Intervista: Drenge

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drenge

di Elia Alovisi

I Drenge sono due fratelli, Eoin e Rory Loveless (che nome da rockstar hanno, tra l’altro?), che suonano rispettivamente la chitarra e la batteria. Sono piccoli, incazzati e vengono da Castleton, un paesino sperduto nelle campagne inglesi vicino a Sheffield. Il loro esordio aveva “VIOLENZA” scritto a caratteri cubitali addosso – metaforicamente parlando. Canzoni grezze e sparate, titoli come I Want to Break You in Half, People in Love Make Me Feel Yuck, Gun Crazy, Face Like a Skull, I Don’t Want to Make Love to You. Insomma, grezzume, furia adolescenziale e una certa riverenza per il punk dei 70s e degli 80s rivisitato in chiave britannica moderna, batteria e chitarra pestate senza fronzoli e con un’ottima capacità di restare in testa all’ascoltatore ma senza essere così dannatamente commerciali e inutili come i Royal Blood (che, seguendo la logica del successo inglese secondo Eoin di cui potete leggere sotto, ne hanno coerentemente ottenuto molto). E poi c’erano i due pezzoni immancabili: il singolo spaccaossa da moshpit, Bloodsports, e la ballatona da cantare con gli accendini ad Hyde Park una fredda sera di giugno, Fuckabout. E poi il classico megatour da band che esordisce, a scavare negli angoli del mondo per farsi sentire e iniziare a vivere di musica.

Ora è arrivato Undertow, il loro secondo disco. È diverso, ma solo per metà. C’è ancora l’urgenza comunicativa e la voglia di spaccar tutto del debutto (insomma, il singolo si chiama We Can Do What We Want), ma ci sono anche brani più lenti e post-punk, quasi marci, soffocanti – ed è qua, in una possibile evoluzione, che si vede la possibilità di una carriera continuativa per i due. Era facile rifare dodici pezzi da due minuti tutti tirati, e invece. Incontro Rory ed Eoin negli uffici della loro etichetta, Infectious Music, recentemente acquisita da BMG Chrysalis, una delle major che più major non si può – e quindi l’ufficio è in un antico edificio che sprizza ricchezza da tutti i pori, con due portinai, una seconda reception al piano, un caffè offerto e poster di superstar varie ai muri. È abbastanza strano associare un luogo come questo al loro messaggio, mi sembra. E quindi è la prima cosa che gli dico.

È abbastanza strano intervistarvi qua. Non è proprio un luogo che assocerei alla vostra musica.

Eoin: Hai presente il Ronnie Scott’s Jazz Club? Prima gli uffici della nostra etichetta erano lì, il che era molto figo. Ma poi sono stati comprati dalla BMG, quindi ora siamo qua. Che è molto più grosso e… strano. Ma insomma, è solo un ufficio. In fondo l’industria musicale è fatta solo di uffici, penso (ride).

Restiamo sul tema: qual è il momento più strano che vi è capitato da quando avete iniziato a suonare?

Eoin: “Ogni giorno è strano, in un certo senso. Stiamo venendo pagati per fare musica, il che è già assurdo. Però direi quando dei musicisti che ammiri e ascolti vengono da te per farti i complimenti. Ci è capitato con Seasick Steve, e io non sapevo bene cosa dire se non, “Wow, sei Seasick Steve!” (ride)”

Perché avete deciso di chiamare il disco Undertow [“Risacca”, ndr]?

Rory: “È stata una scelta dell’ultimo minuto in realtà. Avevamo appena finito di scegliere tutti i nomi delle canzoni, e l’etichetta ci ha detto che avevamo due ore per dare un titolo definitivo al disco. E c’era la strumentale, che si intitola appunto Undertow, e senza pensarci troppo siamo andati con quella. In realtà siamo stati seguiti benissimo lungo tutto il processo di registrazione, non ci è stata fatta pressione per niente. E le volte che abbiamo provato a lavorare con scadenze a breve termine ci siamo resi conto di non essere soddisfatti di quello che era uscito”.

