Intervista ai Muzz: “Non ci sono segreti: la fiducia e il desiderio di creare insieme sono una buona ricetta”

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(Credit: Driely S.)

di Nicholas David Altea

Se andassimo ad aprire qualche cassetto della memoria, potremmo tranquillamente dire che la maggior parte delle super band – ossia quei gruppi formati da artisti già abbastanza affermati – riescono raramente a suonare come qualcosa di coeso ed equilibrato. Anzi, la maggior parte delle volte gli equilibri non si trovano mai e il risultato è sempre (o quasi) inferiore alle aspettative. Tempo fa ne avevamo scritto in merito ai Minor Victories formati da membri di Mogwai, Slowdive ed Editors, come caso non frequente in cui tutto funziona a dovere. Ma quando si parla dei Muzz, la band che è nata dalle tre anime di Paul Banks, Josh Kaufman e Matt Barrick, ci sono concomitanze e collegamenti che risalgono a venticinque anni prima, almeno. Una di quelle cose che sembrava destino dovessero accadere ma che solo in alcuni casi le coincidenze portano alla concretizzazione. Paul Banks (voce degli Interpol, solista sotto il moniker Julian Plenti) è amico di vecchia data di Josh Kaufman (produttore/ polistrumentista e membro dei Bonny Light Horseman), ai tempi in cui risiedevano in Spagna con le relative famiglie e studiavano assieme, mentre più recentemente aveva suonato nel disco solista di Banks, Julian Plenti. Matt Barrick (batterista dei Jonathan Fire*Eater, The Walkmen, e della touring band dei Fleet Foxes) ha suonato con Paul Banks e The RZA nel progetto Banks + Steelz. Josh è poi entrato in contatto con Matt tramite una collaborazione con Walter Martin, e alla fine si è formata una ragnatela di collegamenti da far rabbrividire; tanto che esiste un albero genealogico delle collaborazioni che potete osservare qua sotto.

Il risultato dell’omonimo album è straordinario nei suoni, nell’approccio e nei modi e, soprattutto, negli arrangiamenti. Ci siamo fatti raccontare da Josh Kaufman come è nato tutto fin dagli inizi, proprio da colui che ha dato il nome alla band, poiché usava il termine “muzz” per descrivere la qualità e le trame analogiche e discrete della musica.

Ricordi la prima volta che hai incontrato Paul?

Josh Kaufman: “La prima volta che l’ho incontrato eravamo ragazzini alla South Maria High School. Avevo appena iniziato questa scuola americana a Madrid con gente da tutto il mondo e non conoscevo nessuno. Entrando il primo giorno è stata la prima persona che ho conosciuto che si è presentata a me: aveva l’armadietto vicino al mio e siamo diventati velocemente amici. Momenti speciali”.

Ho visto una foto di te e Paul da giovanissimi, dove eravate?

Josh Kaufman: “Molto probabilmente eravamo in salotto a casa dai genitori di Paul, poco fuori Madrid”

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Muzz writing session circa fall 1994 📷: probly Paul’s mom.

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Con Paul (Banks) avevate mai provato da giovani a mettere su una band quando eravate in Spagna?

J.K.: “Non abbiamo mai messo su una band assieme da giovani, non eravamo molto interessati a quello: avevamo appena iniziato a imparare a suonare. Fin dagli inizi ragionavamo all’idea di far diventare la musica una professione man mano che la scopri meglio, sia personalmente che assieme, e ne capisci l’enorme potenza. Per quanto riguarda l’idea di fare musica assieme, improvvisavamo, suonavamo, ascoltavamo e parlavamo di musica ma l’obiettivo non era di fare una band all’epoca”.

Che tipo di musica ascoltavi da ragazzino?

“Quando ero un ragazzino ascoltavo i dischi di miei genitori come Simon & Garfunkel, Beatles e cose così. Poi sono andato verso ascolti come Chicago Blues, Muddy Waters, Paul Butterfield Blues Band, mi piacevano i Grateful Dead, poi Bob Dylan, Neil Young, Joni Mitchell, Leonard Cohen e quello che in un certo modo si definisce classico di quei grandi nomi lì”

Matt Barrick invece l’hai conosciuto quando hai lavorato con Walter Martin, giusto?

