Elogio dell’elusività – 10 dischi per ricordare l’epopea sfuggente della Tri Angle Records che non c’è più

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di Mauro Fenoglio

Come ricorderemo gli anni 10? Cosa rimarrà fra le mani, setacciando il mare polveroso di suoni che ci ha avvolto nel decennio appena concluso? Per molti, c’è la tentazione di buttare tutto alle ortiche e girare rapidamente pagina, sperando nell’avvento improvviso (e altamente improbabile) di una nuova era dorata, in cui la musica sia nuovamente sommovimento sociale. Oppure, c’è l’irresistibile tendenza a volersi rifugiare nel concetto che la Storia (anche quella musicale) abbia in qualche modo dato tutto. Con il conforto ultimo dei maestri del passato, quando sembra che ad avvolgerci sia ormai solo l’eco di suoni bizzarri, che diventano già precari all’atto della loro genesi. I grandi maestri, con le loro certezze, la loro narrativa da rileggere in eterno, le loro istanze di allora portate come vessillo, a lenire il peso di tempi che non si comprendono più. E allora si chiude la faccenda, derubricando gran parte di quando prodotto nel ventunesimo secolo, come cascame vomitato fuori dall’opulenza isterica della rete. Eccesso di condivisione, esagerata frequenza di pubblicazione, per prodotti artistici che in passato, forse non avrebbero mai visto la luce (forse). L’età, il periodo storico della sua formazione musicale, determinano il giudizio di chi ascolta sulla contemporaneità. Ma c’è anche una certa mancanza di voglia (anche inconscia), di negoziare le proprie sicurezze con un mondo che muta continuamente, senza la possibilità di starci dietro. Il principio inconscio, per cui si riconoscono eccessiva derivazione e didascalia solo ed esclusivamente nei prodotti recenti, alimentano la retromania. Anche quando, di musica con chitarre e struttura tradizionale, se ne produce ancora e, in buona percentuale, è tutt’altro che prescindibile.

La strenua difesa del gusto tradizionale non è solo il valore indiscutibile che si assegna ad un canone, rassicurati dalle evidenze della sua storicizzazione, illustrata nei decenni che separano il presente dalla creazione dell’artista. C’è anche, sottopelle e non sempre confessato, il panico per un futuro imperscrutabile e angosciante, che non si presenta più come possibilità, rivelando solo un baratro oscuro, senza fornire coordinate per interpretarlo. Quando il presente non riesce più a rivelare significati e nasconde le chiavi di lettura, rimane solo un senso d’angoscia e precarietà, che solo canoni musicali nuovi (e alieni nelle loro intenzioni, per chi si affida al passato) provano a catturare e reinterpretare. L’avvento dell’ipnagogia, definizione introdotta da David Keenan, giornalista di The Wire, per lo sciame di pop elettronico sviluppato a metà degli anni zero, non è solo un trucco per ricontestualizzare l’immaginario degli anni 80, in una memoria che decade all’istante. È, soprattutto, il modo in cui la musica contemporanea si adatta a un secolo che fa impazzire la bussola e non offre più una narrativa lineare con cui provare a narrarlo. La memoria recente (raggrumata in frammenti d’immagini di VHS impolverati, sintetizzatori che declinano il prog astrale in residui lo-fi, concettualizzazione “strana” delle icone pop) come unico motore, per affrontare l’ignoto. Distesi sul letto della cameretta, senza chiedersi più se esista qualcosa oltre il presente. Il mondo fuori non è più leggibile da “canzoni” come entità individuali, ma diventa un pacciame di suoni bombardati da cloud, software e reti.