L’impressione che ho è che molte band inglesi della vostra generazione abbiano fatto fatica a far uscire secondi album degni dei loro esordi. Alcuni esempi che mi vengono in mente, personalmente, sono gli Alt-J, i Peace, gli Is Tropical, i Palma Violets. Voi cosa ne pensate?  

Rory: “Per noi il primo album è stato una sorta di Greatest Hits di quello che avevamo fatto fino a quel punto, e registrando i vari pezzi non li pensavamo come parte di un album. Pensavamo piuttosto a una serie di EP. Siamo arrivati ad un punto in cui ci siamo trovati il disco in mano, semplicemente. Ed è stato strano. Scrivere Undertow per noi è stato come scrivere il nostro esordio, e le canzoni che lo compongono sono per la prima volta pensate per essere “la stessa cosa” – spero abbia senso. È stato una sfida scrivere qualcosa in questo senso. Quindi il nostro terzo disco sarà il nostro secondo, ecco. Non so come le altre band si approccino alla cosa”.
Eoin: “Se ci pensi, però, è probabilmente così che va per tutti. Ti viene offerto un contratto partendo da qualche canzone che hai buttato fuori che l’etichetta pensa sia un buon investimento. E vieni poi introdotto in questo mondo fatto di tour eterni… la prima volta che vai in tour non pensi nemmeno a scrivere nuove canzoni perché ti sembra tutto così fantastico. Stai sperimentando il mondo per la prima volta. Ogni volta che pensavo a un disco nuovo mi dicevo, “C’è tempo!” Ma eventualmente arriva un momento in cui sei tenuto a farlo, non è un processo naturale. Fare un album è solo una decisione commerciale, non è l’unico modo di fare musica. Le etichette devono crearne uno per vendere la tua musica. In fondo è solo una tecnica promozionale per fare soldi”.
Rory: “Ti viene da chiederti quanti album una band dovrebbe veramente fare. Sono canzoni che davvero vuoi buttare fuori o è solo l’etichetta che te lo chiede?”

In che modo il paese in cui siete cresciuti, Castleton, vi ha influenzati come musicisti?

Rory: “È stato un luogo che pensavamo sempre di abbandonare. Non ci sentivamo al nostro posto. Era isolato, e avevamo molti amici a Sheffield, il che ci portava in quella direzione. Da quando abbiamo iniziato ad andare in tour e ci siamo trasferiti lì ci siamo però resi conto che è sempre bello tornarci. È pittoresco, è bellissimo. Ma non te ne accorgi se ci vivi. Ti sembra una prigione. Almeno quando sei un ragazzo, perché non c’è niente da fare”.

Come facevate a scoprire nuova musica, e come avete poi iniziato ad entrare nella scena musicale di Sheffield?

Rory: “È stato abbastanza difficile, ma non più di quanto lo sia per qualsiasi ragazzo che vive in un posto isolato e si appassiona di musica. Non siamo gli unici ad essere nati in mezzo al nulla, ogni tanto c’è qualcuno che ti chiede di fare concerti in città mai sentite, lontanissime e minuscole. E insomma, capisco il loro dolore. Ma allo stesso tempo penso che sentire la cosa come una lotta, così come è stato per noi, sia positivo”.

Pensate che la velocità e l’impeto che sta nella vostra musica siano anche dovuti a questa “lotta”?

Rory: “Almeno per il primo album sì. Undertow è una bestia totalmente diversa”.

Certo. Direi che è un album più lento e maturo.

Rory: “Maturo è la parola che avrei usato io”.

È anche più cupo, per certi versi, e grezzo. Mi vengono in mente gli Iceage, per certe cose.

Rory: “Loro mi piacciono!”
Eoin: “E “Drenge” è una parola danese. Per qualche motivo abbiamo una certa affinità con le band danesi. Come i Yung. Abbiamo anche suonato con gli Holograms.”
Rory: “Che sono svedesi però!”
Eoin: “Insomma, sono scandinavi (ride). Sono molto interessato alla musica basata su chitarre che esce da quelle aree. È come se ci fosse un’aura noir in tutto quello che fanno, anche nei programmi TV”.

