Intervista: MGMT

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di Mavi Mazzolini

Un ritornello e qualche nota sparsa: quello che è rimasto (o che mai hanno avuto) ai miei compagni di liceo degli MGMT non andava oltre a quello. Era il 2008, esisteva ancora TRL, ed MTV unita a qualche altra radio intraprendente li passava regolarmente. Il loro successo aveva trovato in contropiede sia chi li aveva conosciuti già da prima (“ma allora quella musica lì può arrivare su quei canali lì!”) sia loro stessi, che si sono presto resi conto che non suonavano più per i loro quattro amici del college. Un “mainstream il nuovo pop” ante-litteram, insomma: ma qualche anno fa peccare di successo era quasi mortale, e farsi perdonare era molto difficile. Quando, ad un certo punto fra Electric Feel e il remix di Kids, le cuffie di chi li aveva conosciuti per radio si sono spente, si sono trovati puntati addosso riflettori e diverse paia di dita accusatorie: “non so per quale ragione” dice Andrew VanWyngarden “ma durante il tour di Congratulations mi sono trovato a giustificare la mia musica e a difendere me stesso in ogni intervista”. Quando lo raggiungo via telefono è a Zagabria, e davanti ha ancora un mese di tour: in Italia verranno per le due date di Unaltrofestival, il 14 luglio a Milano e il 15 a Bologna. Il disco che promuovono ora, il self-titled uscito l’anno scorso, si presenta con una copertina che riecheggia i toni smorzati del riposo pomeridiano nel sobborgo, e una voce assai stanca segue melodie senza nemmeno uno schema compositivo definito. Sono cresciuti, gli MGMT. Certo, non hanno più i toni dell’entusiasmo fluorescente di Oracular Spectacular; ma hanno anche smesso di appiccarsi guerra da soli come hanno fatto con Congratulations. E l’accettazione, si sa, è il punto di arrivo di ogni situazione sofferta: così è, se vi (e ci) pare.

Non dev’essere stato facile ritornare a scrivere dopo le bruciature di Congratulations, eppure MGMT sembra molto più rilassato.

Andrew VanWyngarden: “Per scrivere e comporre l’ultimo album abbiamo usato un approccio totalmente diverso: siamo tornati a quando, al liceo, io e Ben ci trovavamo e suonavamo per tre o quattro ore senza mai staccarci. Non era faticoso e non avevamo grandi ambizioni, semplicemente ci piaceva farlo, e ci divertivamo. Da sessioni del genere potevano uscirne motivi di qualche secondo su cui poi lavorare o canzoni intere. Tre o quattro canzoni di quelle che sono sul cd sono nate proprio così: ci siamo messi in studio, abbiamo schiacciato il bottone per registrare, e da lì in poi sono stati nostri estri musicali. Questo nostro nuovo modo di comporre ha impresso per forza un cambiamento anche nella dimensione live: non avendo spartiti o altro da seguire di quelle canzoni che sono nate dall’improvvisazione sul momento, non sappiamo come riprodurle.”

L’album si apre con un titolo abbastanza eloquente, Alien Days.

AV: “Io e Ben ci siamo incontrati quando avevamo diciott’anni, e ci siamo subito trovati perché, entrambi, ci sentivamo un po’ degli alieni. È una cosa molto comune a quell’età, ma è una sensazione che non si è mai spenta in noi, e anche nei testi dell’ultimo album emerge. Non so, è strano: metaforicamente, questa sensazione si ricollega benissimo al nostro approccio verso questo album. Suonare continuamente e senza interruzioni o ostacoli ci ha portati in uno stato quasi di trans meditativo, in cui sei talmente perso e concentrato e senza pensieri che la musica si crea da sola, e tiri fuori i tuoi sentimenti quasi inconsciamente. Quando sei concentrato o perso così tanto in qualcosa e perdi il contatto con la realtà, quando ti ci ributti dentro ti sembra tutto strano, diverso. Ad esempio, dopo un po’ di notti in tour in cui ho dormito pochissimo mi sono messo a pensare al sonno. Cioè, pensaci: ogni notte tutti nel mondo, animali inclusi, perdono la coscienza per qualche ora, e hanno delle allucinazioni che chiamiamo sogni… cioè, dai, è assurdo! (ride).”

C’è un tono molto scuro quanto molto ironico in quello che dici, che si ritrova anche in MGMT.

AV: “Sì, è stato come abbiamo affrontato la cosa: ovviamente non è stato facile per noi, anzi. All’inizio era tutto un gioco, durante i live ci facevamo degli scherzi, magari scendevamo dal palco interrompendo la musica dal nulla per poi risalire poco dopo perché, insomma, eravamo ancora abituati a suonare per i nostri amici: per quello anche le nostre prime canzoni erano molto spensierate, avevamo ancora addosso l’atmosfera da band del college. Quando abbiamo iniziato a crescere e a suonare sempre più dal vivo e per sempre più persone, però, abbiamo dovuto ragionare di più sulla cosa, e ci dicevamo: ‘okay, ora come diventiamo una band? Come dimostriamo a tutti di essere un gruppo e come suoniamo?’ – per noi era diventato davvero un problema, abbiamo passato tutto quell’anno a pensarci e a cercare di risolvere la cosa. Per questo Congratulations è molto più caotico, molto più nevrotico: avevamo addosso questa pressione esterna e anche auto-imposta, e la nostra paranoia si ritrova del tutto nel disco. La nostra musica si era aperta, si era esposta, abbiamo iniziato a parlare di cosa volesse dire essere musicisti non per vanto, ma perché quella era la nostra vita ed è diventato anche difficile salire sul palco e cantare di quello che ti ha fatto stare così male, come se niente fosse. Ci siamo un po’ chiusi, era un’ansia molto logorante e ci ha fatto chiudere in noi stessi e perdere il contatto con la realtà… e non a caso salivo sul palco e tenevo gli occhi chiusi per tutto il set da quanto stavo male.”

Però poi siete riusciti a risolvere.

AV: “Uhm, non saprei. È che abbiamo iniziato a suonare con la stessa band, e ci siamo rilassati. Abbiamo smesso di pensarci, abbiamo smesso di dargli importanza e abbiamo imparato ad essere spontanei. Che poi, forse è proprio qui che sta il nocciolo di quello che abbiamo sempre cercato. Qualunque cosa siamo… lo siamo, ecco.”

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