Intervista agli EPO: “L’arte è una riserva del bello”

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di Letizia Bognanni

“Storie di marinai persi in mare che cantano accompagnati da ritmi tribali. Melodie ispirate dal Pino Daniele di Vai mo’ unite al drunken beat di Kendrick Lamar”: questo, e non solo, è Enea, il nuovo album degli EPO. Ciro Tuzzi (autore, voce e chitarra), Michele De Finis (chitarra elettrica), Jonathan Maurano (batteria), Gabriele Lazzarotti (basso) e Mauro Rosati (piano e tastiere) hanno preso a bordo Roy Paci, Rodrigo D’Erasmo e il produttore Daniele “IlMafio” Tortora e tutti insieme hanno viaggiato, in senso figurato e letterale, per oltre due anni, dalle spiagge pugliesi a Roma, per riportare infine tutte le suggestioni raccolte lungo la strada a casa, il luogo dell’anima, Napoli: la scelta del napoletano, come lingua e linguaggio musicale (ma sarebbe meglio dire “linguaggi”) “è stato un azzardo che pian piano si è rivelata una nuova opportunità, la voce che istintivamente cercava di esprimersi con nuove sonorità e diventava più “strumento”, costringendoci a re-inventarci come musicisti”. Un approdo, dopo una storia nata nel 2000 dall’incontro tra Ciro Tuzzi e il produttore e tastierista Mario Conte (Meg, Colapesce) e proseguita con gli album Il Mattino Ha L’Oro In Bocca (2002), Silenzio Assenso (2006), Ogni cosa è al suo posto (2012), che non può che essere anche una nuova partenza. In tour, per cominciare, e poi chi lo sa.

Per Enea siete partiti da un suono, un’atmosfera, un’idea che vi ha ispirato la decisione di cantare tutto in napoletano, oppure, viceversa, è stata l’intenzione di cantare in napoletano che ha dettato le atmosfere musicali dell’album?

Ciro: “Una cosa a metà strada, nel senso che stavamo sviluppando quelli che sono stati i provini su cui si sono basati i brani di Enea e anche l’EP che abbiamo pubblicato qualche anno fa, e man mano si faceva strada l’utilizzo del napoletano, cosa che in realtà abbiamo sempre un po’ fatto nei dischi, c’è sempre stata almeno una canzone in napoletano, però è cambiato un po’ il nostro approccio rispetto alla canzone in napoletano: invece di utilizzare semplicemente un testo in dialetto nello stesso modo in cui facevamo coi testi in italiano, è iniziato ad arrivare naturale l’utilizzo del napoletano più per la fascinazione del suono e delle storie che permetteva di raccontare. Questa cosa è stata la scintilla che ha fatto innamorare il produttore Daniele Tortora dell’idea e ci ha spinto in questa direzione, cioè nel realizzare un disco tutto in napoletano perché aveva notato questo particolare, che quando cantavo in napoletano lo facevo con un altro tipo di trasporto e che a loro volta Jonathan, Michele, Gabriele, Mauro, suonavano in una maniera diversa perché venivano era come se diventassimo una band diversa, e questa cosa aveva un fascino particolare su cui lanciati poi da questa sfida di fare un disco tutto in napoletano ci siamo messi a lavorare per espandere quello che poteva essere il vocabolario sonico di questa esperienza, di questo racconto”.

A parte questa scelta, in che cos’altro è stato fondamentale come dite il ruolo del produttore?

Michele: “Daniele, che conoscevamo già, è conosciuto per il suo lavoro con Daniele Silvestri, gli Afterhours, Diodato e molti altri, e c’era già un rapporto di stima reciproca. Io poi ho vissuto a Roma per un periodo. In pratica è stata per noi l’opportunità per la prima volta di capire come si lavorasse a tutti gli effetti con un produttore, e quindi affidare il lavoro della band alle scelte di una persona esterna. Lui a sua volta non ha fatto il produttore nell’espressione canonica dell’indicarci la via, ha semplicemente assecondato quello che stava nascendo, il disco è stato suonato tutto quanto dal vivo. È stato un lavoro di preproduzione e produzione insieme perché le canzoni erano solamente abbozzate quando siamo arrivati negli studi di Roy a Lecce, e in pratica ha saputo assecondare un po’ i mood che venivano fuori nel momento e darci quelle intuizioni giuste per poi tirar fuori il suono che trovi su Enea”.