Come mai avete deciso di iniziare a suonare in due? Il fatto che ora avete aggiunto un bassista per suonare dal vivo ha cambiato le logiche interne della band?

Rory: “Bé, volevamo solo fare musica. Io suonavo la batteria, lui la chitarra, volevamo andarcene e ci eravamo resi conto che suonare era quello che volevamo fare. E a Castleton non c’era nessuno che avrebbe suonato con noi. Se ci fosse stato qualcun altro non saremmo stati un duo, ma abbiamo dovuto darci una forma basandoci su quello che avevamo. Ora abbiamo potuto espanderci, ed è strano. Vogliamo espanderci? Vogliamo suonare musica più “grande” o lo stiamo facendo perché possiamo farlo? Abbiamo sempre voluto solo suonare musica basata sulle chitarre, il resto è semplicemente capitato.”
Eoin: “Inoltre a Sheffield, ai tempi, c’erano almeno altri 15 band con due elementi. Ed è una città piccola. Ed erano tutte brave, e i concerti erano davvero fighi, e anche dopo che ci è stato offerto un contratto abbiamo continuato a chiederci perché a noi era arrivata una proposta e agli altri no. Non siamo più così in contatto con la scena locale come quanto dovremmo, ma quando abbiamo iniziato la sensazione era che la recessione rendesse più semplice e conveniente suonare solo in due. Non abbiamo preso soldi dai concerti fino al nostro trentesimo, e allora abbiamo preso tipo 60 pound. Dopo un anno siamo riusciti ad arrivare a 100. La cultura che sta dietro al pagamento di una band per un concerto non esiste a Sheffield. La gente suonava per passione, non per i soldi.”
Rory: “Fin da quando abbiamo iniziato a fare concerti e siamo poi diventati sempre più bravi a suonare abbiamo pensato sempre più a come le canzoni vengono create – cose come aggiungere parti, ad esempio. Ora ci viene più facile, e il nostro amico Rob ora è il nostro bassista. Pensavamo che sarebbe servito per rendere i concerti migliori.”

Poco fa avete suonato dal vivo al Late Show With David Letterman. È stato strano?

Rory: “Sì, è stato strano. La magia di Letterman è stata un po’ distrutta per me. Ho guardato molti video di band che ci suonavano. Poi arrivi lì e fai, “Wow! Sono all’Ed Sullivan Theatre! I Beatles hanno suonato su questo palco!” Ma poi ti rendi conto che è una cosa che qualcuno fa ogni giorno, è un lavoro, e Letterman non è coinvolto nella scelta delle band che suonano. È stato divertente, certo. Davvero divertente. Poi insomma, il pubblico era composto da turisti tirati dentro che erano lì da tre ore. Ma non sarà una cosa che dimenticheremo presto”.

Nel testo di Running Wild citate un posto che non ho mai sentito, Beachy Head – come mai? “Quand’eri giovane i fuochi si propagavano verso sudest, verso Beachy Head, e il guscio di ruggine bruciacchiata che è Londra nutriva i polmoni con un sacchetto di polvere“. Che significato ha?

