Intervista: Carla Dal Forno

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di Mauro Fenoglio

Stanze vuote. Una lampada da tavolo prova ad illuminare incerta tracce di pareti scrostate dal tempo e dall’umidità lacrimosa dei ricordi. Un materasso gettato a terra tenta di evocare un’idea precaria di stanzialità. Rumori di fantasmi, suoni che vengono da un passato già malinconico quando era ancora presente. Sembra quasi il set di un episodio di Dark o Stranger Things, o l’ambiente per le scene più agghiaccianti del rifacimento di It. In realtà, potrebbe essere uno degli ambienti minimali in cui Carla Dal Forno ha pensato ad una delle canzoni spettrali che abitavano il suo primo lavorp. You Know What It’s Like del 2016. Disco del mese di Rumore in chiusura d’anno e meraviglioso esercizio di catarsi in solitudine, appeso a pochi mezzi essenziali, da trasformare in narrazione buia. Multi strumentista australiana, muove i suoi primi timidi passi con il trio indigeno, basso/chitarra/batteria Mole House. Con loro scrive Fast Moving Cars, che diventerà poi il suo elusivo singolo solista nel 2016. Senza fissa dimora, lascia la sua terra d’origine, per accasarsi con Tarquin Manek, e formare i Tarcar che pubblicheranno un 12” per la scurissima Blackest Ever Black. Da allora, per la nomade Carla, questa sarà la dimora discografica. Il mondo si accorge di lei con Hide Before Dinner, esordio del 2015 dei F Ingers, trio d’improvvisazione e suggestioni fra hauntology e new wave. La voce di Carla abita una dimensione quasi ectoplasmatica. Una presenza che fugge diafana, fra suoni che hanno la filigrana scura dei This Mortal Coil e il respiro dei Broadcast. L’esperienza F Ingers (giunta nel 2017 al riuscito seguito) le permette di misurarsi in solitaria. Strenuamente aggrappata ad un equipaggiamento minimo, elettronica povera e fascinazione per i rumori d’ambiente, costruisce un immaginario immerso nel post punk meno allineato. La casa fredda dei This Heat, il cantautorato appeso ad un filo di Anna Domino, ma anche delle prime Marine GIrls e l’inevitabile periplo umano di Ian Curtis, contemplato con dolcezza. Suggestioni che arrivano senza mai sembrare didascaliche, mantenendo una vitalità che è figlia dell’insicurezza da cui sono nate. Nel 2017 pubblica un EP, The Garden, che conferma le intenzioni dell’esordio, indicando un maggior governo della fase produttiva. Dopo una manciata di date nello stivale ad inizio 2017, Carla Dal Forno torna sulle scene italiane ad Aprile.

Sembri sempre in movimento. Prima l’Australia, poi Berlino e Londra. Pensi che non avere un riferimento geografico in un certo senso influenzi anche il modo in cui fai musica?

Carla Dal Forno: “In sostanza, significa che devo affidarmi ad un set up molto minimale quando registro musica. Mi rivolgo a pochi componenti chiave d’attrezzatura, un sintetizzatore, un basso, un computer. Non introduco mai troppi elementi nuovi, perché sarebbe troppo complicato viaggiarci insieme. Per fortuna, trovo che le limitazioni possano, in qualche modo, essere anche utili. Alla fine ho imparato a scrivere e registrare, andando in giro, anche e soprattutto con poco”.

Quando abbiamo recensito il tuo album d’esordio a Dicembre 2016 (per altro, nostro disco del mese), abbiamo insistito sulla sua capacità di creare un intero universo di sensazioni, partendo da pochi ed incerti elementi. Credi che il lo fi (applicato all’elettronica e a campionature ambientali) sia ancora una parte essenziale del modo in cui scrivi?

Carla Dal Forno: “Sono attratta dall’approccio lo fi, perché dà risalto a suoni più intimi e personali. Mi piace ascoltare lo strumento, ma anche riconoscere il rumore dell’ambiente in cui è stato registrato. Comunque, sono portata ad usare diverse tecniche di registrazione, per combinare i suoni essenziali in modi diversi. Una combinazione di approccio minimale e di curiosità”.

Sembra che oggi certa musica pop trovi nell’eccesso una sorta di conforto, per la sua difficoltà intrinseca di costruire una narrativa profonda. Credi che meno è meglio possa essere una via d’uscita alternativa per la musica pop contemporanea?

“Credo che la mia sia realmente una preferenza personale. Mi piace concentrarmi sugli elementi essenziali di una canzone, per poi perfezionarli senza renderli troppo ingombranti. Sono sempre stata intrigata da canzoni che hanno arrangiamenti anche minimi, ma in cui riconosci la cura e la perizia. Penso di voler inseguire quel tipo di approccio”.

Un altro tema delle tue canzoni sembra essere la descrizione della solitudine, evitando di darle significati eroici. Anche una semplice storia sentimentale usurata dal tempo che passa, ti offre indizi per parlare dell’isolamento nel mondo occidentale odierno.