Le collaborazioni con Roy Paci e Rodrigo D’Erasmo come sono nate e si sono sviluppate?

“In modo molto naturale. Roy è stato coinvolto da Daniele e si è sentito subito parte del progetto perché a loro dire il progetto aveva un sapore internazionale, con un suono molto moderno e un approccio antico, quasi filologico alla lingua. Quindi si è sentito subito parte della cosa e si è messo immediatamente a disposizione, ci ha accolti nei suoi studi ed è stato un piacere lavorare con lui e vedere il lavoro impreziosito dai suoi fiati. Rodrigo alla stessa maniera lavorando con Daniele ha sentito i pezzi e quando gli abbiamo chiesto di arrangiare gli archi è stato entusiasta e ha dato un contributo che si sente. È come se fosse un’unica grande band che ha sempre suonato assieme, quando invece non era mai successo prima di allora”.

Tornando un attimo alla lingua, e alla musica napoletana in generale, secondo voi cos’ha di speciale, a cosa sono dovute le periodiche ondate di riscoperta e rinnovamento della musica napoletana come quella che stiamo vivendo in questo periodo, penso a Liberato o ai Nu Guinea?

Ciro: “Credo innanzitutto dal grandissimo bagaglio di storia che porta con sé la musica napoletana, quindi risulta da un certo punto di vista anche più intuitivo e probabilmente anche più facile per un artista napoletano trovare dei riferimenti anche nel passato. Io ad esempio per un brano del disco, Sirene, mi sono ispirato a una canzone di Roberto Murolo degli anni 40, oppure c’è una canzone il cui testo abbiamo preso da una canzone di inizio secolo, del 1918, cioè abbiamo la fortuna di avere una lingua che non solo ha una particolare musicalità, alla fine credo che ogni lingua, ogni dialetto possa avere la sua musicalità, però abbiamo anche la fortuna di avere un’enciclopedia da cui poter attingere, di avere dei riferimenti, e questo secondo me è una cosa che accomuna onestamente la nostra idea, il nostro progetto e che mette insieme cose apparentemente lontanissime come possono essere appunto Liberato, i Nu Guinea e noi, nel senso che alla fine c’è un vocabolario comune poi ognuno lo interpreta a suo modo, cioè Liberato vuole essere la voce della napoli contemporanea, l’utilizzo dello slang contemporaneo, i Nu Guinea si rifanno al neapolitan power di Pino daniele, di napoli centrale, noi abbiamo cercato di prendere molti elementi e mischiarli perché a differenza magari di questi altri due progetti siamo sì interessati al sound, al creare qualcosa di interessante, però io da autore ho anche il vezzo oppure la voglia di voler scrivere una canzone e di trovare un linguaggio mio è stato molto divertente perché questa opportunità mi ha fatto ricominciare daccapo a scrivere, ed è stata un’esperienza nuova, quindi sono molto contento di questa cosa, di aver potuto reinventarmi come autore”.

Come lavorate, tu come autore e in generale come gruppo? Improvvisate, scrivete mentre suonate, oppure scrivete singolarmente e vi ritrovate in studio con le varie idee…

“Non c’è un metodo preciso, nel senso il disco è formato da più momenti, ci sono canzoni che posso dire di aver scritto di mio pugno e di aver presentanto già l’idea ben strutturata, ce ne sono altre invece che sono nate durante delle session che abbiamo fatto nel nostro piccolo quartier generale a ??? dove ci siamo chiusi per qualche giorno e praticamente abbiamo improvvisato e registrato tutto quello che ne veniva, da quelle registrazioni le abbiamo tipo sbobinate e abbiamo estratto quelli che sembravano i venti momenti più interessanti e sono serviti magari come prima idea, come uno spunto per farla diventare una canzone, e da quella idea magari ragionavo su quale argomento, su quale fascinazione mi facesse arrivare alla testa, che parole venivano in mente ascoltando quella musica, quindi poi ovviamente il pezzo veniva modificato, rielaborato ulteriormente in sala d’incisione, però il metodo, il nostro modo di lavorare è molto frammentato, ci sono anche brani in cui avevamo davvero due idee in croce e poi siamo andati in studio e le abbiamo sviluppate. Abbiamo un approccio non proprio metodologico, io cerco di averlo per quanto riguarda la scrittura, che è la mia parte del lavoro, però oggi come oggi anche un beat ti dà un’ispirazione che è pari a una struttura armonica quindi è difficile capire chi ha fatto cosa alla fine.