Pronto per essere campionato, rimodellato in forme sempre nuove, che se ne fregano di suggerire derivazione, rimasticandola continuamente. Etichette come (la ormai defunta) Hippos In Tanks, Blackest Ever Black, PAN e Tri Angle, ognuna con la loro peculiarità di stile e la loro prospettiva, sono fulgidi esempi di come lo spirito contemporaneo s’adatti ad un’epoca sfuggente. Attraverso la loro parabola creativa, si può decifrare il DNA (ibrido, mutante, precario) che ha alimentato gli ultimi due decenni di musica popolare (sempre che la definizione abbia ancora un senso). Proprio la Tri Angle (a qualche mese dalla dipartita della Blackest Ever Black) ha annunciato qualche giorno fa la fine della sua esistenza. Queste le parole del fondatore Robin Carolan: “L’inizio del 2020 ha segnato i dieci anni da quando ho fondato la Tri Angle. Lo scorso anno avevo già deciso il futuro dell’etichetta. Mi ci è’ voluto un po’ di tempo per gestire gli aspetti pratici, ma oggi è arrivata la fine. Ringrazio tutti quelli che ci hanno supportato negli anni. E auguro ai miei colleghi di altre etichette indipendenti tutta la fortuna possibile, in questi tempi complicati”. Carolan, nasce a Londra e collabora al blog 20JazzFunkGreats (nome che prende ispirazione dal titolo del terzo album dei Throbbing Girstle), dedicato ad artisti emergenti (per lo più elettronici), provenienti dall’universo infinito della rete. La sua formazione adolescente elude completamente l’era dorata degli anni 60 e 70, per immergersi nei suoni oscuri di Cocteau Twins, The The, David Sylvian e Kate Bush. La mancanza di un’affinità naturale verso la cultura pop tradizionale, gli fa sviluppare un interesse ossessivo verso l’hip hop rallentato della scena di Houston, l’IDM di marca Warp e, occasionalmente, le hit pop del momento (che cita concettualmente spesso nei suoi interventi nel blog, suscitando – incurante – lo scontento di molti lettori). Army Of Me di Bjork, i Boards of Canada, ma anche Siobhán Donaghy delle Sugababes (“per me personalmente più importanti dei Beatles” dichiara a Dazed&Confused), le coordinate delle sue ossessioni. Al di là della provocazione, l’’interesse di Carolan è quello di decodificare la rilevanza di generi ed indizi della cultura pop, senza essere obbligato dal peso dei modelli storici riconosciuti universalmente ma, per lui personalmente, non comunicativi. L’esordio dell’etichetta, nel 2010, spiega già molto. Let Me Shine For You è una mixtape di sette tracce ispirate da canzoni del tentato catalogo pop dell’attrice Lindsay Lohan (allora in carcere per aver violato la libertà provvisoria). “Un modo di stare dentro alla testa di Lindsay”, dice Carolan ed invita produttori come Laurel Halo, Oneohtrix Point Never, oOoOO e Autre Ne Veut a rivoltare la struttura pop di quei pezzi, per offrirne una resa trasfigurata e nuova. La concettualizzazione di una pseudo icona pop recente e discutibile, riconfigurata attraverso vapori d’elettronica eterea, beat lentissimi e esoterismi dark. La raccolta, numero 00 del catalogo, diventa una delle pietre angolari della cosiddetta witch house. Uno dei mille sottogeneri d’inizio millennio che caratterizzerà le prime uscite del catalogo, anche oltre le reali intenzioni del fondatore. La battuta lenta, sintetizzatori e macchine che creano una nebbia che affondi la battuta, l’eco dell’oscurità della new wave sintetica che avvolga un’ipotesi di r’n’b narcolettico. Tutti elementi che contribuiscono a creare un senso di mistero ed elusività. Carolan finisce per creare una sorta di laboratorio d’idee elettroniche, capaci di nutrirsi di riferimenti alla pop culture contemporanea cosi come d’avanguardia. Una sorta di palinsesto in cui i produttori maneggiano decine di generi musicali recenti reinventando forme, che finiscano per fare tendenza, crescendo fino ad informare anche il mondo pop ufficiale. Brandelli di suono distillati dal magma informe della rete, che mantengono la loro natura lo-fi, ma trovano senso (anche melodico) solo nelle mani di produttori che abbraccino il principio della casa. Tutto in un contesto dove l’elusività diventa codice e salvezza, come dichiara sempre a Dazed&Confused: “Internet ha fatto crollare i muri, e puoi conoscere anche il più recondito dettaglio di qualsiasi artista. Credo che tirarsi indietro sia importante. Influenza anche il modo in cui ascolti musica. Tri Angle è misteriosa, ma non nel senso di “vivere nella foresta”. Se però dai tutto, non ci sono più domande a cui rispondere. I dischi che mi sono piaciuti di più negli ultimi dieci anni sono di artisti che non dicono molto di sé”. Di tutta la Tri Angle, solo il duo AlunaGeorge è finito su una major (Island), mentre l’’influenza dell’estetica dell’etichetta sull’evoluzione del pop contemporaneo è molto più profonda. Si pensi al contributo (come beat) di Evian Christ I’m In It nel manifesto urbano Yeezus, le produzioni di Clams Casino per A$AP Rocky, Lil’ B o Lana Del Rey, l’influenza di How To Dress Well e Holy Other nei lavori di The Weeknd o FKA Twigs, la partecipazione attiva di Carolan stesso a Vulnicura di Bjork. Attraverso la sua evoluzione da costola r’n’b dell’ipnagogia a rifugio per nuovi talenti scuri dell’elettronica e del sound design (Haxan Cloak, Rabit o serpentwithfeet), la Tri Angle rimane una delle manifestazioni estetiche più riuscite, nell’interpretare le nuove necessità musicali del decennio appena trascorso. “Una combinazione di Madonna, Björk, e la Warp” come diceva Carolan, ma, forse, anche molto altro.

