Intervista ai Weezer: “Se la gente dice che il Black Album fa schifo, perché ne parla?”

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di Davide Agazzi

È un grande momento per gli Weezer: la band di Rivers Cuomo è fuori con due nuovi dischi, il Teal Album, un disco di cover ispirato agli anni ’80 e il Black Album, il nuovo inedito, uscito a poche settimane del precedente lavoro. Il disco di cover ha preso vita quasi per gioco, grazie all’ossessione di una fan che si è mobilitata online perché la band losangelina si cimentasse in una cover di Africa, sì, proprio l’immortale classico dei Toto. La cosa è diventata virale ed ha dato il via al classico effetto snowball, col risultato finale di un intero disco di cover (e di un buffissimo video che cita gli stessi Weezer di Undone, con protagonista il re americano delle parodie, Weird Al Yankovich) che, paradossalmente, ha avuto più successo, almeno in termini di visibilità, del nuovo album vero e proprio. I Weeezer hanno vissuto una carriera fatta di alti e bassi: l’incredibile successo del primo disco, trainato da singoli di enorme popolarità come Say it ain’t so e Buddy Holly, a sua volta accompagnato da un video diretto da Spike Jonze che fece epoca, a cui seguì Pinkerton, dalla storia ben diversa, un disco più scuro che non raccolse le stesse fortune del precedente, portando la band sul punto di sciogliersi e lo stesso Cuomo alla depressione, in totale isolazionismo in una casa con le finestre dipinte di nero perché la luce non potesse penetrare al suo interno.

Già, i colori.

Dal rosa tristanzuolo di Pinkerton al verde speranza del Green Album, il disco della rinascita, quello di Hash Pipe e Island in the Sun. La carriera della band è sempre stata un continuo saliscendi, perennemente alla ricerca dell’equilibrio perfetto tra una propria espressione artistica e la necessità di dare in pasto a milioni di fan quello che vogliono. I fan degli Weezer, in occasione della doppia uscita, sono stati ben fotografati da uno sketch della storica trasmissione americana Saturday Night Live, che ha visto protagonista il divo di Hollywood Matt Damon. Ma la vera notizia, almeno a queste latitudini del globo, sta nel ritorno della band nel nostro paese dopo venti anni di distanza, praticamente un rapporto mai consumato, una sorta di amore epistolare, quello fra i fan italiani e la band di Beverly Hills, che potranno finalmente (ri)congiungersi in occasione del Sonic Park Festival di Bologna il prossimo 7 luglio.

Dall’altra parte del telefono c’è Brian Bell, storico chitarrista della band.

Prima di parlare del vostro nuovo disco, il Black Album, vorrei fare un passo indietro e cominciare dal Teal Album.

“Sì, pensa che faccio quasi fatica a dire ‘tornare indietro’. I due dischi sono usciti quasi in contemporanea ma sono stati registrati nello stesso momento e quindi nella mia testa appartengono allo stesso periodo. Da un punto di vista culturale, il Teal Album ha probabilmente avuto un impatto maggiore rispetto al Black Album, non ho alcun problema ad ammetterlo. Credo che il Teal Album sia fantastico”.

Come avete scelto i pezzi per le cover?

“È cominciato tutto con Africa dei Toto. Quello ha dato il via a tutta la questione delle cover, che poi noi non siamo neanche mai stati un gruppo da cover e infatti non è che siamo partiti proprio benissimo. E quindi, dicevo, è cominciato con Africa, e con questa ragazzina online che spingeva per fare questa cover, e poi i media si sono lanciati sulla notizia, ed anche qualche star”.

Quindi è andata davvero così.

“Sì sì, quel che hai letto in giro è tutto vero”.

Sì conosco la storia ma, te lo confesso, credevo fosse una trovata promozionale.