Leggendo i testi ho notato che c’è un tema che ricorre in molti brani, che è la “presenza”, nel senso di consapevolezza del presente, il carpe diem in un certo senso, è così, c’è una sorta di filo conduttore?

“Assolutamente sì, nel senso che il disco racconta anche di me necessariamente, di cose che mi sono successe, dalla fine del mio matrimonio all’innamoramento, e racconta spesso di momenti, anche se sono dei ricordi, sono ricordi legati a qualcosa, come una madeleine di Proust, un’immagine che mi ha fatto venire in mente un pomeriggio particolare e il racconto di quel pomeriggio è come se lo stessi vivendo in quel momento, non è un racconto al passato, è il mio io adolescente che racconta quella giornata, o altre storie di vita vissuta, dove appunto rispetto al passato ho cercato anche più legami con luoghi della mia adolescenza e della mia vita, cosa che in passato facevo meno, difficilmente usavo nomi di strade o di quartieri per far capire però visto che è un disco sotto questo aspetto visionario, dove ho spesso delle immagini, ci sono delle visioni di momenti vissuti mi sembrava necessario per inquadrare ancora di più, per mettere ancora più a fuoco la fotografia”.

Infatti a proposito di luoghi, avete detto di questo disco che “è stato un viaggio lungo quasi tre anni”, cosa richiamata anche dal titolo. Ce lo raccontate un po’ questo percorso?

Jonathan: “Il viaggio è iniziato circa due anni fa quando ci siamo incontrati con Mafio (Daniele Tortora), Roy Paci e Grazia di Etnagigante, lì abbiamo gettato le basi per il lavoro che poi avremmo fatto assieme. Il primo momento importante è stato negli studi di Roy ai Posada Negro dove abbiamo appunto iniziato a lavorare al disco e questi momenti si sono ripetuti a distanza di tempo allo studio verde a Roma o al T2 a Roma o al Sound Inside Basement vicino Napoli, e questa distanza fra gli incontri ha fatto sì che maturassimo meglio le idee rispetto a quello che avevamo composto la sessione precedente. È stato un lungo viaggio e questa lunghezza è servita a capire meglio quello che stavamo facendo”.

Una cosa che mi è venuta da pensare e che mi faceva anche un po’ sorridere pensando a questa riscoperta della musica napoletana, che è una delle musiche più meticce, sia quella classica che quella odierna, è che arriva in un momento in cui si parla di “difesa della musica italiana”, da Sanremo alla proposta della legge sulle quote tricolori in radio, come se avesse senso parlare di “purezza” della musica o di nazionalità.

Michele: “Per come la penso io non dovrebbe essere nemmeno una domanda da fare, capisco perché ce lo chiedi ma trovo che sia oggettivamente un’oscenità un’idea e una proposta del genere. Penso sia anche abbastanza evidente come nasca, dal punto di vista politico e anche grettamente economico, questa geniale idea. Per quanto mi riguarda, ma credo di poter parlare a nome della band è un’oscenità e ti dico che l’abbiamo anche vissuto in prima persona questo tipo di scenario: abbiamo proposto il disco a più addetti ai lavori che ovviamente nella vita fanno questo e quindi dovrebbero essere delle persone specializzate e capire un po’ tutto, io non ho naturalmente la presunzione di dire che il disco debba piacere a tutti, invece il prodotto piaceva a tutti e come nota di demerito a margine c’era sempre “però è in napoletano”, che è un’altra oscenità per quanto mi riguarda. Voglio dire, Basile ha vinto il tenco con un disco meraviglioso, suonato con uno spessore e una profondità incredibili, tutto quanto in siciliano antico, che raccontava le storie della Sicilia d’epoca… è proprio una difficoltà per me immedesimarmi, non riesco neanche a fare un discorso di natura politica, ho proprio una difficoltà a capire quale dovrebbe essere mai il limite: il dialetto, l’italianità, la musica è musica, ha uno spessore e un messaggio che hanno più modi di arrivare, è chiaro che magari nello specifico caso degli EPO l’interlocutore che non è napoletano o campano ha più difficoltà a interpretare, a decifrare, a codificare immediatamente il messaggio ma non credo che in nessuna proposta artistica di nessuna epoca e di nessuna nazione questo sia stato un ostacolo, solamente in un’Italia così ottusa come quella di adesso può essere una difficoltà”.

