Anteprima del nuovo video. Intervista ai Bluagata: “Non esisteva altra idea se non quella del collettivo per portare avanti la nostra visione”

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I Bluagata raccontano il nuovo album Di Stanze E Nevrosi e il video di Liberati, che potete vedere in anteprima

RUMORE COVER FB NATALE 2023

di Stefano Morelli

Di Stanze e Nevrosi, il terzo atto dei pratesi Bluagata, è un gesto indiscutibilmente importante. Non solo per loro in quanto act che ha il coraggio, ardito di questi tempi, di porsi nell’ottica trasversale e multidisciplinare del collettivo artistico, ma più in generale per la prospettiva dell’alternative rock italiano contemporaneo (che ha avuto, come ultimi vertici antagonisti, le splendide gesta di Teatro Degli Orrori e IANVA). Una voce che arriva da lontano certo, dal post-punk in particolare, dalle sue manifestazioni espressionistiche e situazionistiche (ricordiamo i tomi antecedenti di Sabba e The Disguises of Evil, pubblicati tra il 2018 e ’19 per Oto Records), ma con la capacità di aggiornare e di definire i codici più urgenti e conturbanti della sperimentazione rock degli ultimi vent’anni (il metropolitano, al contempo tribale, teatrale e (psiche)delico, della Generazione X). Incarnano nei codici un laccio temporale ampio, consapevole quindi del proprio ‘territorio d’azione’, e si sorregge nell’odierna divulgazione artistica della label VREC. Entriamo quindi nello spazio dei nostri, recentemente fautore del singolo-video più tagliente della raccolta: Liberati.

Anzitutto, come è cresciuta in voi l’idea di Bluagata? Non solo se c’è un senso particolare legato alla genesi del nome ma, di base, quanto l’idea di collettivo (e non solo di semplice formazione musicale) è stata centrale su di un piano formativo.

“La nascita di Bluagata non è riconducibile a un singolo momento, ma ad una serie di eventi collegati tra di loro. Concepiamo Bluagata come un angelo asessuato che ci accompagna sia durante la fase creativa che nell’esperienza live”.

Un’immagine forte, lautréamontiana direi…

“Possiamo dirvi che non esisteva altra idea se non quella del collettivo per portare avanti la nostra visione. Cercavamo qualcosa che sconfinasse in tutto ciò che ci circonda, nelle nostre e nelle vostre vite. Ha creato in noi la necessità di essere ‘circondati’, di vivere quest’esperienza col maggior numero di persone possibile. Tutto è partito da un terzetto, al quale si sono unite altre due persone. Ovviamente sul palco ci vedete in cinque, ma cominciamo ad essere sempre di più. Gli altri sono “nell’ombra” ma non per questo meno importanti. La condivisione di ciò che facciamo è il punto fondamentale di questo viaggio”.

Tocco un primo punto, diretto: lo sgretolamento e la mancanza sociale di codici per riattivare radici. Citate Stanze e Palazzi… si tratteggia volutamente un concetto di prigione, di tragedia, verso cui opporre codici di resilienza? Virus e Guerre ci cingono, qualcosa che nel reale ha oltrepassato il colore, tutto sommato ancora ‘serenamente’ fatalista, degli Smiths di The Queen Is Dead..

“Come insegnanti di musica, l’importanza di un’educazione, sia personale che sociale-civica, ci tocca da vicino ed entra quotidianamente nelle nostre vite. Senza dubbio constatiamo lo sgretolarsi di una società sempre più cieca e sorda, attenta quasi esclusivamente a generare profitto. Ciò che viene calpestato, molte volte, senza ritegno, sono i sogni e le aspirazioni delle nuove generazioni, le loro naturali ambizioni. Loro rappresentano al contempo lo sgretolamento e la risposta a tutto questo, incarnano paradossalmente lo strumento per porre fine a tale dramma. Potremmo del resto ribaltare i nostri “valori” per crearne di nuovi, totalmente opposti. Visione ad oggi utopistica, benché esistano centri di quotidiana resistenza a questo folle meccanismo. Per quanto ci riguarda, ne abbiamo abbastanza di resistere: dobbiamo e vogliamo vivere!”

