Intervista: Peawees

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Di Diego Ballani

1995-2015. Vent’anni, cinque dischi, numerosi singoli e un’incalcolabile quantità di chilometri macinati intorno al globo sono valsi agli spezzini Peawees un’esperienza, in fatto di rock’n’roll, che in pochi nel nostro paese possono vantare. Partiti come punk band (nascono da una costola dei concittadini Manges), hanno presto intrapreso una discesa sempre più profonda verso le origini, che ha finito per incorporare spirito proletario e radici black. In vent’anni di attività, Hervé Peroncini (il cantante, chitarrista, anima della band) ha sviluppato la sua peculiare poesia blue collar. Una musica che sta da qualche parte fra il furore anarchico dei Clash, la sensualità di Elvis e la classe del rhythm’n’blues, e che trova la sua massima espressione nelle vibranti esibizioni della band. Mancava un suggello a tutto questo: arriva proprio in questi giorni, con una raccolta che in due vinili ed un CD raccoglie trenta fra i pezzi più amati dai fan e dalla band stessa. Per noi è stata l’occasione per farsi raccontare qualcuno fra i momenti più entusiasmanti di questa lunga storia.

Mi racconti le origini dei Peawees? Qual è l’impulso che vent’anni fa diede origine alla band?

Sono stati tanti. Su tutti, la passione e la necessità di evadere dallo stile di vita dei nostri coetanei dell’epoca. Spezia non offriva molto quando abbiamo iniziato. Avevamo voglia di creare una situazione che ci mettesse a nostro agio. Per fare questo l’unica soluzione era riconoscere i nostri simili, magari grazie alla maglietta che indossavano, e in qualche modo trovare una nostra direzione. La prima band in cui ho suonato sono stati i Manges nel ’94. Condividevamo spesso il palco con i Nukes, una punk band di Sarzana, in cui suonavano gli altri due futuri Peawees, Riccardo La Lomia e Livio Montarese. Da lì a poco è nato il gruppo.

Where People Smile, il vostro primo album, aveva un suono e unattitudine completamente diversa rispetto a quella che avreste adottato in seguito. Che effetto ti fa riascoltare oggi quei primi brani?

Non ascolto Where People Smile da anni, ma l’ultima volta che l’ho fatto ho ripensato a quel periodo in cui stavamo scoprendo un nuovo mondo, che in qualche modo ci faceva sognare. Quel disco in realtà era una nostra acerbissima demo tape, che successivamente era stata messa su vinile. Probabilmente se lo ascoltassi ora proverei del disagio, ma penso sia una cosa normale.

Con che criterio sono stati scelti i brani i questa vostra raccolta?

Abbiamo scelto quelli più significativi, che in qualche modo avessero il nostro marchio di fabbrica. Per farlo ci siamo fatti aiutare da amici e persone da sempre vicine ai Peawees. Ho voluto coinvolgere anche i vecchi membri del gruppo. Non ci sono stati molti contrasti o indecisioni sulla scelta dei pezzi.

C’è un album, fra quelli pubblicati in questi anni, a cui sei più legato o di cui ti senti particolarmente fiero?

Ogni album ha la sua storia, il suo travaglio e le sue gioie. L’album che ha avuto più riscontri positivi è stato Dead End City e ne vado fiero, ma quello di cui sono più soddisfatto è sicuramente Leave It Behind, il nostro ultimo lavoro, perché esprime pienamente lo spirito dei Peawees.

Oggi che musica ascolti?

Gli artisti che oggi mi influenzano di più sono tanti. A ruota libera ti dico Clash, Sam Cooke, i Beatles, i Sonics, Hank Williams, Otis Redding, i Ramones, Elvis, Phil Spector, i Cramps, i Devil Dogs, il Rock ’n’ Roll e il Rockabilly dei ’50, il Doo Wop, il Rhythm ’n’ Blues dei ’60, i Misfits, la Stax, un po’ di Motown, Billie Holiday, Johnny Thunders, i primi Saints, girl groups anni ’60 e molto altro. Tutta roba attuale! (ride)

In generale com’è cambiato il tuo approccio alla musica?

Ho ovviamente più bagaglio di contaminazioni e stimoli e sicuramente meno paura di uscire da certi schemi. Anni fa mi ponevo dei limiti dei quali ora non mi frega più niente.

Di sicuro ci vuole molta determinazione per riuscire a portare avanti un progetto come questo per vent’anni. C’è stato un momento in cui hai pensato di smettere con la band?

Solo una volta. Quando il Lalo (lo storico bassista della band, ndr.) ha deciso di lasciare il gruppo dopo 18 anni. Ho avuto un anno di crisi totale in cui non volevo sentire parlare di Peawees.
Poi, da un giorno all’altro, un amico mi ha presentato Tommy, il nostro attuale batterista, e qualche giorno dopo mi sono ritrovato con lui in sala prove a risuonare i pezzi della band.

Immagino che, al contrario, di episodi gratificanti ne abbiate vissuti tanti.