Altrimenti non avrebbe senso neanche, che so, la musica strumentale.

“Fra l’altro. L’altra sera per esempio siamo andati a vedere gli I Hate My Village in un locale a Napoli, il locale era sold-out naturalmente, probabilmente per motivi assolutamente altri, perché era un happening e la band è una band di supermusicisti, dopodiché la gente probabilmente non si è resa conto di aver ballato la versione moderna della musica più africana del mondo per due ore, e magari chissà che ne avrebbe pensato Salvini”.

Da dove viene la scelta della cover/non cover di Ombra si’ tu?

Ciro: “è una canzone che noi abbiamo suonato in uno spettacolo teatrale nella sua versione originale, era uno spettacolo di cui io, Michele e Jonathan facevamo la sonorizzazione in tempo reale sul palco con un unico attore che recitava la storia di questo barbone che attraversava il periodo della guerra, del fascismo e così via, e avevamo trovato questa canzone che ci serviva in un determinato momento dello spettacolo. È un pezzo che mi è sempre piaciuto tantissimo però ci è venuta questa sorta di idea, di capriccio, di fare un lavoro tipo quello che facevano i Led Zeppelin nei primi dischi, che prendevano degli spezzoni di pezzi di blues americano e la struttura della canzone poi diventava un’altra, quindi utilizzavano quel testo come base per creare qualcos’altro. Oggi come oggi è una cosa che è tornata anche di moda, mi viene in mente James Blake. In questo caso il testo non è neanche completo altrimenti sarebbe durata venti minuti la canzone, le parole si sono allungate molto nel tempo. Fa parte proprio del fatto che chiusi in uno studio ci siamo molto divertiti a giocare con la cosa più bella che si può avere a disposizione, che è proprio la musica. Scoprirsi, scoprire, fare degli esperimenti su quello che si vuole fare prima di realizzarlo. Di questa canzone ne abbiamo parlato prima di mettere mano agli strumenti, non avevamo bene idea,non sono arrivato lì dicendo Facciamola in questo modo, ci siamo confrontati e nella naturalezza del mood,aiutati anche dalle cicale che c’erano fuori dagli studi di Roy si è creata quest’ambientazione e ci sembrava naturale raccontare questa notte d’estate, la storia di quest’amore che è svanito, che è diventato ombra”.

Cosa state ascoltando in questo periodo?

“Questa è la domanda più complicata perché noi siamo molto molto eterogenei. Ad esempio prima parlavamo in macchina, io e Jonathan nel dettaglio ma anche Michele siamo diventati fan di Speranza, questo rapper casertano che scrive dei testi molto duri però ha questo stile che somiglia un po’ alla jungle francese, con questa voce molto urlata… Ultimamente ci è piaciuto il disco di Rosalìa, i Massimo Volume restano sempre dei capi. Secondo me è un bel momento per la musica italiana, stanno uscendo molte cose belle, gli I Hate My Village di cui sopra, che sono tutti amici fra l’altro quindi è un doppio piacere vedere sul palco grande musica di qualità, linguaggio internazionale, sapore italiano, top player sul palco e gente che balla. Tutto nel momento che è il più basso culturalmente che io ricordi”.

Mi sembra che ci sia anche molta voglia di collaborare.

“Questo è il motivo per cui l’arte è sempre una sorta di riserva del bello. Un musicista in maniera più o meno naturale, più o meno conscia sa che non c’è cosa più bella di mettere a disposizione l’interplay, l’interscambio di linguaggi. Esce sempre fuori qualcosa di interessante mettendo dei bravi musicisti in una stanza a improvvisare. Il problema è che sono gli esseri umani che stanno dimenticando il senso della collaborazione, per quanto riguarda invece la musica no, anche nella stessa band se ci pensi, questo disco altro non è se non cinque persone dai background musicali diversi che dialogano in una stanza”.

Cosa farete adesso?

“Al momento siamo focalizzati su quello che riguarda il disco, la promozione, il tour, nei prossimi mesi porteremo in giro Enea, anche con Roy e Rodrigo e, per tornare al discorso di prima, con altri amici artisti che avranno voglia di dividere il palco con noi”.

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