La lettera di Francesco Bianconi (Baustelle) per il libro di Leonard Cohen, Il modo di dire addio

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Il modo di dire addio è il libro edito da Il Saggiatore, tradotto da Camilla Pieretti e curato dal giornalista Jeff Burger che raccoglie confessioni in prima persona di Leonard Cohen sulla propria vita e sulla propria arte, attraverso decine di interviste inedite in Italia. Oltre alla lettera-tributo di Francesco Bianconi dei Baustelle che potete leggere per intero qua sotto, è anche presente l’introduzione al libro scritta da Suzanne Vega.

Una lettera
di Francesco Bianconi

Cara G.,
(sì, proprio tu, ma dovrei aggiungere, data la destinazione d’uso che queste mie parole da contratto avranno, «cari tutti») è una domenica di ottobre silenziosa e assolata. L’aria è ancora tiepida. Trump minaccia il dittatore coreano e il dittatore coreano minaccia Trump, partorire un battibecco atomico è più facile di uno schiocco di dita; l’Occidente è in guerra contro il terrore; un pazzo con un arsenale casalingo ha fatto fuori cinquantanove persone a un concerto a Las Vegas e l’Isis, ovviamente, rivendica; ho preso un cappuccino in Corso Lodi e ho sentito aria fritta condizionata e pesante di razzismo nelle parole del barista e in quelle dell’avventore (l’unico zitto era il bulldog francese); eppure il cielo è così terso che la Storia sembra messa da parte, annullata. E il pomeriggio così placido che la paura, la mia e quella di tutti, appare per un attimo fiera ammansita.

Ho appena finito di leggere le traduzioni delle interviste di Cohen, e finalmente ho un quadro completo del libro che le conterrà tutte (quando leggerai queste parole, lo troverai anche tu, quel libro, qualche pagina oltre la mia lettera). Ho divorato le interviste in tre notti, in uno stato di febbrile eccitazione. Tu sai bene quanto sia grande la mia ammirazione per Cohen, ma forse non sai quanto detesti l’approfondimento delle biografie degli artisti, soprattutto quelli che amo. È strano: l’arte dovrebbe sempre coincidere con la vita, no? Ecco, io tendo umilmente, senza strafare, ad applicare questa formuletta anche alla mia, di vita, ma non la faccio valere per gli altri.

Mi ferisce scoprire che Céline sia stato un mascalzone, un collaborazionista, mi irrita pensare ai trascorsi fascisti di Malaparte, mi fa venire l’orticaria scoprire che per Renoir le donne, da quando hanno smesso di piegarsi a terra per lavare i pavimenti, siano diventate amanti meno abili. E via di seguito, debolezza dopo debolezza. Scheletro dopo scheletro, negli armadi di quasi tutti. Ma stavolta, perché l’editore me lo ha chiesto, ho dovuto fare eccezione. Sono dovuto entrare nella vita di Cohen, quella che sta in potenza fuori dalle sue canzoni. Ho dovuto profanare il tempio. Cerco di sintetizzarti che cosa ci ho trovato, mentre aspetto che la lavatrice smetta di ragliare e finisca il suo ciclo.

Cohen non amava farsi intervistare. Questo libro è sacro florilegio innanzitutto per questo motivo. Cohen era schivo, violentava con voce garbata il mondo ma temeva di violentare la propria storia. Pensava, come molti suoi colleghi, che parlassero le canzoni e che non ci fosse niente da spiegare. È un fatto questo, che da ascoltatore attento, e da buon conoscitore della sua opera, in parte già immaginavo: lo si può intuire dal timbro di un cantante, il fatto che sia schivo o meno; lo si capisce dal modo in cui emette una sequenza di note, dalle progressioni armoniche che usa nelle sue composizioni, dal tono generale di un arrangiamento, da come una melodia viene portata. Cohen nei dischi non aggredisce, non è un rocker; metti un suo disco sul piatto e chi canta si manifesta come un signore che canta, non come un cantante.

Cohen non amava spiegare perché i suoi versi posseggono un valore letterario così denso, complesso e stratificato da innescare nell’ascoltatore un delirio e una fatica (sia benedetta, la fatica!) interpretativa tali da oscurare e rendere banale qualsiasi tipo di comunicazione extradiegetica. Faccio un esempio, il primo che mi viene in mente fra migliaia di possibili: «Some women wait for Jesus / And some women wait for Cain»; dopo un distico simile, ogni tentativo di chiarimento appare inferiore al messaggio di partenza; è prova lampante di come l’oscuro, all’interno di un discorso artistico, sia superiore al chiaro, di come il mistero sia più poetico della soluzione. Ciò non vuol dire che Cohen usi metafore forzatamente criptiche o surreali, anzi. L’oscuro dei suoi versi spesso deriva da una eccedente e fulminante semplicità di lessico ed esposizione. Come quando, in un’altra canzone, Una lettera xiii sintetizza il Novecento, e forse la Storia tutta, in due righe: «There is a war between the rich and poor / A war between the man and the woman». Anche in questo caso, cosa vuoi spiegare?

Cohen non amava spiegare le canzoni perché non era un cantante. O meglio, era uno che aveva cominciato a fare il cantante molto tardi. Soprattutto in un’epoca, gli anni sessanta, in cui il ruolo della popstar (e persino del songwriter) coincideva col possedere le Armi e i Sacramenti della Giovinezza. Cohen era un poeta e uno scrittore, per certi versi fallimentare, che ha imbracciato la chitarra quando, secondo i costumi del tempo, era già vecchio. Suppongo che anche per questo, rispondere alle domande di un capellone del New Musical Express quantomeno lo mettesse in imbarazzo.