Forse in Di Stanze e Nevrosi assistiamo a una recrudescenza del nostro ‘essere orfani’, di Mother/Ghost?

“Molto interessante questa lettura. Ma di chi siamo orfani, in realtà? Qual è la “madre” da cui ci sentiamo abbandonati? Esiste davvero dentro di noi o semplicemente dobbiamo abbandonare quelle idee, Il presupposto che qualcosa e/o qualcuno ce le abbia trasmesse plagiando il nostro vero io? Il doppio titolo, che scegliemmo ai tempi, è una duplice interpretazione che si può applicare certo al soggetto della canzone, ma soprattutto dovremmo farlo nostro per capire fin dove siamo stati “mother”, per noi stessi, e fin dove siamo stati “ghost”. Si aprirebbe un dialogo molto interessante e inusuale, e il tramite sarebbe proprio Bluagata”.

Su di un piano estetico complessivo, che tiene conto dell’immagine e del suono, il vostro approccio ha decise reminiscenze nei riguardi dell’art-punk neo pagano. La ‘maschera primitiva’ mutuata da Virgin Prunes e Swans, il glam espressionista dei primi Bauhaus, il metropolitano tribale di Tool e K.Joke. Cosa ha appreso Bluagata da quelle radici? Come le sperimentate rispetto al vostro vissuto interiore?

“Senza risultare retorici, è fuor di dubbio che quando pensiamo a ciò che vogliamo fare non abbiamo nessun esempio o modello fisso a cui aggrapparci. Anzi, cerchiamo di mantenere la mente più sgombra possibile da qualsiasi influenza, così da arrivare a quelle che sono le nostre reali urgenze creative. Abbiamo un nostro concetto di “bello” ed è quello che vedete realizzato in tutto quello che facciamo, dalle foto, al logo, al trucco, ecc… Tutti questi elementi sono parti imprescindibili di ciò che siamo e sono la somma di tantissimi stimoli, dai più evidenti da voi citati (Swans, Bauhaus, Tool) a quelli più nascosti (_____________)…”

Il suono si amalgama alla voce, anzi, quest’ultima detta, assume una centralità nella composizione, ne è quasi strumento sciamanico. Il corpo vocale è qui suggestione e denuncia dell’atavico lacerato. Che ruolo riveste il teatro in tal senso, come riaffermazione d’identità? Penso a Bene, Majakowskij, Artaud, sul piano del corpo vocale femminile anche Living Theatre e Diamanda Galàs. Riusciamo a cogliervi?

“Assolutamente. La nostra rappresentazione è teatrale, non è spettacolo. Mettiamo in scena la nostra versione della vita e tutti siamo protagonisti in tal senso. L’aspetto tribale, del rito guidato da uno sciamano, è alla base delle nostre scene ed è ciò a cui miriamo. Ci sono difficoltà “reali e materiali” nel farlo, ovvio, ma l’intento è far entrate il pubblico in un’altra dimensione. Convincerlo a fidarsi e guidarlo in questo campo oscuro dove si alternano voci, suoni, ritmi, percezioni, che alla fine non provengono più da noi ma dalla somma degli inconsci di ognuno”.

Sono due corpi e due voci femminili che stanno sul fronte, che si espongono (Alessia e Margherita)… è un fattore centrale e singolare del vostro agire artistico, ‘valchiriaco’ a nostro modo di vedere (La Ferita a Crezia, le convulsive Bluagata e Father/Poison)…

“Essendo Teatro, siamo e saremo sempre al fronte. Non esiste altra posizione in cui essere, se fai ciò che facciamo noi”.