Eoin: “Beachy Head è un promontorio nel Sussex, famoso per tutta la gente che va lì a suicidarsi. È una parte del mondo piuttosto tetra in cui la gente va a saltare sulle rocce.”
Rory: “Se la guardi in foto è piuttosto impressionante.”
Eoin: “È più bella delle scogliere bianche di Dover. È un posto incredibilmente bello ma triste per quello che è diventato. E ci sono un sacco di cartelli che cercano di far desistere i suicidi, cose come, “Ripensaci”. Ci sono racconti di famiglie con bambini disabili che non reggono più alle pressioni che questo comporta e saltano tutti insieme dalle rocce”.
Rory: “Cazzo se è deprimente.”
Eoin: “Eh sì. Ma nella canzone volevo solo tirare in ballo diversi posti del Regno Unito perché mentre stavamo registrando il disco – non che questa canzone sia particolarmente rilevante per la cosa, ma insomma – c’era tutto il discorso dell’indipendenza della Scozia. E pensavo che sarebbe stata una grande cosa, ma è andata com’è andata, e mi dispiace davvero tanto che il risultato sia questo. È come se il resto del Regno Unito venga completamente ignorato dal governo, dai politici. E forse il nord dell’Inghilterra si sarebbe separato, o avrebbe avuto un proprio parlamento. La cosa più grande che andare in tour mi ha insegnato è rendermi conto di come il mondo non giri attorno al luogo da cui provieni. Vai a Glasgow, vai a Middlesborough, o a Sunderland, o vai nel sud ovest, in Cornovaglia, e scopri enormi parti del Regno Unito palesemente povere. Non mi piace scrivere di politica nei miei testi ma è qualcosa che non riesci a ignorare quando sei in tour”.

Eoin, quando parli d’amore nelle tue canzoni quanto c’è di vero e quanto è immaginazione? I due pezzi che mi hanno fatto venire questa domanda sono Favourite Son e The Snake, su tutti.

Eoin: “È praticamente tutta immaginazione. Però è stato particolarmente divertente scrivere il testo di quelle canzoni, e incredibilmente facile. Per Favourite Son mi ero immaginato questa relazione per cui il narratore chiede a qualcuno di scegliere il proprio figlio preferito e di donarglielo perché ricambiasse il suo amore. È una relazione davvero distorta basata sul favoritismo e su un amore programmato che non diventa mai fisico. The Snake, poi, tematicamente è stata molto facile da scrivere perché trovo l’immagine del serpente molto stimolante, puoi farci qualsiasi cosa. È una costante della narrazione. Non riesco a pensare a un animale che sia più usato nelle storie. Puoi crearci tantissime metafore. Il testo è partito dal suono del riff, che pensavo assomigliasse allo strisciare di un serpente. È stato anche un grande esercizio di scrittura per me – partire da un suono per scrivere un testo invece che dai miei pensieri”.

Resta comunque un modo abbastanza originale di descrivere l’amore. La sensazione generale è che parlare d’amore in modo non scontato sia un’utopia. Prendiamo, chessò, Sam Smith – mi piace quello che fa, ma insomma, i suoi testi sono davvero terra terra.

Eoin: “Ma in fondo non penso sia lui a scrivere i suoi testi. C’è qualcuno che viene pagato per farlo. Culturalmente e musicalmente, nel Regno Unito e nel mainstream in generale, se scrivi roba noiosa avrai un successo enorme. Penso che non ci sia alcun appetito per qualcosa di interessante. Il che rende il nostro lavoro davvero doloroso, quando metti tutto te stesso in una canzone, la sentono un paio di persone e fanno, “Massì, ci sta” (ride).
Rory: “Sembrano le risposte che ci davano quattro anni fa (ride).”
Eoin: “Sam Smith probabilmente non ha avuto grandi difficoltà in studio. Anzi, sicuramente non ha avuto quelle che abbiamo avuto noi.”
Rory: “Però è sicuramente più bravo a suonare i suoi strumenti rispetto a noi.”
Eoin: “Quello sì! (ride)”

Qual è il significato del bosco all’interno di Undertow? C’è un bosco in copertina, e una canzone si intitola The Woods.