Cohen non amava farsi intervistare perché non aveva tempo. Cohen amava, scriveva, viveva. Lasciava tutto e salpava verso Idra, poi si faceva soldato e andava a combattere per Castro durante la crisi della Baia dei Porci, per poi rendersi conto di essere esattamente quello che la rivoluzione comunista combatteva, ovvero un borghese con la mania dei completi eleganti, e quindi fare retrofront, deporre il fucile e tornare a scrivere, per poi fermarsi ancora e nascondersi dentro monasteri, ebreo dentro nidi buddhisti, o cristiano ortodossi, chi se ne frega, seguirne le regole, tagliarsi i capelli, meditare e pregare all’alba. Per poi tornare fuori, scrivere, amare, vivere.

Un gentleman, un pigro sempre in movimento, hot coolness incarnata. Leggo che quando Cohen comincia a essere Cohen, ha già provato ogni tipo di droga, già conosciuto pregi e difetti dello sballo. Non ha tempo di rispondere stoned alle interviste, quella è roba da Morrison, da Jagger, da tutti gli altri. Roba da ragazzi. Cohen ha già dato, adesso va di fretta, deve amare, vivere, scrivere. Eppure ha parlato, Cohen, al di fuori delle sue canzoni, e io sono qui con te, G., e con tutti gli altri, a far da testimone al frutto di quelle rare conversazioni con giornalisti fortunati. Nelle interviste c’è un Cohen a volte gentile e disponibile, a volte più stanco, a volte riflessivo, a volte colloquiale. C’è un uomo a volte sorpreso nella notte, dentro a camere di albergo, un uomo a colazione, un uomo in tournée, un uomo stanco e un uomo riposato. Ho pensato, dopo aver letto il primo blocco di interviste, quelle relative al- xiv Il modo di dire addio la prima parte della sua carriera, ovvero quelle che vanno dal 1967 fino al 1974, alle parole che mi hai detto una delle prime volte che ci siamo visti. Era notte, eravamo nel tuo appartamento, sul letto, e avevamo appena fatto l’amore. Io mi lamentavo della mia vita, ti parlavo della mia oscillazione perpetua fra la paura della morte e la paura della vita. Mi hai detto: «E quindi? Che fai per risolvere questa situazione?». «Niente», ti ho risposto. E tu, meravigliosa e nuda, guardando il soffitto, hai detto: «Ecco, un altro passerottino spensierato».
Leggendo le interviste di Cohen, sentendolo parlare della sua vita, e sommando questo al mistero altissimo dei versi delle sue canzoni (sulla cima della Tower of Song si ha la possibilità di fare il giro dei merli e guardare l’orizzonte), mi sono reso conto di avere davanti un uomo con un’ossessione. Che definirei così: l’ossessione del superamento della materia.
Cohen ha scritto un romanzo, Beautiful Losers, stroncato all’epoca dalla critica perché giudicato osceno, pornografico. Cohen racconta di relazioni, usa un lessico a volte osceno – in una canzone famosissima immortala una fellatio al Chelsea Hotel, e la immortala senza giri di parole («giving me head», canta) – ma non è mai pornografico. Cohen sente piuttosto il peso pornografico del mondo, e cerca di liberarsene. Al giornalista che gli chiede quale sia la sua canzone più rappresentativa, risponde «Bird on a wire», quella che dice «I have tried in my way to be free». A quello che gli chiede come sia stato lavorare col produttore Phil Spector per l’album Death of a Ladies’ Man, risponde «bene», ma rilascia quasi subito altre dichiarazioni in cui afferma di sentirsi a disagio vestito di orchestre lussureggianti, chitarre elettriche, e doppie batterie. Nella poesia «Petitions» scrive: «On this most ordinary night, so bearable, so plentiful in grave distractions, touch this worthless ink, this work of shame. Inform me from the great height of your beauty». Liberarsi dal peso della materia, salire più in alto. Sentire, dentro al biblical landscape che ci è dato di attraversare, la finitezza dei corpi, della carne, del metallo, del fuoco e dell’acqua, dei fiori e dei fucili, dei baci e delle coltellate. Il limite del materialismo, sentire quanto ci va stretto. Cohen sente la vergogna dell’essere un essere umano, e ce lo dice nelle canzoni in maniera complessa, col lessico dei poeti, quello che fa entrare in collisione mondi lontanissimi, il pompino con la Bibbia, e ce lo dice rispondendo ai giornalisti. Raccontando di sé errante, irrequieto, avventuriero in perenne ricerca di un mondo diverso da questo.

Una lettera xv Concedere interviste è farsi violenza, dicevamo. E allora che senso ha aggiungere violenza alla violenza? Perché rispondere, perché aumentare lo spargimento di sangue? Perché Cohen è uno in guerra, un combattente, uno che per tutta la vita ha cercato di distruggersi in quanto corpo, in quanto materia. Cohen voleva trascendere, andare oltre sé. Per questo semmai è erotico, non pornografico. L’amore, quello vero, dice Byung-Chul Han in Eros in agonia, è annullare l’ego per entrare in congiunzione con l’Altro (l’iniziale è maiuscola per evitare fraintendimenti da feuilleton). Questo emerge dalle canzoni di Cohen, questo emerge dalle sue risposte a volte stanche e snob, altre volte più partecipate. L’uomo, nel suo unico senso possibile: colui che ama a tal punto da provare vergogna, schifo, pietà, dell’uomo stesso, e che ha il coraggio di distruggerlo. Fossi meno passerotto, cara G. che l’hai già capito, e avessi io quel coraggio, ce l’avessimo tutti, questo posto sarebbe un posto migliore.

Sincerely,
Francesco

Redazione Rumore
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