E allora, proviamo a dare forma al verbo vaporoso della Tri angle, disegnandolo in 10 episodi:

oOoOO – oOoOO (2010)

EP (sei pezzi per 25 minuti di musica) per il produttore di San Francisco, Christopher Dexter Greenspan. Lo pseudonimo si dovrebbe pronunciare come la più classica eslacamazione di sorpresa. Manuale di witch house che rivela aspirazioni pop, fra battuta lenta, astrazioni cold wave. Melodie che sfuggono, e oscure tensioni sintetiche. Burnout Eyess e Hearts formano ancora oggi un ponte lanciato fra il millenarismo più scuro e l’r’n’b mainstream.

How To Dress Well – Love remains (2011)

Tom Krell, studente di filosofia fra Colonia e Brooklyn, arriva al suo debutto lungo, che e in realtà una raccolta di materiale pubblicato su EP precedenti e rilavorato in studio. “Ho cominciato a ricordare nel 1989” recita un post che introduceva il suo primo EP. E il suo esordio è un mirabile esperimento di decostruzione della memoria recente. La sostanza è l’r’n’b di fine anni 80. Lo strumento una voce straniante e malinconica, che si muove fra l’eco di sintetizzatori ovattati e piano preparato. La cameretta che diventa uno studio d’autoanalisi.

Clams Casino – Rainforest (2011)

Il debutto di Michael Volpe, prima di diventare beat maker d’eccezione per i pesi massimi, è un viaggio in cinque tracce in una giungla tropicale astratta e pixelata. Pezzi nati come strumentali (Volpe forniva già beat per rapper come Lil B e Soulja Boy), che rivelano un vulcanico talento di decostruzione hip hop. Fra la tradizione della West Coast ed un Four Tet narcotizzato.

Balam Acab – Wander / Wonder (2011)

Il progetto di Alec Koon, al tempo produttore ventenne della Pennsylvania. Il tentativo di uscire dagli argini codificati della witch house, utilizzandone la natura onnivora per creare una sinfonia libera dall’angoscia. Le otto tracce sono movimenti di una sinfonia quasi celestiale, dove il mistero non rivela l’abisso ma suggerisce d’elevare lo sguardo. Un senso di rilassatezza che non perde un grammo d’intensità.

Holy Other – Held (2012)

Il produttore mancuniano aveva scaldato i motori con il precedente EP, infossato nelle logiche eteree della witch house più canonica. L’esordio lungo approfondisce i contenuti della sua avventura nei territori della vulnerabilità. Ai noti richiami r’n’b si unisce un trattamento delle voci, non lontano dai malinconici processi utilizzati da Burial. L’amore invocato fra le lenzuola di un letto, anche quando è vuoto. Il superamento del canone witch house in un disco che evoca l’amore in forme nuove.

Vessel – Order Of Noise (2012)

Il collettivo Young Echo è il motore dell’elettronica più avventurosa nella Bristol degli anni 10. Da quel gruppo di produttori, emerge Ed Gainsborough, che approda al suo esordio, dopo aver già sperimentato il concetto di “non-dance dance music” lungo vari EP. Il suo è un trip hop escatologico, dove i ripetuti ascolti rivelano nuove nuance e riferimenti d’oscurità. Molto vicino alle affascinanti astrazioni di Actress. La Tri Angle si spinge in territori nuovi.

The Haxan Cloak – Excavation (2013)

Bobby Krlic è un avido lettore di tutto quanto riguardi la persecuzione delle streghe a Salem. Il suo album per Tri Angle espande le intenzioni dell’esordio e unisce il suono di strumenti classici a droni e algidi rumorismi. È il numero più scuro dell’etichetta. Lo stesso senso di vuoto di vuoto e d’angoscia che si proverebbe dentro all’astronave con Ripley, in Alien. Perfetto prequel dell’attività di Krlic come compositore di colonne sonore.

Forest Swords – Engraving (2013)

Uno degli artisti più originali dello scorso decennio il britannico Matthew Barnes. Autore di un’ipotesi ipnagogica che ingloba elementi dub e tribali all’interno della precarietà vaporosa delle melodie. Il risultato è un viaggio psichedelico che s’alimenta dell’eco di voci come muezzin, tamburi, mellotron, charango e archi processati. Un album che rimane affascinante e unico.

Roly Porter – Third Law (2016)

Letteralmente la colonna sonora apocrifa di qualsiasi film che abbia come tema il perdersi nello spazio profondo. La Tri Angle oramai esplora ben oltre i confini dettati dai principi primigeni dell’etichetta. Il terzo album della metà del duo dubstep Vex’d è un’indagine sul senso di vuoto, attraverso un gioco di azione e risposta fra droni e orchestrazione aliena. Assenza di gravità ed esplosione di supernove.

Serpentwithfeet – Soil (2018)

Verso la fine del viaggio, ritorna l’r’n’b. Ma l’architettura sonora viene qui ridotta al minimo, ad accompagnare la voce spirituale e intensa di Josiah Wise. Clams Casino e Katie Gately lo accompagnano fra le profondità di un gospel postmoderno, dove le parole articolano il sempre complicato rapporto con sé stessi e con il mondo attorno.

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