Eoin: “Il luogo in cui siamo cresciuti non è proprio circondato da foreste e alberi, ma insomma…”
Rory: “Ci sono foreste, ok, ma niente di immenso come Sherwood.”
Eoin: “Sono più macchie di alberi, e se ci entri puoi anche perderti. Ricordo che andai a fare una passeggiata con mio padre, era ottobre ed eravamo fuori dal mattino presto. Verso la fine della passeggiata siamo passati per un boschetto e abbiamo perso il nostro cane, allora sono uscito dalla macchia e ho sentito la gola grattare – che è il modo in cui inizia la canzone. E la gola mi è rimasta così per tre mesi, ogni volta che inspiravo faceva male. Ho iniziato l’università, stavo incontrando la gente per la prima volta e la mia voce era tipo, “HHHHHG!” (ride). Ed è stato davvero strano, nemmeno un dottore da cui sono andato è riuscito a capire che cosa avessi. La canzone è venuta fuori da lì. Per il resto, parla di religione, e di cosa significhi “religione” oggi. Non so come le due cose siano collegate, ma nel nostro paesino andare in chiesa era una cosa ovvia, con la famiglia e tutto, è una tradizione. Io e Rory siamo atei, immaginaci andare in chiesa e trovare tipo solo altre quattro persone, e la chiesa era piuttosto grande. Allora ti viene da pensare che forse solo dieci anni fa ci sarebbero state dieci volte le persone che c’erano. È come se ora fosse qualcosa di morto. E c’è così tanta cultura e arte che verrà dimenticata solo perché la associamo con la cristianità”.

Perché avete deciso di chiudere il disco con Have You Forgotten My Name? Ha un testo piuttosto preso male, in un certo senso. Come mai andarvene su quella nota?

Eoin: “Ci sembrava difficile mettere qualsiasi cosa dopo quel pezzo”.
Rory: “Il primo disco venne registrato in tipo tre sessioni, e le canzoni erano state messe nello stesso ordine in cui le avevamo registrate. Stavolta, ancora una volta interrogandoci su che cosa significasse fare un disco, abbiamo pensato che quella fosse perfetta per chiudere il tutto”.
Eoin: “E tutte le canzoni del primo lato sono davvero veloci e rumorose ed epiche. Il secondo lato comincia allo stesso modo ma inizia subito a farsi più rarefatto e a diventare più sperimentale. Non potrei immaginare Have You Forgotten My Name? come un brano iniziale. È così cupa. Narrativamente, il filo conduttore del disco è il modo in cui i gruppi di persone si comportano l’uno con l’altro. E una delle figure ricorrenti è una coppia che decide di scappare assieme: compaiono in We Can Do What We Want, che rappresenta l’idea di fuggire dalla legge, tipo Bonnie e Clyde, come in un film. Side By Side è il seguito, in cui i due non ne possono più di stare assieme. E infine Have You Forgotten My Name? è come un “Non voglio più averci niente a che fare”. È una deteriorazione.”

Spiegatemi il senso del video di We Can Do What We Want.

Eoin: “Certo. Secondo me assomiglia anche un po’ al video di Stress dei Justice. È un’interpretazione di un mondo in cui la gente può fare quello che vuole. Idealmente avremmo potuto fare una masnada di video e uno sarebbe potuto essere un gruppo di ragazzini in una stanza con tutte le caramelle del mondo che costruivano una casa di caramelle. Se potessimo fare tutto quello che vogliamo nulla avrebbe senso, secondo me. Le regole sono importanti, ti permettono di concentrarti su qualcosa. La libertà assoluta è pericolosa, non ci permetterebbe di arrivare ad alcun risultato.”
Rory: “Penso che questo si colleghi bene anche a noi. Le regole che sono implicite nell’essere solo in due hanno formato qualsiasi cosa che abbiamo fatto finora.
Eoin: “Mi piace molto mettere regole al gruppo. Non che debbano essere permanenti e sempre giuste, ma ad esempio una era: niente assoli di chitarra. Un’altra era: niente ritornelli. E alla fine le abbiamo infrante. A livello di testi, per Undertow, mi sono imposto di non usare la parola “sangue” e usare meno parolacce.
Rory: “La cosa ci è venuta da questa scuola di cineasti danesi, Dogma 95, di cui faceva parte anche Lars Von Trier. Avevano una lista di regole per i loro film; ad esempio era vietato usare effetti speciali, la luce doveva essere interamente naturale, così come la musica. Erano scelte fatte per rendere il film il più grezzo possibile. E lo trovavamo molto interessante. E guardare il prodotto finale sapendo delle regole dietro è davvero sorprendente”.

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