Le migliori canzoni di Grant Hart con gli Hüsker Dü scelte dalla redazione

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Qualcuno ci sperava di rivederli ancora. Messe da parte le velleità di reunion e fatti i conti con la realtà, resta molto degli Hüsker Dü e tanto lo si deve anche a Grant Hart, scomparso qualche giorno fa. Frontman in seconda linea in contrasto con chi, in prima linea c’era (Bob Mould) e rivendicava quella posizione. Una di quelle storie imperfette e americane fino all’osso. Potrà anche essere sembrato forzato ricercare nella band del Minnesota lo scontro dicotomico e compositivo di Lennon vs Paul McCartney nei Beatles, ma Bob Mould e Grant Hart hanno realmente portato avanti per 9 anni una personale battaglia interna. Una guerra di nervi e testi. Due anime compositive diverse, due registri vocali che trasmettevano un qualcosa di ben preciso: uno più ribelle (quello di Mould ) e uno più introspettivo (quello di Hart). Bilancia sempre un poco più a favore del frontman Bob. Fate il conto di quante canzoni sono state scritte da Mould e quante da Grant dentro Warehouse: Songs and Stories: 11 per Bob e 9 per Hart. L’obiettivo di Mould di non lasciare più del 45% delle canzoni a Hart era raggiunto. La concorrenza interna consumatasi lentamente ha portato a livelli sovrumani la produzione degli Huskers in nemmeno di 10 anni di carriera (6 album e 2 EP). La fruttuosa ispirazione compositiva del batterista-cantante imprigionato dietro le pelli a suonare è cresciuta, e anzi, ha trovato un’indole rinnovata con cui affrontare la realtà, sia dentro che fuori la band – da solista e coi Nova Mob. Spesso c’erano le figure femminili al centro dei racconti di Grant Hart: alienate, perse, morte, ammazzate o stuprate. La vita (ai limiti) di Grant Hart riaffiorava e con lei anche le dipendenze. Abbiamo scelto i brani scritti da lui negli Hüsker Dü che più ci hanno segnato e lasciato di più. 10+1, ad ognuno la propria. E voi? (Nicholas David Altea)

 

It’s Not Funny Anymore (Metal Circus – 1983)

Per suonare la batteria e cantare contemporaneamente ci vogliono le palle. Nonostante la fragilità d’animo, Grant Hart le aveva. Contrapponeva il rantolo della sua batteria ai picchi melodici degli Hüsker Dü. It’s Not Funny Anymore non è solamente uno dei primi passi per la scrittura e il cantato di Hart. Si staglia all’interno dell’EP Metal Circus come la prima efficace prova di melodia applicata all’hardcore, facendo a sportellate con la violenza di Diane. Col senno di poi, si potrebbero azzardare paralleli interpretativi. Come il preludio inconsapevole al futuro dualismo con Bob Mould all’interno dell’economia degli Hüsker Dü. Oppure semplicemente di una cocente delusione, espressa senza mezzi termini e applicabile in qualsiasi campo. Puoi fare quello che vuoi, quando vuoi, con chi vuoi. Nulla cambierà questa situazione. Questo gioco non è più divertente. Oggi ancor più di ieri. (Luca Minutolo)

Diane (Metal Circus – 1983)