È così. Un episodio recente che mi ha colpito positivamente é stato avere due dei Sonics che guardavano il nostro concerto a lato palco, dopo aver passato molto tempo a parlare con loro di musica. Tieni conto che per me sono fra i cinque gruppi fondamentali della storia. Puoi ben immaginare quanto mi sembrasse surreale la situazione.
Poi ci sono molte altre cose, tipo i Groovie Ghoulies che nel 2001 hanno coverizzato e registrato un nostro pezzo, oppure condividere il camerino con i Radio Birdman in un festival olandese.
Ma al di là di queste soddisfazioni, la gratificazione più grande é sempre stata vedere ogni disco che prendeva forma dopo lunghi periodi di sforzo e impegno.

Nel corso degli anni la formazione dei Peawees ha subìto continui cambiamenti. Oggi tu sei rimasto l’unico membro originario. Ti consideri un perfezionista (o magari un tipo dispotico)?

Dicono che sono perfezionista ma non credo di esserlo e neppure un dispotico.. ma forse questo non bisognerebbe chiederlo a me! (ride)
Quando ho le idee chiare su qualcosa mi impunto e ammetto di diventare un po’ rompipalle.

Da anni i Peawees sono una realt
à apprezzata un po’ ovunque. Qual è il segreto per avere successo anche al di fuori dell’Italia?

Credo basti confrontarsi anche con chi sta al di fuori dei tuoi confini. Quello è l’unico modo che hai per crescere. Se ti confronti con le band della tua città rimarrai nella tua città, se lo fai con quelle della tua nazione rimarrai nella tua nazione e così via. Al momento stiamo puntando a Marte! (ride)

Mi parli della tua città e del legame con la scena de Las Spezia punk rockers?

Ovviamente amo la mia città.  Amo tutti i luoghi e persone che hanno dato vita a quel piccolo movimento che per me e molti altri è stata ragione di sopravvivenza.
Nella prima metà degli anni ’90 il fulcro della scena rock, e non solo, era la Skaletta Rock Club. Non c’era altro in città. Per un buon periodo ho anche lavorato lì, avendo modo di organizzare concerti, conoscere un mucchio di gente e diversi stili. C’era chi fotografava, chi suonava, chi dipingeva; penso che quello sia stato l’inizio di una contaminazione che mi porto dietro tuttora. Oltre al punk rock, c’erano anche band come i Made che organizzavano spesso raduni mods e grazie ai quali ho avuto modo di conoscere generi come il Northern Soul o gruppi come gli Small Faces. Insomma, se eri attento e curioso, avevi parecchio materiale di cui cibarti.
Purtroppo oggi non è più così. A distanza di vent’anni, guardando le cose da lontano, penso di poter dire che Peawees e Manges sono stati la colonna portante di quella scena punk che di lì a poco è cresciuta in maniera esponenziale.

Esiste ancora una scena punk?

Non a La Spezia. Non esiste più nessuna scena punk e neppure una scena rock solida in generale. Si può far finta che ci sia, ma la verità è che alla quasi totalità della gente non interessa più nulla dei concerti e neppure di approfondire qualcosa che vada oltre i DJ set o la chiacchierata con gli amici con una birra in mano.
Purtroppo, sono pochi i concerti che continuano a funzionare.

Oggi ci sono band italiane che consideri particolarmente interessanti e promettenti?

Il fatto che siano interessanti per me non vuol dire che siano promettenti! (ride)
Ultimamente ho avuto modo di sentire due buoni dischi di band italiane: i Faz Waltz e i Kaams, entrambi prodotti al Tup Studio da Bruno Barcella. Mi sono entrambi suonati freschi e diretti.

So che oltre ai Peawees hai collaborato con molti altri artisti e gruppi. Mi parli degli altri progetti che porti avanti? C’è un artista con cui sogni di collaborare prima o poi?

Come dicevo prima, il mio primo gruppo sono stati i Manges con i quali ho continuato a collaborare, prima nel progetto It’s Alive e poi come produttore del loro ultimo album All Is Well. Sono stato in tour con Flip Grater, una cantautrice neozelandese per la quale ho scritto due canzoni del suo ultimo album, ed infine ho fatto due tour come chitarrista e scritto canzoni per Nikki Corvette, icona del Power Pop americano, condividendo il palco con membri di Miss Chain & the Broken Heels.
Mi piace l’idea di collaborare con altri musicisti. Non solo per un discorso strettamente musicale. Di sicuro l’attitudine e l’approccio sono elementi fondamentali che mi piace tenere sempre in considerazione e ci sono band, come Fleshtones o i disciolti Devil Dogs, con cui sento un particolare feeling.

Vorrei concludere, chiedendoti che consiglio daresti ad un ragazzo che inizia oggi e che vorrebbe vivere di musica (della tua stessa musica).

Gli direi di investire tutte le sue energie nella qualità delle canzoni più che nella quantità di dischi. Poi gli direi di godersi la fortuna di stare in una band, che per quel che mi riguarda non è un hobby ma uno stile e una scelta di vita che per certi versi può precluderti alcuni percorsi ma per altri darti emozioni che non avresti mai immaginato.
Penso che uno dei motivi per cui i Peawees esistono ancora sia proprio il fatto che non ci siamo mai aspettati nulla, abbiamo sempre fatto le cose come e quando volevamo farle.

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