Intervista: The Raveonettes

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di Nicholas David Altea

Il chiaro e lo scuro. La luce e il buio. La quiete e il rumore. I Raveonettes vivono in questa perenne dicotomia dimensionata e rappresentata spesso dal bianco e dal nero, come in un film anni ’50, come in una commedia noir dai risvolti cupi e poco chiari. Malinconie oniriche costanti che il duo, composto da Sharin Foo (basso, voce e chitarra) e Sune Rose Wagner (chitarra, voce), ha ormai fissato un marchio di fabbrica ben riconoscibile, pur passando attraverso atmosfere diverse: alcune più diluite, altre più ammiccanti, e altre ancora più fragorose. Parlavamo di monocromatismi, ma c’è – quasi sempre – quella punta di colore a far la differenza sostanziale in ogni lavoro, che fosse il rosso di Whip It On (2002), il marroncino di Chain Gang Of Love (2003), il rosa di Pretty In Black (2005) o le tonalità da occhiali 3D di Lust Lust Lust (2008). Adesso però il rumore è quello delle onde, del mare che si infrange sulle spiagge delle Hawaii. Il colore di Pe’ahi, il loro ultimo disco, è questo verde acqua: surf, garage, noise-pop che dir si voglia. Sempre rumorosi, forse un po’ di più. I due danesi sono sempre andati dritti per la propria strada, senza dover rincorrere il mood del momento, il revivalismo forzato del quale, forse involontariamente, ne sono stati parte integrante, se non i primi a rimettere sul piatto sognanti riverberi mescolati al loro amore per i ’50 e i ’60, senza mai dimenticare l’impronta “velvetiana” dietro l’angolo pronta a definirne i minimalismi. Indifferenti da tutto e chiusi nel loro mondo senza mai diventar anacronistici, nessuna remore e nessuna riverenza alcuna. L’ultimo disco Observator (2012) ci aveva lasciato lo zucchero in bocca, senza diventar nauseante. Altra peculiarità, la loro: quella di destreggiarsi senza divenire svenevoli. Cosa non da poco. Dopo l’uscita del recente Pe’ahi, abbiamo intervistato Sune, che insieme a Sharin, passerà da noi, in Italia, per due date: venerdì 31 a Bologna e sabato 1 novembre a Milano.

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Tredici anni e sette album, otto se contiamo il mini-album Whip It On (2002). Siete sempre stati una band piuttosto ispirata. C’è stato un momento un po’ più difficile e meno produttivo della vostra carriera?
Sune Rose Wagner: “È facile per noi scrivere canzoni, trovare qualcosa di significativo su cui scrivere può rivelarsi una sfida di tanto in tanto, ma direi che siamo stati molto fortunati, finora”.

Il primo album, Chain Gang of Love (2003) e il seguente Pretty In Black (2005), sono usciti per Sony/Columbia. Poi siete passati ad etichette indipendenti (Sleeping Star, Vice Records) e ora The Orchard Records. C’è molta differenza tra queste o avevate comunque una certa libertà? Quanto vi è servito esordire subito con un’etichetta di una certa grandezza come la Sony?
Sune Rose Wagner: “Due cose molto diverse. Le principali etichette hanno un sacco di soldi ed è più facile promuovere la band, mentre le etichette indipendenti utilizzano varie strategie per ovviare a questo”.

Un coltello a serramanico, uno sfondo verde acqua e un riferimento alle Hawaii, Pe’ahi. Cosa vi ha portato alla scelta di questi elementi e di un titolo così particolare?
S.R.W.: “Pe’ahi è una grande zona dove si infrangono moltissime onde (surf break), a Maui. Essa simboleggia la suggestione e la furia della natura. Il coltello simboleggia il pericolo e la violenza. Il colore è quello del mare”.