Nel momento in cui registrano Diane gli Husker Du sono ancora un gruppo hardcore. Certo, hanno già inciso Everything Falls Apart e manifestato le prime avvisaglie della complessità e dell’ambizione che esploderà da Zen Arcade in poi. Ma nella sostanza, in quegli anni, sono ancora un gruppo che insegue scientemente la velocità e la violenza. Qualcosa cambia d’improvviso ai tempi di Metal Circus. Mentre Bob Mould continua a cesellare le cannonate tipo Real World, Grant Hart compone un’agghiacciante murder ballad: la storia di uno stupro-omicidio raccontata dallo stupratore-assassino, più lenta e malsana di qualsiasi cosa abbiano mai inciso, con un ritornello sinistro ma incredibilmente catchy. La linea melodica la tiene il basso, e la chitarra si limita a rendere l’aria irrespirabile con le frequenze alte. I contemporanei la celebrano subito, come una sfida campale degli Huskers ai dettami del punk statunitense. Forse è vero, ma a me Diane è sempre sembrata più che altro una sfida di Grant Hart a Bob Mould, ad alzare il livello. Mould raccoglierà la sfida e la renderà una guerra: canzoni sempre più incredibili, dodici facciate di vinile in tre anni, neanche un minuto di opacità. Il gruppo ne uscirà stremato. La mia Diane preferita non è quella su Metal Circus, che anzi non riesco più ad ascoltare. Ascolto sempre l’audio del concerto londinese dell’85 che uscì in video: niente intro di batteria, partono i feedback di chitarra mentre il basso pennella la melodia da sotto. Quando entra la batteria l’aria è così carica di tensione che trent’anni dopo è ancora difficile averci a che fare. (Francesco Farabegoli)

Never Talking To You Again (Zen Arcade – 1984)

Se l’intero Zen Arcade ha richiesto 45 ore, per incidere Never Talking to You Again saranno serviti poco più dei 100 secondi della sua durata. Spartana, lo-fi ante litteram, quasi a prova di remaster. Ma anche il primo pezzo di Hart in quello che per molti rimane il capolavoro degli Hüsker Dü, e sorprendentemente la scelta cade su un piccolo miracolo di folk acustico, buttato a mo’ di paracadute dopo un inizio a ritmi altissimi. Minutaggio hc e i figli dei fiori, in uno degli ultimi attimi a mostrare gli Hüskers agire davvero come un solo corpo e una sola mente, cover byrdsiane incluse. Così che, col senno (e le autobiografie) di poi, emblematico dell’uomo resta l’aneddoto circa un benefit nel 2004, terminato con Mould che chiama sul palco Hart in una mai più ripetuta mezza reunion della band. Uno dei due pezzi? Never Talking To You Again. (Francesco Vignani)

Turn On The News (Zen Arcade – 1984)

Il protagonista di Zen Arcade è un ragazzo in fuga da una famiglia violenta, che si rende conto – di canzone in canzone – dell’ostilità che permea il mondo che sta cominciando a scoprire. Turn On The News è il penultimo momento di scoperta prima della catarsi dei quattordici minuti strumentali che chiudono l’album. È un brano dalla forma più definita rispetto alla media dell’album, più fedele alle regole del rock che al piacere liberatorio del punk. Il suo titolo è un invito beffardo, la sua natura palesata dalla prima strofa: “Se c’è una cosa che non riesco a spiegare / È perché deve esserci così tanto dolore al mondo. / Con tutti i modi che abbiamo di comunicare / Non riusciamo ad entrare in contatto con le persone che odiamo / E allora metti il telegiornale”. Il senso di smarrimento del protagonista assomiglia a quello che abbiamo provato noi negli ultimi dodici mesi. Ci siamo resi conto, come mai nella storia, di quanto la promessa di comunicazione fatta dall’avvento di internet prima e dei social media poi si sia rivelata in parte vana. Le notizie non ci informano. Ci fanno paura: “Le autostrade si riempiono di rifugiati / Dottori scoprono malattie / In mezzo a tutto questo nervoso prenderci a spinte / Che ci tiene lontani dalle persone che amiamo“. Il grigiume della realtà di Zen Arcade sembra assomigliare sempre di più alla nostra. (Elia Alovisi)

Pink Turns To Blue (Zen Arcade – 1984)

