Intervista ai Nation Of Language: “Speriamo di non aver causato il ritorno agli anni 80”

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In attesa di vedere la band newyorkese sul palco per le tre date italiane, abbiamo incontrato il frontman dei Nation Of Language Ian Richard Devaney

RUMORE COVER FB NATALE 2023

di Letizia Bognanni

Saranno in Italia per tre date i Nation Of Language, che suoneranno il 10 novembre all’Arci Bellezza di Milano, l’11 all’Alcazar Live di Roma e il 12 al Locomotiv Club di Bologna. La band newyorkese presenterà finalmente dal vivo anche nel nostro paese i brani dell’acclamato secondo album A Way Forward, uscito nel 2021, un anno dopo il debutto Introduction. Presence, ed entrato in molte classifiche dei migliori dischi dello scorso anno. “Più persone di quante ne potessimo contare ci hanno mandato versioni diverse dello stesso messaggio”, dicevano al tempo dell’uscita del disco, scritto e pubblicato in piena pandemia: “‘questo è stato il disco che mi ha fatto superare gli ultimi mesi’- che non era qualcosa che avevamo mai previsto mentre lo facevamo. Era e continua ad essere commovente e incoraggiante sentire che stava avendo un effetto sulla gente”.

Negli ultimi mesi Ian Richard Devaney, Aidan Noell e Michael Sue-Poi si sono fatti risentire con alcuni singoli, fra cui From The Hill, “una canzone che riflette sui momenti in cui le amicizie cadono a pezzi sul coinvolgimento romantico, insieme alla sensazione che tu stia in qualche modo guardandolo accadere dall’alto con una prospettiva ingrandita”, e la cover di Androgynous dei Replacements. In attesa di vederli sul palco abbiamo incontrato il frontman Ian Richard Devaney.

Avete pubblicato da poco un nuovo singolo, questo significa che dobbiamo aspettarci un album a breve? State lavorando a nuova musica?

“Non so quanto a breve ma sì, stiamo lavorando al prossimo album, quello che so però è che From The Hill non ne farà parte”.

Ci puoi anticipare qualcosa?

“Posso dirti che non abbiamo abbandonato i synth ma ci saranno più chitarre e stiamo lavorando molto sul ritmo. Sarà un album per camminare per le strade di città, nella mia testa è questa l’energia del disco”.

Di recente avete pubblicato anche la cover di Androgynous dei Replacements, brano dal tema molto attuale, l’avete scelto per questo?

“Ho sempre amato quella canzone, che è stata scritta negli anni 80 ed è incredibile come sia ancora tanto rilevante come lo era a quell’epoca, direi che è tragicamente senza tempo”.

Non soltanto quella: la vostra musica, e molta della musica che ascoltiamo oggi, ricorda quella di un periodo storico molto simile a quello che stiamo vivendo, fra minacce nucleari, crisi energetiche, Occidente VS Russia…

“Sì, è vero, sembra che i tempi in cui viviamo diventino sempre più simili a quel periodo. Quando ho iniziato a scrivere musica per la band non mi sembrava che si potessero fare paragoni del genere, ma da quando abbiamo iniziato a pubblicare… spero che non l’abbiamo causato noi (ride), ma è davvero strano guardare indietro e vedere così tante connessioni fra quei tempi problematici e i nostri”.

E per non farci mancare niente c’è stata la pandemia, che è arrivata proprio al tempo del vostro esordio. Quanto vi è mancato non poter suonare dal vivo, e quanto la situazione ha influito sul secondo album?

“Sicuramente mi è mancato molto non suonare dal vivo, penso che fino al momento in cui mi è stato impossibile io non avessi realizzato quanto è importante per me, e anche il fatto che si tratta di una forma d’arte separata dalla scrittura, che consiste nell’interpretare la musica col mio corpo, con altre persone nella stanza, e adesso che possiamo farlo di nuovo mi sembra davvero fantastico. Molti facevano performance da casa ma io non me la sono sentita, perché per me esibirmi richiede di urlare, saltare in giro, ballare, sentire la musica con tutto il mio essere, e non penso che i miei vicini avrebbero apprezzato. A parte questo, è stato strano lavorare al secondo album in quel momento, e sono grato che siamo riusciti a farlo. Ma è stato anche interessante registrare senza sapere quando avremmo potuto suonarlo dal vivo, quando sarebbe stato pubblicato, e in questo senso è stato perfino liberatorio, non sentivamo nessun tipo di pressione addosso, potevamo creare, cambiare ed essere molto liberi”.

C’è qualche canzone che vi divertite di più a suonare dal vivo, a cui non potete rinunciare in concerto?

“Sì, ce ne sono un po’. Dal primo album direi September Again, per me è una delle canzoni più divertenti da suonare. Poi Across That Fine Line, dal secondo disco, a volte suono la chitarra, altre volte se c’è una opening band con un chitarrista lo facciamo salire sul palco con noi, perciò ogni sera è un po’ diversa ed è un modo molto eccitante per mantenere la freschezza”.

Voi siete di New York, quanto è cambiata la città negli ultimi anni dal punto di vista della scena musicale? Penso al libro e film Meet Me In The Bathroom, che dipinge un quadro molto sex drugs & rock’n’roll, è ancora così?