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Per registrare Observator (2012) ci avevate messo solamente sette giorni. Per questo, invece, quanto ci avete messo? Come sono andate le registrazioni?
S.R.W.: “Ho passato molti mesi a buttare giù delle idee. L’abbiamo registrata nel corso di 3-4 mesi credo, tutto a casa mia a Los Angeles”.

Justin Meldal-Johnsen (bassista dei NIN) ha già lavorato alle produzioni dei dischi di Tegan and Sara, Paramore, Crystal Fighters e Young the Giant. Come è stata quest’esperienza con lui? Cosa ha dato in più la disco?
S.R.W.: “È un buon amico e un partner musicale geniale. L’album non sarebbe stato possibile senza di lui. Ci ha aiutato a spingerci oltre i nostri limiti”.

Alcune strutture dei brani mi sembrano diverse rispetto agli ultimi lavori. Sembra che giochiate molto di più sulla contrapposizione tra la quiete e il caos sonoro. Vero?
S.R.W.: “Forse. È difficile analizzare la nostra musica, ma forse sì”.

Voi avete la capacità di scrivere linee melodiche fenomenali. Come componete? In questi anni ci sono stati forti cambiamenti in fase compositiva?
S.R.W.: “Compongo al pianoforte per lo più. Scrivo piccole linee melodiche e le registro sul mio telefono. Quando ho circa un centinaio di idee, inizio a registrare nel computer e filtrare quelle che non mi piacciono”.

C’è un disco del quale vi sentite meno soddisfatti?
S.R.W.: “No”.

Negli ultimi anni è ritornato un forte interessamento per i il dream-pop e lo shoegaze, culminato anche con la recente reunion degli Slowdive. Voi in effetti le influenze shoegaze le avevate sfruttate nei vostri dischi ben prima di questa riscoperta. Come l’avete vissuta questa cosa?
S.R.W.: “Non definirei noi come band shoegaze, in realtà io non lo ascolto nemmeno. Siamo una rock ‘n’ roll band con l’amore per elementi rumorosi, questo è tutto. Preferisco ascoltare Buddy Holly e Ritchie Valens che qualsiasi band shoegaze là fuori”.

Le copertine dei vostri primi dischi, come Chain Gang of Love (dove eravate in moto) e Pretty In Black (come in una commedia amorosa) sembravano locandine di film, dove voi due, naturalmente, eravate i protagonisti. Quanto vi influenzano i film nelle vostre composizioni? C’è qualche regista di riferimento?
S.R.W.: “Un sacco. I film sono una grande influenza e così anche la musica da film. Alfred Hitchcock, David Fincher, Tim Burton e molti altri”.

Il vostro amore per gli anni ’50 e ’60 spunta sempre fuori. Avete anche collaborato con Ronnie Spector delle Ronettes in Pretty in Black. Cosa vi piace di più di quegli anni?
S.R.W.: “La migliore musica è stata scritta allora, ma questo è tutto”.

Sune, tu hai la faccia di Jack Kerouac tatuata sul braccio. Deduco che il tuo amore per i ’50 e i ’60 sia anche letterario. Burroughs? Ginsberg?
S.R.W.: “Mi piacciono un sacco di cose e una di quelle cose è la Beat Generation. Ho anche letto Hemingway, Fitzgerald, Byron, Shakespeare, Céline e Kafka”.

Tu hai lavorato con due membri di due gruppi significativi per il vostro suono. Come è stato lavorare con Maureen Tucker (Velvet Underground) e Martin Rev (Suicide)?
S.R.W.: “Entrambi geni e persone molto influenti. Io li amo entrambi a caro prezzo”.

Che ricordo avete della vostra data al CBGB nel 2002?
S.R.W.: “Assolutamente nulla! Penso fosse stato abbastanza figo”.

Com’è il tuo rapporto con l’Italia?
S.R.W.: “Il miglior rapporto che ci possa essere! Ci sono venuto in vacanza molte volte e mi piacciono il cibo, il vino e anche le ragazze”.

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