“Naaa, non puoi inventarti una roba del genere (ride!). Il nostro ufficio stampa dovrebbe essere davvero un genio. Ma credo, questo sì, che altre band cercheranno di emulare questa cosa anche se non sarà facile per loro: è stato tutto così onesto, un qualcosa di davvero genuino. Ed è questo fattore che ha reso il tutto una così efficace macchina promozionale ed è per questo che tutti ne hanno parlato. E quindi a quel punto eravamo in questo stato mentale ‘da cover’ e abbiamo pensato di farci un disco. E visto che, con Africa, eravamo immersi negli anni ’80, abbiamo deciso di rimanerci. C’erano altre canzoni in ballo, ma alla fine abbiamo scelto quelle dieci, e poi ci siamo mossi come sempre in studio, seguendo il medesimo processo produttivo. E per il fatto che, nello stesso momento, stavamo scrivendo anche il Black Album credo che, per quest’ultimo, ci sia stata una minore attenzione ai dettagli, questo sì. È stata una fantastica esperienza, un periodo molto creativo ed è bello che adesso i fan possano godere dei frutti del nostro lavoro”.

Personalmente lo avevo visto come una sorta di mixtape hip hop: un’uscita ‘minore’ per tenere alta l’attenzione sul nome della band in attesa del disco vero e proprio. Ma evidentemente non è stato così.

“Che dire… io non è che abbia proprio la mentalità da imprenditore o da music business. Io mi limito a fare cose che mi piacciano musicalmente, altre persone si occuperanno di capire quando e come vendere le mie idee. Abbiamo un nuovo management e devo dire che il processo classico di produrre un disco ogni due anni, promuovendolo poi per tre mesi, è stato praticamente tirato nel cesso. Voglio dire, quando poi il Black Album è effettivamente uscito, mezzo disco era già stato promosso. È stato il Teal Album ad aiutarlo nella produzione? È stato il Saturday Night Live? Non lo so, immagino siano vere entrambe le cose, ma nessuna di queste è stata realmente calcolata a tavolino ed è proprio per questo che hanno funzionato”.

Le cover sono molto simili alle versioni originali, e questo sembra aver polarizzato la vostra fan base. Alcuni hanno amato il disco per questo motivo, altri lo hanno odiato per le stesse ragioni.

“Sono arrivato a capire che la polarizzazione è un po’ quello che si vuole ottenere. Ci saranno i fan che ameranno sempre qualsiasi cosa tu faccia, e poi quelli che invece respingeranno ogni tua proposta, e poi ci sono quelli nel mezzo ed è lì che avviene la polarizzazione. Come artista, non posso pensarci troppo, cerco di tirare fuori il meglio, quello che vorrei che emergesse, però, è l’attenzione ai dettagli che abbiamo riservato a queste canzoni. C’è dietro un grande lavoro e chi sostiene che i brani siano troppo simili agli originali in realtà non sta ascoltando con attenzione. Ci sono variazioni, nei brani, che suonano come se fossero state sempre presenti, tanto è il valore del lavoro”.

Beh, visto che ne hai parlato tu, qual è stata la tua reazione allo sketch del Saturday Night Live dove si ironizzava sugli Weezer e sui loro fan?

“È stato un po’ come essere prigionieri in un tunnel spazio-temporale, dove il tempo per un secondo si è fermato ed è davvero difficile capire cosa stia accadendo. Quando sei protagonista di uno sketch del SNL finisci immediatamente al centro dell’attenzione pubblica e quello non è un bel posto dove stare. ‘Quello è Matt Damon che parla degli Weezer? Ma almeno ci conosce?’ Ci avevano avvertito che ci sarebbe stato qualcosa su di noi, e ti confesso che ero terrorizzato. Conosco gli scrittori del SNL, intendo che li ho proprio incontrati, e tutto quello che hanno fatto è stato dare un’occhiata sui forum dei nostri fan e riprendere questo tema polarizzante che da anni tiene banco. E fortunatamente ho subito capito che lo sketch era rivolto a loro (ride, sollevato) mentre per noi è stata pura pubblicità gratuita”.

La cosa buffa è che nello sketch parlano di Pinkerton, il vostro secondo album, che all’epoca della sua uscita non ebbe grande successo, ma che negli anni seguenti è stato invece rivalutato e adesso è considerato un disco di culto. Per tornare anche al discorso di prima, come gestisci le aspettative dei fan?

