando che s’intersechi con il fingerpicking dell’autrice. Che disegna un universo di umori intimi, simboli d’innocenza che emerge da un mondo mai facile, acquietandosi nei tempi dettati da una natura che diventa sorella. Sessioni che permettono ad Adrianne di portare all’estremo i suoi studi acustici iniziati con l’esordio Abysskiss del 2018, espandendoli al punto da completarli con due lunghe composizioni strumentali che ne avvicinano il tocco agli esperimenti di americana astratta di Jim O’Rourke. Se esiste un disco che, pur non volendo dichiararsi da quarantena, può essere antidoto quando si ha bisogno di chiudere gli occhi, fuggendo dal tempo che ci è’ stato rubato, è sicuramente questo doppio semplicemente intitolato Songs + Instrumentals. Non serve altro. Ne parliamo direttamente con lei, collegata da qualche parte in Illinois, attraverso una linea telefonica precaria.

Nel comunicato stampa del nuovo album, descrivi cosi l’ambiente in cui lo hai registrato: “Ho stabilito una connessione con quello spazio. Mi sembrava l’interno di una chitarra acustica”. Ho trovato il concetto molto interessante. Ce ne parli?

“La baita era costruita di legno, solo legno. Un piccolo cottage da una camera singola, fatta di legno di pino. L’armatura metallica era esposta all’interno e mi ricordava quasi il manico della chitarra. E poi il modo in cui il suono si generava in quella stanza, mi sembrava il più naturale che la mia chitarra avesse mai avuto. Spesso, quando suoni e registri ti sembra di poterci mettere qualcosa che poi renderà il suono migliore, ma non c’è nulla come sentire il suono di un ambiente come il tuo”.

Che difficoltà hai trovato, dovendo registrare in quell’ambiente particolare?

“Di sicuro l’elettricità, quando abbiamo provato con tutti i registratori a nastro che ci eravamo portati. C’è voluta una settimana e mezza semplicemente per provare ad iniziare a registrare. Eravamo collegati alla linea di corrente principale con una semplice prolunga. Poi i registratori multitraccia hanno le loro limitazioni intrinseche. Che, alla fine, è una cosa figa. Non avere la possibilità di tentare all’infinito e doverti preoccupare sempre di cosa tieni e cosa butti. Non puoi stratificare i suoni senza limiti, perché hai solo otto tracce. In quattro ci metti i microfoni, la chitarra, le voci e te ne rimane solo la metà, con cui fare un po’ di sovraincisioni”.

Qual è stata l’ispirazione per tutti i suoni d’ambiente che si sentono nel disco?

“È stato l’ambiente circostante a scegliersi da sé. Philip Weinrobe, l’ingegnere che mi ha aiutato, ha avuto quest’idea di portarsi un microfono binaurale, che riusciva a tradurre la percezione umana del suono, andando anche oltre. L’ambiente intorno a noi ha praticamente orchestrato la sua presenza. Non abbiamo avuto bisogno di introdurre abbellimenti o suoni naturali preregistrati. Tutto quello che si sente, succedeva nella stanza nel momento esatto in cui suonavo. Abbiamo lasciato che tutto succedesse naturalmente”.

(Credit: Genesis Báez)

Il tuo rapporto con l’ambiente sembra essere un fattore chiave del tuo processo creativo. Da dove arriva questa relazione quasi simbiotica con la natura?

“Anche se a volte rifiutiamo di ricordarcene, noi umani siamo parte del pianeta. Ce ne dimentichiamo soprattutto quando siamo in ambienti urbani, dove tutto finisce per essere pura rappresentazione. Una cosa che mi ha sorpreso, stando per lungo tempo nella baita, è stato scoprire quanto avessi dimenticato il mio rapporto con la natura. Vivendo per tanto tempo in città, o viaggiando con i Big Thief. Per anni, senza fermarmi mai. All’improvviso, tornavo ad ascoltare suoni che sembravano dimenticati nella mia memoria. Il vento fra le foglie, gli scoiattoli che grufolavano, gli insetti. Anche il ciclo delle stagioni, da autunno a primavera è stato come una riscoperta per me. Quando sei in mezzo agli esseri umani, dentro ad ambienti costruiti, diventa tutto un gioco di riflessi. Ti sembra di essere nella stanza degli specchi del luna park. In mezzo al bosco puoi stare a guardare le cose per ore, senza che nulla s’affretti e si rifletta su di te. Mi ha fatto sentire subito bene, come un salutare massaggio per i bulbi oculari”.