“Ci sono sicuramente ancora degli ambienti in cui c’è quel tipo di vibes, ma fra le band che frequentiamo, di cui siamo amici, non è così folle. La scena di quel periodo sembra davvero estrema, ma adesso fra le band come noi c’è un’energia creativa molto positiva, tutti sono felici del successo degli altri, che li spinge a fare del loro meglio. Quando io ascolto un album di qualche band o artista di cui sono amico mi viene voglia di dire ‘ok, cos’è che mi piace e come posso fare a mettere questo entusiasmo nella mia musica?’. È un modo per continuare a evolvermi ed esplorare nuove idee”.

Più in generale la città ha influenza sulla vostra musica?

“Sì certamente, la cosa principale è semplicemente l’ispirazione che arriva dal vedere altra gente che crea ed esprime se stessa, questo è quello che mi fa venire voglia di fare musica, osservare le altre persone”.

Qual è il tuo metodo di scrittura, se ne hai uno?

“Mi piacerebbe avere una sorta di rituale, ma non ce l’ho. Di solito parto semplicemente da un ritmo o una melodia che mi viene in mente, perciò di norma viene prima la musica. Alcune volte è solo questione di… abbiamo una grande collezione di dischi, così a volte semplicemente ne prendo uno e lo metto su in un pezzo che non conosco e continuo a fare le mie cose e se qualcosa mi colpisce o mi fa canticchiare una melodia nuova, colgo l’attimo e mi metto a scrivere il più velocemente possibile per non perdere quel momento di ispirazione”.

Riascoltando l’album mi ha colpito un verso di This Fractured Mind, “D’you think that I could simulate my life”, mi ha fatto pensare al fatto che oggi tutti in qualche modo “simuliamo la vita” sui social, e anche alle accuse che ultimamente alcuni artisti hanno mosso nei confronti delle case discografiche, che a loro dire oggi vogliono più tiktok che musica. Voi che rapporto avete con i social, lo sharing (e l’oversharing)?

“Penso che siamo stati molto fortunati ad aver sviluppato come band un rapporto a mio parere sano con i social: di solito quando postiamo qualcosa sono foto che abbiamo fatto noi o che ci ha fatto qualche amico, video di momenti in tour, cose che penso piacciano ai fan e che piacciono a noi. Mi sembra che siamo capaci di non esagerare con la condivisione. Penso che a volte sia difficile per alcuni artisti, quando sei solo e le persone vogliono conoscere tutti i dettagli della tua vita, mentre noi in un certo senso siamo protetti dal fatto di essere una band… credo che per gli artisti solisti da questo punto di vista sia più difficile”.

Parlando di From The Hill hai detto: “a volte sembra che alcune parti della vita siano una storia che ci si limita a seguire – i personaggi entrano, interpretano il loro ruolo, e poi se ne vanno”. È un po’ come se stessi dicendo che la musica è la colonna sonora del film delle nostre vite. Ti piacerebbe scrivere una vera colonna sonora?

“Mi fa un po’ paura l’idea, ma sarebbe bellissimo fare musica che finisce in un film. Spesso quando scrivo “vedo” delle scene di film, per esempio è successo con la nostra canzone The Wall & I, l’ultimo pezzo del primo album: mentre la scrivevo vedevo scorrere i titoli di coda di un film immaginario. Perciò ho subito deciso che sarebbe stata l’ultima canzone del disco, perché nella mia testa scorrevano i credits. Penso che sarebbe una figata fare una colonna sonora, ma in questo momento non abbiamo tempo, mettiamola così”.

Cosa stai ascoltando in questo periodo?

“Mi è piaciuto molto The Smile, il nuovo progetto di Thom Yorke, poi ultimamente ho ascoltato molto i Talking Heads, e tornando alle uscite più recenti i Dry Cleaning, ho appena comprato l’album e lo sto ascoltando un sacco”.

Ultima domanda, anche se in effetti avrebbe dovuto essere la prima. Ho cercato un po’ in giro ma non ho trovato niente e sono curiosa: da dove viene il nome Nation Of Language?

“C’era una band punk di Washinghton DC negli anni 80 chiamata Nation Of Ulysses e pensavo che fosse il nome di band più figo di sempre, così ho semplicemente tolto ‘Ulysses’ e cominciato ad associare parole a caso con ‘Nation Of’, a un certo punto è venuto fuori ‘language’ e ho pensato ok, non so cosa significa ma è questo, riesco a vedermi in una band che si chiama così, la vedo parte della mia identità”.

Quanto conta la lingua per la tua identità, ad esempio nelle canzoni quanta importanza dai ai testi?

“Molta. Di solito è l’aspetto più impegnativo. Può essere facile buttare giù le parole all’inizio ma poi ci torno su, faccio editing, cambio delle cose per assicurarmi che ogni verso, ogni strofa mi suoni bene, in un modo che è difficile da descrivere, perché a volte è più astratto, altre volte più diretto, ma in entrambi i casi si tratta di appagare un’esigenza che avverto nella mia testa, sono sempre all’inseguimento di quella soddisfazione”.

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