“La solitudine è un tema importante in alcune delle mie canzoni. È parte dell’essere umano, anche se credo sia comprensibile cercare di evitarla, per non sentirne il morso. Nel mio caso, sento che l’isolamento mi porta ad essere anche più produttiva. Forse, questa è la ragione per cui la mia musica finisce per nutrirsene, naturalmente”.

Il fascino degli anni ottanta sembra non finire mai. Il successo di serie come Stranger Things ne è una conferma. Nella tua musica si trovano (in modo molto trasversale), suggestioni che rimandano ad aspetti musicali più defilati di quegli anni. Dai rivoli più minimali del post punk, a una certa interpretazione dei temi della dark wave. Come ti relazioni con quel periodo e la sua musica?

“L’estetica DIY era molto forte in quel periodo. Con molta sperimentazione spontanea e accesso a nuove tecnologie, che hanno avuto diretta influenza sul modo di fare musica di quegli anni. Ecco perché i primi anni ottanta sono stati di grande aiuto per me, nel capire cosa volessi fare come musicista. Mi piace interpretare il ruolo, realizzando quanto più possibile tutto da sola. Ogni volta che scrivo un pezzo nuovo, cerco di capire come possa sperimentare nuove forme e mettermi costantemente alla prova. Ecco cosa mi rimane del periodo che menzioni”.

Quali sono le band o gli artisti che consideri come maggiori influenze per te?

“Come detto, ascolto un sacco di post punk e DYI degli anni ottanta. Insieme a cose più attuali. Ci sono due band australiane, che ho ascoltato molto quando iniziavo a scrivere canzoni, The Cannanes e Garbage and The Flowers. Anche Gareth Williams e Marie Currie, The Raincoats, e i Broadcast“.

Ritmi marziali e arrangiamenti sintetici sparsi vestono la natura malinconica dei tuoi testi. Come lavori alla creazione dei tuoi pezzi?

“Tipicamente seguo un paio d’approcci. Ho periodi intensi, in cui cerco di scrivere una canzone al giorno, senza fermarmi. Per lavorare poi ai dettagli di ogni singolo pezzo. In questo modo, posso lasciare sedimentare le trace e tornarci su più tardi, per introdurre nuovi sapori, e selezionare quanto finirà su disco. Altre volte, compongo alla chitarra e aggiungo immediatamente i testi. Solo successivamente, penso a come mi piacerebbe registrare il tutto, e apporto nuovi arrangiamenti”.

Quanto l’essere multi strumentista ha aiutato la tua musica?

“Essenzialmente ritorna il mio impulso a fare tutto da sola. Non ho bisogno di altri musicisti per registrare quello che scrivo. Posso lavorare privatamente a casa e andare in studio, solo quando sono pronta. M’intriga spendere ore a imparare l’utilizzo di nuove applicazioni o attrezzature. Trovare nuove intuizioni offerte dalle macchine, e poi studiare come inserirle al meglio nelle canzoni”.

Il tuo EP del 2017, The Garden, mostra un ulteriore sviluppo rispetto all’album d’esordio. Cosa ci dici della direzione che stai prendendo?

“Con il nuovo EP ho imparato un sacco di cose riguardo la produzione. Credo che lo si senta, ascoltando il risultato. Alcuni dei testi sono ancora ispirati ad esperienze personali, come per l’album, ma questa volta ho anche cercato di rifarmi a temi di fantasia o metafore. Molte delle canzoni sono state suonate dal vivo, prima di essere registrate. Hanno avuto più tempo di sedimentare rispetto alle precedenti”.

Ad Aprile sarai di nuovo in Italia. Cosa ti aspetti dal tour?

“Ho suonato per quattro date a inizio 2017. Il pubblico è molto caldo e reattivo. Credo che i concerti andranno bene anche questa volta. Sono molto curiosa di suonare pezzi nuovi dal vivo e di vedere come sono evoluta dal punto di vista scenico, dopo aver speso molto tempo sui palchi in giro per l’Europa nel 2017”.

L’anno scorso è anche uscito il secondo album del tuo progetto parallelo F Ingers. L’utilizzo della voce sembra diverso, rispetto alle tue cose soliste. Quasi fosse uno strumento che galleggia, piuttosto che focalizzata a raccontare una storia (mi viene in mente Liz Fraser dei Cocteau Twins). Cosa ci dici di quell’esperienza?

“F Ingers è un trio con altri due musicisti di Melbourne, Australia. Improvvisiamo tutta la musica che facciamo, e questa è probabilmente una delle ragioni per cui la mia voce suona diversa. Improvviso testi e melodie al momento. I F Ingers sono stati una grande influenza e motore di crescita, per lo sviluppo della mia carriera solista. Oggi riesco a fidarmi molto di più delle mie intuizioni, avendo speso così tante ore ad improvvisare ed ascoltarmi dopo”.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

“Quest’anno spero di passare più tempo in studio a Londra, per poter mettere mano al nuovo disco. Credo che sarò in tour in America quest’estate”.

Com’è pubblicare per la Blackest Ever Black?

“Sono sempre stati grandi con me. Ho molto rispetto anche per gli altri artisti che pubblicano con loro. Definitivamente, la mia musica è in buona compagnia”.

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