Quanto è importante per te il metodo come parte integrante del tuo processo creativo?

“Non ho una formula preordinata. Certo, c’è il cliché ‘non è la destinazione, ma il viaggio che conta’. Fare un album non è solo un traguardo da raggiungere. Vuoi sentirti bene e goderne, nell’attimo esatto in cui lo suoni. Il mio processo creativo è una curva d’apprendimento, che evolve da quanto imparo volta per volta”.

Ci parli della tua ammirazione per le tecniche musicali e di composizione di Pauline Oliveros?

“Ho scoperto la sua musica quando ero nel deserto con amici. Uno di loro mi introdusse ad Accordion & Voice. Mi ha trasportato in un profondo stato meditativo, e sentivo che mi chiedeva pochissimo per entrarci. Mi sarebbe piaciuto incontrarla. La sua qualità esplorativa mi ha influenzato molto. Esplorare attraverso l’ascolto, di continuo”.

Ha studiato chitarra all’università di Berkeley, in California. Come bilanci le tue conoscenze accademiche con il tuo istinto?

“Non è troppo difficile per me dimenticarmi della mia formazione scolastica (ride nda). Anche quando ero a Berkeley, non cercavo formule, ma la conoscenza tecnica oggi mi aiuta, rappresentando una mia seconda natura, che si integra con il mio istinto. Io cerco di essere sempre intuitiva, ma riconosco l’aspetto cerebrale del mio modo di suonare. Anche quando provo ad abbandonarmi suonando, cerco comunque di evitare raffinamenti. Con i testi è la stessa cosa: mi nascondo nei concetti, senza caricarli troppo di peso narrativo”.

Cosa ispira i tuoi testi?

“Devo addentrarmi dentro di me, per poter parlare del mondo che mi circonda. Al mio interno, per spiegare come sono all’esterno. Cosi, non posso fingere nulla. I miei testi nascono fra le mie ossa, dove non posso che sentire verità”.

Zombie Girl parla del vuoto come di un concetto non necessariamente negativo. Ce ne parli?

“Il vuoto mi affascina. Nella canzone, chiedo al vuoto di rivelarsi, in modo che io ne comprenda la natura, senza doverlo riempire come un buco, con tutte le cose che pretendo di metterci sopra. Le sigarette, il caffè, l’alcol, ma anche la mia musica e le mie continue domande. L’immobilità del vuoto è spaventosa ma affascinante nello stesso modo”.

La tua musica sembra sempre vivere in equilibrio fra radici e tensione sperimentatrice. Ti ci ritrovi?

“La tradizione cambia nel tempo. Anche adesso stiamo creando nuove tradizioni, ma non lo sappiamo ancora. Trovo sempre incredibile il modo in cui chi è venuto prima di me, abbia costruito un cammino su cui imparare, per espanderne il senso in futuro. Senza dover fissarmi necessariamente sul fatto di dover suonare originale a tutti i costi. Lascio che tutti i riferimenti mi entrino dentro e guidino la mia sperimentazione, come un flusso unico”.

Perché hai voluto misurarti con due lunghe tracce strumentali?

“Entrambe sono set d’improvvisazione che abbiamo messo insieme da varie sessioni giornaliere. Suonavamo due volte al giorno, la mattina e la sera. Ho sempre suonato la chitarra cosi, quando sono da sola. Inizio, trovo una linea e poi improvviso. Facevo cosi da quando avevo sei anni e ho voluto catturare quella parte del mio modo di suonare, che non era cosi significativa per molti. Un qualcosa di inconscio e un pezzettino di ego. Mi piace l’idea della musica strumentale come una compagna che puoi ascoltare con attenzione o tenere come sottofondo, senza troppo concetto”.

Cosa ne pensi di quanto ci sta succedendo in questi mesi?

“La musica traduce quello che ci succede come esseri umani. È impossibile evitare quel collegamento. La mia coscienza musicale si adatta a come il mondo cambia intorno a me”.

Redazione Rumore
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