Editoriale 314: Completamente sold out

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Di Rossano Lo Mele

Siamo all’interno di un grande locale per concerti. Non importa quale: né il luogo, né tanto meno la città (Torino, per l’esattezza). Sta per cominciare un concerto, uno dei più attesi della stagione e nel nostro mondo. La capienza del locale coincide con una cifra (X), non deve interessarci quale sia. Tuttavia, anche un occhio sprovveduto noterebbe un’incongruenza. La sala è piena per poco più di metà del numero di persone stipabili (va chiaramente aggiunto che, sì, sappiamo bene che quanti individui puoi schiacciare in un posto al chiuso non è sinonimo di agibilità del club, che anzi deve rispettare regole e numeri ben precisi). Tutto ciò non comporterebbe rughe organizzative, se non fosse che: il concerto è dichiarato sold out da giorni. Esaurito, non ci sarebbero dunque biglietti in vendita la sera stessa. E però: nel backstage chi dirige la produzione del live sta rallentando. Sbraita al telefono con un imprecisato qualcuno dicendo di ritardare ancora l’inizio, che magari la gente arriva (ma le casse non erano chiuse?) La nostra fonte è anonima quanto affidabile e ufficiale. Confermerà alla fine della serata che il pubblico presente in sala superava di poco la metà della capienza (agibilità) totale. Tutto esaurito!? Intendiamoci: il problema non consiste nell’andamento di un concerto. Figurarsi, la storia è piena di pessimi concerti andati sold out e di bellissimi live per quattro gatti (il recente tour italiano del nostro amato Ian Svenonius, purtroppo, solo per citare un caso recente). La domanda è un’altra. Quand’è che esattamente ha preso piede questa faccenda del sold out perenne? Questo esaurito sempre verde. Perché fino a prima del diluvio di giga nelle nostre vite c’erano i concerti e basta, mentre ora tutti si affannano a definirli sold out immediatamente? E perché vengono timbrati tali anche quando non lo sono? Ma poi che importanza ha? Perché tutti a correre questa maratona in crescendo continua? Nella serata di martedì 6 febbraio 2018, un problema simile ha dovuto porselo, per esempio, anche il ristorante “L’Angolo di Parìn“. Sito nella stessa città del locale anonimo di cui sopra.

Ma proviamo a fare un passo indietro, come si dice nei lanci dei servizi al TG. Possono esserci investimenti sbagliati. Anche nell’industria della musica dal vivo. Come capitato nel 2012 al tempo del primo disco e conseguente tour di Lana Del Rey. Personaggio in forte ascesa, appena emerso. Da lì all’idea di organizzare un tour nazionale nei palazzetti (addirittura) passò poco tempo. Ma forse nessuno dei promoter all’epoca realizzò che la pur ammaliante Lana non aveva ancora “costruito” abbastanza e che il suo pubblico – fatto all’epoca perlopiù di occasionali, distanti da un personaggio così fortemente americano e più sofisticato di quanto si pensi e si pensasse – non si sarebbe recato tempo zero al concerto, in un travaso automatico di popolarità (da mediatica a live). Risultato: nelle settimane antecedenti agli show furono offerti pacchetti omaggio di biglietti, decine e decine d’ingressi per addetti ai lavori. Ci sta, meglio salvare la situazione che un palazzetto dello sport vuoto. Demoralizzante per chi si esibisce, per chi guarda e per chi paga. Chi paga, appunto. Perché perseverare, con questa roba dei sold out perenni? Intanto va detto che molti concerti esauriti di tantissimi esponenti della nuova leva nazionale sono realmente tali: da Calcutta a Coez, solo per essere sbrigativi. Gente che fa girare l’economia. A molti farà sorridere, ma i nuovi rapper e cantautori hanno riportato pubblico in locali da tempo non così frequentati. Tanti, ma non tutti. Da qui la polemica emersa ormai un po’ ovunque negli ultimi mesi. Perché tizio ha dichiarato di fare sold out ovunque quando non è così? Partono allora le suggestioni: gli organizzatori hanno spostato il palco in avanti per far sembrare la sala più piena. Hanno regalato i biglietti (fenomeno che sì, accade, come detto). Hanno chiuso una parte del locale per non far vedere che era vuota. Il problema è però un altro ancora: in molti casi chi dichiara sold out è colui che organizza gli eventi. Chi organizza, compra un pacchetto. Promoter. Agenzia. Affitta una sala. Poi si gestisce tutto da solo (tranne i bar interni alle strutture). Quindi solo lui saprà quanta gente è entrata davvero nel locale/club/teatro. Gestisce biglietti, prevendita, incassi, eventuali omaggi e accrediti. Chi ha affittato la sala all’organizzatore di turno se ne disinteressa (è stato pagato, basta che tutto vada a buon fine, a partire dal bonifico); così l’unico depositario della verità sull’evento è il promoter. Per cui lo show è sempre, inevitabilmente, solennemente, completamente sold out? Spesso accade, ma talvolta no. Ma i tour sono sempre sold out? Perché dichiarare il falso? Perché tanto nessuno – al di fuori di chi organizza – ha i numeri per confutare alcunché. E soprattutto perché una battente campagna comunicativa – a colpi di timeline sold out – ti parcheggerà fra le mani il più potente degli assi. Siamo un prodotto di successo. Tu, sagra della tagliata marchigiana, pro loco di qualcosa sul Trasimeno, associazione culturale della Val Varaita, comune dell’entroterra cilentano, potrai mica rifiutare di pagare la mia offerta economica per uno show che sicuramente è destinato a smuovere folle? Ciò di cui tutti parlano. Rivenduto a prezzo maggiorato, così ci guadagnano tutti. Tranne l’informazione. E il mercato: che s’imbottisce sempre più di cifre da speculazione collettiva.