“Sì, ho conosciuto Matt lavorando con Walter Martin perché suonavano assieme nei Walkmen e io ero un grande fan del gruppo. Quando la band si è fermata ho seguito le loro carriere e ascoltavo le loro produzioni. Con Walter siamo diventati amici e abbiamo partecipato ad alcuni side project dei National e poi quando ho lavorato e suonato il materiale di Martin ho conosciuto Matt.”

Il disco suona come quello di una vera band, non come una super band composita. Qual è stato il segreto?

“Non lo so, ma credo davvero che il nocciolo di questo sia un po’ quello che dicevamo prima, dell’amicizia molto veloce che è nata con Paul di quando eravamo ragazzini e sia così per tutti e tre l’uno con l’altro. È un grande vantaggio quando si inizia un’esperienza musicale, si passa tempo assieme, ci si frequenta e ne viene fuori un modo aperto e armonioso di fare musica. Penso che se puoi essere schietto con le persone con cui stai lavorando creativamente, sei a tuo agio quando le cose ti piacciono e quando le cose che non ti piacciono. La fiducia e il desiderio di creare insieme sono una buona ricetta, non credo vi sia un segreto”.

Il comunicato stampa vi descriveva come un mostro a tre teste. Come è avvenuto il processo compositivo?

“Non c’è stato un vero un modello compositivo che abbiamo seguito, e con questo voglio anche dire che non esiste il “genitore” di una canzone. Possiamo comporre in tanti modi diversi: in altre canzoni Paul ha iniziato portando il brano al gruppo e noi ci abbiamo lavorato. C’erano delle registrazioni che avevo già iniziato e loro poi hanno fatto delle aggiunte. A volte cominciamo con un solo ritmo di Matt poi Paul e io gli andiamo dietro. Non abbiamo mai iniziato allo stesso modo due volte un brano, davvero. Un giorno abbiamo avuto un momento molto fruttuoso e abbiamo scritto un sacco di canzoni insieme pur suonando assieme da poco tempo. Per quanto riguarda le registrazioni, stiamo attenti a ricordarci che abbiamo molta scelta, quindi penso che siamo stati fortunati lì, ma non credo che ci piaccia davvero dire ‘ok, è così che scriviamo’. Paul ha questa straordinaria capacità di mettere la voce sopra tutto, ma lo ha fatto in un modo che non avevo ma sentito. Le sue entrate vocali sono coinvolgenti e uniche. Son rimasto molto sorpreso a livello compositivo”.

La voce di Paul è davvero differente dagli altri suoi progetti. Non la usa nello stesso modo. E me ne sono accorto quando ho ascoltato il primo singolo. Dal 2015 ad oggi è cambiato ed evoluto il suono dei Muzz?

“Sì, è cambiato e si è evoluto, soprattuto sulle tonalità basse. Quando abbiamo iniziato nel 2015 eravamo solo io e Matt che stavamo lavorando e non pensavamo ancora all’idea di coinvolgere Paul. Successivamente Paul e Matt hanno lavorato assieme a nuova musica e non penso avessero avuto intenzione di coinvolgere me. Separatamente i materiali stavano nascendo e quando poi ci siamo messi a suonare tutti e tre assieme l’evoluzione del suono e il processo di scrittura è stato naturale in questo schema a tre”.

Quali sono gli artisti che avete in comune e che apprezzate tutti e tre?

“Penso che a tutti noi piacciano tre grandi artisti classici come Leonard Cohen, Bob Dylan e Neil Young e penso anche che a tutti noi piaccia la musica classica e l’impressionismo francese. Ci piace molto descrivere la musica da punti di vista facili da comunicare visivamente. Matt ha un gusto per l’estetica davvero forte ed è un fotografo straordinario; Paul è un pittore meraviglioso. Penso ci siano molti altri modi per descrivere il suono, forse in termini più tangibili”.

C’è un tema principale che collega i testi delle canzoni?

“La persona più indicata a parlare dei testi sarebbe Paul, per il fatto che non vorrei aggiungere nuove parole non corrette, ma tutti abbiamo contributo ai testi: è una sorta di percorso sulla salute mentale in momenti di depressione che trasformano le relazioni, ma è anche molto legato all’amore e alla natura romantica, alla naturale bellezza e all’esplorazione delle idee in un mondo naturale”.