Era bastata una sola take per registrate Pink Turns To Blue, diciassettesimo brano del doppio Zen Arcade. Un disco che si liberò letteralmente dalle briglie rigide dell’hardcore. Due colori a definire un cambiamento cromatico, probabilmente epidermico. Il rosa che diventa blu: semplicemente i primi segni di una crisi di overdose di un’amica, la protagonista della canzone che Grant Hart ha scritto. Le labbra e le punte delle dita virano verso il ceruleo in questi casi. Nel 1994, dentro l’album Bug, J Mascis e soci dinosauri pubblicheranno un brano strutturalmente molto simile ma più caotico: Let It Ride. Attacco di chitarra distorta, batteria dritta, ritornello, voce densa di malessere, coro, assolo e chiusura. Le doti compositive di Grant Hart faranno scuola, la furia punk/hardcore declinata con coscienza pop melanconica liberò dall’obbligo i duri e puri di manifestare quella falsa mascolinità da maschi alfa. Quello che è arrivato dopo prende da lì, senza vergogna di mostrarsi normali. (Nicholas David Altea)

The Girl Who Lives On Heaven Hill (New Day Rising – 1985)

Uno dei pezzi che traghetta il trio dalle ambizioni terminali del mastodonte Zen Arcade a quel post hardcore intriso di pop malato, che ne determinerà (nel bene e nel male) i destini. È il 1985 e gli Huskers verranno a patti con il mondo, con ben due dischi. Questo e Flip Your Wig. Grant (apparentemente) inscena una storia di innocenza, pomeriggi adolescenziali e amori mai completamente confessati. Mould affila una bordata metallica che fa viaggiare il racconto di Grant. Che si fa sempre più disperato, fino all’apoteosi (devastata) finale. Una Thirteen dei Big Star lasciata marcire nelle mani dei Ramones. Il pop ferito a morte da anime perdenti, cresciute a rabbia e sconfitte. Per chiudere il cerchio, nel 1990 Grant racconterà che la Girl della canzone, era una sua amica malata di cancro, che leniva il dolore a litri di Heaven Hill (vodka dozzinale). Col senno di poi, l’ennesimo scherzo del destino. (Mauro Fenoglio)

Green Eyes (Flip Your Wig – 1985)

Diciamocelo: se la mettiamo esclusivamente sul piano dei testi, vince Mould. Ma la canzone d’amore più canzone d’amore di tutte la scrive Hart. La più semplice, la più ingenua se vogliamo, la più bella: occhi verdi che fra mille altre possibilità scelgono di guardare proprio nei tuoi, e tu stenti a crederci per quattro strofe e vari ritornelli. Cos’è che li fa splendere? È il sole a renderli così verdi? Sono gli occhi più belli che tu abbia mai visto, e siamo a un passo da “i tuoi genitori sono dei ladri, perché hanno rubato due stelle dal cielo e te le hanno messe al posto degli occhi”. Ma funziona, perché si sente come altrove e più che altrove l’amore per il pop dei ’60 e dei primi ’70, e si pongono le basi per il suo recupero in chiave punk emozionale. E funziona soprattutto perché Green Eyes è affrontata come qualunque altro pezzo degli Hüsker Dü, la chitarra con quella distorsione assurda, la batteria altrettando inconfondibile (ecco, ricordiamolo per le belle canzoni in minore che scriveva, ma anche come il batterista potente e originale che era), la voce fragile di Hart e quella di Mould a intrecciarsi nei cori. Chi è stato guardato alla stessa maniera da un paio di occhi verdi ringrazia. Gli altri non disperino: it’s a great big world, there’s a million other guys. (Andrea Pomini)

Flexible Flyer (Flip Your Wig – 1985)

Hart prende il Mersey beat, il sound della Liverpool alternativa e giovane degli anni 60, e lo trasfigura, incrociandolo col ghiaccio di Minneapolis, la città dove non hai tempo per le mode, nel più classico chiasmo degli Hüsker: rumore e melodia, balsamo e cicatrice. Quasi contraltare di Makes Not Sense At All, di Mould, è una canzone che parla di spaesamento e pace. Perché puoi diventare un sacco di cose, un cowboy, un’infermiera o un pompiere, puoi avere tutto il successo che desideri, però prima pensa all’anima, prima rendi la tua anima libera. Niente canzoni d’amore, qui. Puntate in alto, invece. Baciate il cielo. Set your soul free. (Gianluca Runza)