(Domanda, oziosa se si vuole: ma una volta ai concerti eravamo sempre le solite facce. Non mi pare che fossero il luogo più sexy del mondo dove recarsi. Qualcuno aveva successo ed esplodeva, ma insomma, la musica e il suo hinterland era sempre quella. Poi sarà cambiato qualcosa, chessò: il ricambio generazionale è stato molto più frenetico del previsto (in una fase storica in cui il paese si svuota di giovani)? La cosiddetta crisi del nightclubbing ha fatto sì che i maschi vadano in massa ai concerti dove vanno le femmine e usano l’evento come occasione di speed dating alternativa? Molti dei concerti attuali prevedono la combinazione genitore + figlio tra gli spettatori, quindi ogni ticket vale doppio? Oppure: un paese che tende a premiare molto la lingua nazionale, in musica, ha infine trovato dei suoi rappresentanti di nuova generazione che riescono a essere più convincenti, vicini e idolatrati di quelli che c’erano prima? Sia come sia: è sempre tutto completamente sold out. Salvo poi imbattersi in casi come quello citato in apertura. Perché lo fanno? Perché domani potranno vendere a prezzo più alto (e pazienza per l’opacità dei dati) quello che oggi viene immesso sul mercato a una cifra diciamo promozionale. Rischio d’impresa: io stesso, da produttore dell’evento, ne sono anche il suo sponsor principale, colui che solo sa certificare il successo (reale!) di quel determinato progetto. Come, non è vero, dici? E chi lo dimostra? E non è forse sempre stato così? Obiezione in parte giusta, ma non con queste proporzioni. E non in un momento di perdurante sofferenza economica del paese.

Quando un concerto non va bene, quando le presenze scarseggiano, si cerca sempre una scusa. Se le prevendite soffrono di anemia, allora si cancella in anticipo (mal di gola, impegni improvvisi, raucedine, fratture). Ma quando accade come nel caso dell’incipit, si può sempre trovare una scusa. Eh, ma stasera qui vicino suonavano gli Afterhours. Eh, ma in contemporanea c’è la semifinale di Europa League. Eh ma la gente non ha mica più i soldi di una volta, sceglie, non va a più concerti la settimana. Ma come, se sono sempre tutti sold out? Ci vanno o no? Eh ma stasera c’è la finale di Master Chef in televisione. A proposito: Parìn era il soprannome di Giovanni, che da bambino fu un ragazzo di Don Bosco. Dai salesiani apprese il mestiere di ristoratore. Cominciò alla fine dell’800, oscillando tra Lugano (Svizzera) e la Val Susa. Gli eredi aprirono nel 1965 una gastronomia in zona San Salvario, oggi celebre quartiere da movida che molti lettori probabilmente conosceranno, protagonista anche di una recente canzone degli Zen Circus. Quella gastronomia è diventata col tempo anche un ristorante bohémienne. Gli affari vanno bene, così i coperti sono passati da 50 a 90. Come dire, si raggiunge spesso il sold out. La sera di martedì 6 febbraio 2018 succede tuttavia una cosa inedita per L’Angolo di Parìn. Il ristorante apre, i tavoli vengono apparecchiati, ma nessun cliente valica l’ingresso. Zero. Evento mai accaduto nella storia del ristorante in 53 anni di vita. Il titolare allora si consulta con la moglie (che gestisce il locale con lui) ed esce in strada. Anche gli altri ristoratori, dichiara lei (Luisa Giambartolomei, anni 63) sono tutti con le mani in mano. Una cosa mai sperimentata in quella fetta di città vicino al mercato coperto e alla stazione dei treni. Quella porzione di metropoli dove (chi ci è passato lo sa bene) è impossibile trovare un parcheggio o un locale non frequentato qualsiasi sera della settimana. Interrogati sulla vicenda da Paolo Coccorese del “Corriere Della Sera”, i proprietari hanno attribuito il grande vuoto alla paura di uscire fiorita in città in seguito agli eventi del 2 giugno 2017 (data della finale di Champions League e dei tragici fatti di piazza San Carlo). Ma ma ma. La sera del 6 febbraio 2018 è accaduto qualcosa di evidentemente assai più rilevante per la vita sociale di una comunità cittadina (nazionale?). L’inizio del festival di Sanremo. Come i due eventi vadano a braccetto (l’incipit del festival e il deserto dentro un ristorante di ben altra estrazione) rimane un enigma. Certo, la TV stabilisce gerarchie, qui più che altrove. Fa vendere libri e dischi, da sempre. Genera popolarità, non da ieri. Rimane l’unico vero mezzo di comunicazione che smuove faccioni e opinioni, anche nel 2018. I musicisti vengono istituzionalizzati dalla TV (oggi tocca a Ghali, nostra copertina a fine maggio 2017). Si sa, va così da sempre. Vale per molti, ma evidentemente non per tutti. Perché non sarà mai mai mai in grado di svuotare le sale di tour certificati sold out. Ancora prima di cominciare. Del resto, come Silvio Berlusconi dichiarò a “La Stampa” qualche anno fa: “I consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni”. Figurarsi i concerti.

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