Penso pure al bianco e nero utilizzato sia nei video che nei codici d’immagine, altro aspetto che vi lega all’espressionismo bowiano dei Bauhaus (così come all’antagonismo dei Crass). È una volontà cinematica al contempo pasoliniana e situazionista, non distante da certe cose del Teatro Degli Orrori (penso a Un MondoNuovo). Ma non tralascerei, riferimenti ai chakra a parte, pure il ‘blue’ di Fassbinder e Jarman…

“Il bianco e nero l’abbiamo scelto fin dal principio, perché dava visivamente l’idea di ciò che volevamo esprimere musicalmente. Sono opposti ma alla fine sono identici, influenzati inevitabilmente l’uno dall’altro. Sembrano estremi, ma sono la somma di tutti gli altri colori che stanno nel mezzo. Nelle loro caratteristiche ci siamo ritrovati, oltre che da un punto di vista stilistico, anche di concetto. Le riunioni/discussioni su ogni foto o video che facciamo passano dall’analisi di tutti questi dettagli (ringraziamo Mauchi e Teresa Basili, unici e fondamentali per noi in questo senso), dove puntiamo a dare forma a quella radice nascosta che genera in noi ogni atto poetico. Non è escluso che in futuro applicheremo i colori, anzi, già lo stiamo facendo. Li stiamo inserendo, ma anche il loro uso non è casuale, vogliamo che qualcosa cominci a sembrarvi sempre più vicino e reale”.

Correggetemi se sbaglio ma Liberati, il vostro nuovo estratto, rintraccia in qualche modo il lato irato della Dea? Più in generale del femminino, che tenta di risvegliare un maschile torbido, assopito, in buona parte anche violento? Nella sua furia punk hc kuntziana denuncia ustioni umorali, pericolo di morte in qualche maniera…

“Il brano è un dialogo con se stessi scritto da Federico. Torniamo al bianco e nero, al bene e al male, al buono e al cattivo, agli opposti che coabitano dentro di noi. In questo brano si parla di risveglio, di presa coscienza, di voglia di rompere quelle catene che ci legano ad uno status quo che non abbiamo mai voluto. Di tutte quelle volte che non ci capiamo, di tutte quelle volte che non ci piacciamo e non capiamo perché, di tutte quelle volte che ci sentiamo diversi: fuori luogo, fuori tempo, senza una casa, nemmeno dentro di noi. Una risposta o anche diverse, alle tante domande, sta proprio nel testo/titolo di questa canzone”.

Post-punk e distopico. Il vostro ‘noise’ ospita il singulto, il grido munchiano… Le stanze possono essere intese anche come stazioni e quadri narrativi? Come ritratti degli stereotipi in cui siamo rinchiusi?

“Esattamente, e ribadiamo quello che dicevamo in precedenza. Le stanze sono sì stazioni ma anche stanze mentali, gli inquilini che le abitano sono tutti personaggi diversi ma al contempo uguali. Ogni canzone/quadro/personaggio avrà quindi sempre qualcosa in comune con gli altri; e il black & white aiuta a generare una visione “fantastica” di questo viaggio. Distoglie dal quotidiano e ci proietta in qualcosa che sembra lontano ma, alla fin fine, è più vicino di quanto sembra”.

Rintracciate nella Comodità il pericolo di ‘vita e costume’ per l’Occidente attuale? Ossia, l’incapacità di intervenire, di esserci, anche quando il male è palese e non più mascherato o ibrido?

“Il ‘male’ si è palesato anni or sono e non si nasconde più. Si fa bello davanti a noi ed abbiamo cominciato ad apprezzarne i tratti e le forme. Sembra un gioco di parole, ma riusciamo a vedere più il ‘bello’ del ‘male’ che il ‘male’ del ‘bello’. Le comodità sono più che un’insidia, sono una trappola. L’unica soluzione attuabile al momento è trovare un altro luogo, in primis dentro di noi, dove non essere distratti ed influenzati da questi inutili e falsi stimoli. Ci crediamo inermi perché da fuori ci fanno credere di esserlo. Dobbiamo tornare a conoscere noi stessi, rintracciare un dialogo sano e costruttivo con chi siamo, alzarci da quelle poltrone mentali e comprendere che solo l’azione, il fare, ci salverà dalla paura”.

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