“Beh, va tutto preso per quel che è. Viviamo in un momento strano.. ad un party natalizio mi è capitato di avere una conversazione con Stan Ridgeway dei Wall of Voodoo, e lui mi disse ‘vedi, negli anni ’80 eravamo noi a controllare i fan, eravamo noi a dire loro cosa fare, a scegliere cosa dovessero sapere di noi. Oggi sono loro ad avere il controllo’. Quando mai è stato possibile che i fan potessero farti delle domande dirette o commentare pubblicamente ogni cosa che viene fatta? Il punto è che, a volte, i fan cercano semplicemente di promuovere se stessi, quando postano determinati commenti sono persone che stanno cercando attenzione, visibilità, aiuto in qualche caso. Insomma, cerco di lasciarmi scorrere via il tutto. E vedo che anche per altre band è la stessa cosa, succede in tutti i campi ormai”.

Parliamo allora del vostro nuovo-nuovo disco, il Black Album. Come sta andando? Le recensioni come sono state?

“La stampa è stata abbastanza positiva, credo che sia un album che piacerà alle persone che apprezzano la musica per quel che è. Poi, ovviamente, c’è l’altro lato della medaglia. Quelli che dicono che questo non è Pinkerton, che non è il Blue Album, che non è quello che volevano… e allora perché lo ascolti? Perché ne parli così tanto se poi ti fa così schifo? Odi così tanto questa cosa da sottrarre del tempo alla tua giornata per parlarne? Lo trovo bizzarro, io non lo farei mai. A meno che dietro non ci sia una passione per questo disco, che evidentemente c’è, in un verso o nell’altro”.

Ho letto che il vostro modo di comporre è cambiato per questo disco, che stavolta tutto è cominciato dal piano di Rivers.

“Oooohhh, Dio (sbuffa). Che dire, io non c’ero quando è successo. Quello che so è che io ho consegnato a Rivers diverse canzoni, e quelle sono nate su una chitarra acustica. Quando è venuta fuori la storia del piano… voglio dire, è così importante sapere su quale strumento sono nate le canzoni? Davvero è interessante questa cosa? Io ho messo lo stesso impegno che ho messo in tutte le nostre canzoni, non importa da che strumento provenissero”.

Quindi non è stato un grande cambiamento.

“Sto parlando per me. E il cambiamento c’è stato per me, che adesso devo suonare la chitarra E ANCHE la tastiera in High as a kite“.

Chi sono gli Zombie Bastards di cui parlate nel disco?

“Questa è una domanda meravigliosa. Non ci ho mai pensato troppo, ma penso che il riferimento generale sia al fatto che il Black Album rappresenta la parte oscura di Los Angeles, con questi loschi personaggi notturni che escono fuori solo quando fa buio. Party people, probabilmente”.

È vero che state già lavorando ad un nuovo album e che si chiamerà Ok Human?

“Ecco, la cosa buffa è che spesso le persone sanno più cose di me. Io ancora non ho sentito niente di questo disco”.

Sarò sincero: non credevo che vi avrei mai visto dal vivo da queste parti. Seguo la vostra band da ormai metà della mia vita e voi mancate dall’Italia da 20 anni. Cosa è successo in questo periodo? Nessun promoter vi ha mai chiamati?

“Beh c’è questa cosa sul tuo paese, forse la sai, forse no. Si tratta di un paese dove gli affari si fanno in maniera diversa. È decisamente più vecchio stile, più ‘vecchio mondo’ in termini di business, e voi di conseguenza vi beccate il peggio. Amo l’Italia, ci sono venuto tante volte, ma da solo. Portare una band delle nostre dimensioni da voi, in una maniera che abbia commercialmente senso per tutti, perché di questo si tratta, non è affatto facile. Forse quando siamo venuti in passato, la gita non si è rivelata essere commercialmente sostenibile, dipende tutto dai soldi. Ovviamente noi ameremmo suonare più spesso di fronte al pubblico italiano… è una domanda che spesso mi sono fatto anch’io, purtroppo è davvero difficile”.

Oh, un’ultima cosa: quale sarà il colore della prossima copertina?

“Non ci abbiamo pensato. Se si chiamerà davvero Ok Human non avrà un colore. Ma c’è anche un altro disco in uscita del quale non abbiamo parlato, che è VanWeezer, un disco di cover dei Van Halen. Lo specifico nel caso qualcuno pensasse ad un disco di cover di Ludwing Van Beethoven. Ma non abbiamo mai fatto il disco giallo per cui, boh, potrebbe essere lo Yellow Album“.

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