Mi è piaciuto molto il video di Red Western Sky, mi ha ricordato in alcuni tratti il film Toys girato in una fabbrica di giocattoli. Magari ci sono alcuni riferimenti a quello…

“No, non è riferito a quello. Però sembra interessante, non sembra male. Non l’ho mai visto quel film che dici tu”.

Il protagonista è Robin Williams ed è tutto ambientato in una fabbrica di giocattoli che viene lasciata dal padre ai fratelli, tra di loro ci saranno alcuni “giochi di potere” interni, per farla molto breve.

“Allora lo guarderò prima possibile… Questo posto è supercool, è situato fuori Philadelphia. Matt era andato in questo museo [Ndr American Treasure Tour Museum] con la sua famiglia e mi aveva fatto vedere degli scatti. Non avevamo davvero idea fino a che non siamo arrivati lì: decine di migliaia di metri quadri di memorabilia del 20esimo secolo, qualsiasi cosa della pop culture che tu possa immaginare: dagli indumenti da circo a materiale di Harry Houdini. Le persone giravano lì attorno molto felici ed è un posto curioso per il mood della canzone”.

(Screengrab: Toys, film)

Gli ottoni e i fiati, in generale e in questo pezzo, sono davvero emozionanti. Li hai curati tu?

“Ho scelto tutti gli orchestranti. Gli ottoni li ha suonati una band che si chiama Westerlies e che hanno lavorato coi Fleet Foxes. Per i legni sono tutti suonati da Stuart Bogie che ha lavorato con anche con gli Arcade Fire. Lui è un caro amico; suona tutto: clarinetto, flauti fino al sax contralto e tenore. E abbiamo arrangiato assieme le parti. Il suono del sassofono che si sente in Red Western Sky è avvolgente come delle onde. È nato improvvisando attorno alla musica e decidendo poi quale momento prendere da utilizzare nella canzone”.

La cosa grandiosa del disco è che è tutto molto equilibrato, il suono non è caotico, ogni strumento si prende il suo spazio, le sue dimensioni sonore ed è il pregio maggiore del disco.

“Grazie, son contento che passi questo. Siamo interessati agli arrangiamenti che arrivano dall’esterno che non possiamo suonare noi, ma che incorporiamo nelle nostre strutture. Abbiamo anche tre differenti sensazioni nell’usare gli archi, i corni, i legni. È divertente come poi arrivino anche spunti dall’orchestra. Siamo aperti quando lavoriamo ed è anche per questo che è il materiale suona molto curato”.

Hai ancora lo studio di registrazione a Philadelphia con Paul Banks?

“Ora lo studio è di Matt e Paul, io non ce l’ho più. È uno spazio molto bello, in un vecchio garage industriale a Germantown. Abbiamo registrato alcune cose lì: come All Is Dead To Me“. 

Come hai trascorso il lockdown?

“Onestamente è stato incredibile, non so esattamente come vi siate sentiti a Milano, ma a New York non era per niente sicuro uscire. Ero io con mia moglie e mia figlia: ci svegliavamo al mattino e la piccola iniziava le lezioni scolastiche via Zoom. Noi cercavamo di rimanere in contatto con le persone per il nostro lavoro. Tra il pranzo e al cena si trovava il tempo per fare altre cose ma i giorni trascorrevamo veloci tra le necessità di base e dei buoni libri con cui occupavamo il tempo. E poi dedicavamo delle serate – venerdì, sabato e domenica – ai film, ma decideva nostra figlia per noi. Immagino che sia stato più o meno così per molti”.

L’idea di realizzare tanti video acustici è stata una conseguenza del lockdown?

“Assolutamente, avremmo dovuto essere in tournée in questo momento, quindi al posto di quello che era programmato abbiamo fatto questi acustici. In realtà abbiamo registrato molta musica da remoto e lavorato a nuove tracce. Con quegli acustici ci siamo sentiti più a nostro agio nel raggiungere i fan e far scoprire la nostra musica, sai. È quasi strano riuscire a raggiungere le persone ovunque sia possibile in questo momento. Eseguire le canzoni in quel modo è stato davvero divertente, una vera gioia perché ho visto i ragazzi sullo schermo e fatto ciò che in quel momento non si poteva fare, ossia suonare assieme. È importante manifestare i propri sentimenti”.

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