Don’t Want To Know If You Are Lonely (Candy Apple Grey – 1986)

Il primo singolo su major degli Huskers è stato anche il mio primo amore, quello che non si scorda mai. Il perfetto contrappeso all’attacco killer di Crystal con cui il sodale Bob Mould apriva le danze di Candy Apple Grey, come a ribadire che sarebbero rimasti sempre un gruppo hardcore. Don’t Want To Know If You Are Lonely è intrisa della malinconia che segue gli abbandoni, con la voce di Grant Hart che ti abbraccia e ti perdona. Un’emozionale elegia pop punk dal sapore Sixties. Nel video fatto alla buona, eppure bellissimo, colpiscono il sudore e gli occhi chiusi di Hart e Mould, il fumo e le cicche di sigaretta, il cappello da cowboy di Greg Norton, l’unico atletico, l’unico presentabile al pubblico di MTV. La cover dei Green Day, che uscirà su 7” assieme all’originale degli Hüsker Dü in occasione del Record Store Day del 2011, tradisce una commovente fedeltà che scivola nella deferenza. O meglio nel rispetto (e nella gratitudine) che si ha per il primo amore, quello che non si scorda mai, che non se ne va e non ti lascia solo. (Manuel Graziani)

Sorry Somehow (Candy Apple Grey – 1986)

Era l’accoppiata che ti uccideva, a diciotto anni. Sentirle una dopo l’altra. Ok, in mezzo c’era I Don’t Know For Sure, in ossequio a quel principio dell’alternanza che storicamente ha funzionato solo nei dischi degli Hüsker Dü. Grande pezzo, quello di Mould, ma pinzato tra Don’t Want to Know If You’re Lonely e Sorry Somehow faceva la figura del vaso di coccio. In quanti ci siamo tatuati sul cuore il logo degli Huskers grazie a quelle due canzoni? Io ho scelto Sorry Somehow ma mi accorgo che non riesco a raccontarla in poche righe – riuscireste a raccontare la vostra adolescenza in poche righe? – se non con dei tag essenziali: lirismo, melodia, rimpianto mascherato da recriminazione, brutalità sentimentale, nervi scoperti, metrica perfetta. Insomma: Grant Hart, al suo meglio. Nella recensione di Candy Apple Grey su Rockerilla c’era scritto che “vibra di ardore springsteeniano”: oggi quell’analogia mi fa sorridere, ma allora era tutto diverso e ci poteva stare. Dio, quell’organo sotto la voce di Grant. Il tempo vola, il tempo cura e il tempo ti fa a pezzi. Proprio come questa canzone. Oggi mi fa a pezzi. (Carlo Bordone)

She Floated Away  (Warehouse: Songs and Stories – 1987)

La prima canzone con cui – per banali ragioni anagrafiche – mi sono avvicinato agli Hüsker Dü. Era uscita solo l’anno prima dentro quell’enciclopedia che è il doppio album Warehouse Songs & Stories. Solo anni dopo scoprii che: l’aveva scritta Grant Hart. E che rappresentava uno dei pezzi di quella sanguinosa battaglia interna al gruppo che si stava combattendo fra lui e Bob (Mould). Ognuno dei due componeva i suoi brani. Per conto suo. E, per non litigare, tutti i brani avrebbero trovato posto nel disco in maniera speculare. Un equilibrio del genere non poteva durare, e infatti non durò, ultimo passo di una carriera svelta quanto formidabile. Ma all’epoca, nei giorni della scoperta, She Floated Away era “solo” quello che poi è rimasto: la batteria swingante di Grant, dentro un pezzo dolce, ma ferito dalle solite chitarre a punta di Bob. Malinconia punk. Emo prima dell’emo. (Rossano Lo Mele)

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Redazione Rumore
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