Otto begli album del 2016 di cui non ci siamo accorti

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A cura della redazione di Rumore

Dopo aver stilato la tradizionale classifica di fine anno, capita di incontrare di nuovo dischi che non erano passati sotto le luci dei riflettori – persi nel flusso inarrestabile delle recensioni, messi da parte e ascoltati troppo tardi per rendergli giustizia, trovati per caso fuori tempo massimo, ma non per questo meno significativi. Abbiamo quindi chiesto alla redazione di Rumore quali fossero i dischi che, per un motivo o per l’altro, non erano riusciti a trattare sulle pagine della rivista negli ultimi dodici mesi. Qua sotto trovate i nostri consigli.

Hovvdy – Taster

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Uscito il 15 aprile 2016 su Sports Day Records/Merdurhaus Records
Ascolta l’album su Bandcamp

Non so se ci sia un esatto motivo per cui la tristezza si accompagni così bene a un certo modo di fare musica con le chitarre. Suonare lentamente, sussurrare qualche parola e dare spazio al proprio malessere per penetrare in ogni angolo dello spettro sonoro: chiamatelo slowcore, sadcore, lo-fi, non importa. Il succo sono i brividi che fanno vibrare la spina dorsale di chi ascolta, la preoccupazione e il dolore che si rovesciano in positività grazie all’espressione artistica. Anche se non se ne è accorto nessuno, quello che credo essere il disco che meglio è riuscito a creare una struttura emotiva simile quest’anno è stato Taster, esordio dei texani Hovvdy (che, credo, si legge “àudi”).

Tra le pieghe di Taster si nascondono grandi modelli, che enumero qua per poi non citare più: Low, Codeine, Yo La Tengo. Aprirlo è entrare in una mente annebbiata e nostalgica, agrodolce e diaristica. Problem, quello che credo essere il nucleo dell’LP, è un buon microcosmo da cui partire. È una canzone fragile, un approccio positivo (“Avete tutti un problema / Ma va tutto bene / Non avrete niente di cui preoccuparvi, domani mattina”) intarsiato all’eterno ritorno di dolori passati (“Voglio vivere qua / Per un paio d’anni / Qua, nella città dove ha vissuto mio nonno”). La musica, un abbraccio rigenerante: quieta e melodiosa, ma pesante nel suo incedere. Lucida, ma con il cuore in gola. (Elia Alovisi)

The Lavender Flu – Heavy Air

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Uscito il 27 gennaio 2016 su Meds
Ascolta l’album su Bandcamp

Confesso che se non fosse uscito il disco dell’ex cantante degli Hunches, gli Sleeping Beauties, non avrei scoperto il nuovo gruppo di Chris Gunn, già chitarrista degli stessi Hunches. Così sui Lavender Flu ci sono arrivato diversi mesi dopo l’uscita del loro primo album, un doppio vinile uscito giusto un anno fa. Dentro c’è tantissima roba intesa non solo come numero di canzoni (30), ma anche come volume di suoni affrontati. Avessero deciso di smezzare il contenuto ne sarebbe uscito un capolavoro, così è troppo, ma ce n’è comunque abbastanza per innamorarsi.

Ci sono i suoni spastici dei Ween più ispirati, c’è il Daniel Johnston di Artistic Vice, tutto il catalogo dei Beat Happening, la psichedelia malata dei Royal Trux e il rumore casuale degli Hospitals. Non c’è nulla che ricordi gli Hunches, questo no. Come video hanno scelto di far uscire una cover di Bo & The Weevils “garage band legend from Vidalia, Georgia”, una ballata che a casa mia è diventata una hit istantanea. Roba che crea dipendenza. (Arturo Compagnoni)

Civil Civic – The Test

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Uscito il 27 giugno 2016 su Gross Domestic Product
Ascolta l’album su Spotify

In piena confidenza, nel 2010 non c’è stato altro riff all’infuori di Run Overdrive. Quella manciata di singoli, seguiti poi dall’esordio Rules nell’anno seguente, sembravano aver rubato il sacro fuoco del post-punk a venire. Reiterazione costante di un Johnny Marr sotto vuoto spinto. Superata la sbornia momentanea, il percorso del duo australiano è stato in piena salita. Cosa farne di tutti quei riffoni sparati a mille e delle futuristiche ritmiche serrate di basso e drum machine? The Test è, come da titolo, un esperimento. La prova tecnica di trasmissione per un materiale difficile da plasmare. Da maneggiare con cura, perché potrebbe tornare indietro ad effetto boomerang da un momento all’altro. Ripercuotendosi sui suoi stessi creatori. E fare male. Molto male.

Nato da una lunga campagna di crowdfunding, The Test va assimilato come un corpo unico. Le otto tracce che lo compongono sono solamente una mera formalità. Delimitazioni convenzionali di un corpus unico. Largo spazio ai synth. Bando alla furia chitarristica del passato. Piuttosto qui ne vige un controllato utilizzo. Se prima le linee di chitarra erano gettate in una velocissima galleria del vento, adesso riecheggiano in un indefinito spazio siderale. Libere da schemi precisi, spinte da una drum machine in moto perpetuo. Il compito delle linee melodiche spetta invece al basso. Anche laddove permane quel bellissimo vizio di un tempo (The Gift è puro distillato di Smiths avveniristico), il secondo capitolo dei Civil Civic punta verso alti, e altri, obbiettivi. Brainstorming alla ricerca della soluzione ideale. (Luca Minutolo)

Funeral Suits – Islands Apart

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Uscito il 25 novembre 2016 su Rubyworks Records
Ascolta l’album su Bandcamp

Una volta la retorica voleva che l’album più difficile fosse il secondo, oggi la cosa più difficile è superarlo il traguardo del secondo disco. La cosa vale soprattutto per band molto promettenti, che però non sono inserite nei radar di riviste e siti di richiamo internazionale. Nel 2015 scorso è successo con i Dry The River, nel 2016 con i Funeral Suits. Questi ultimi ci hanno lasciato a pochi mesi dalla pubblicazione di Islands Apart, un disco che a mio avviso non è stato accolto come meritava.

Indie pop-rock esotico con una fortissima connotazione elettronica, fatta di synth usati con maestria e di pattern sempre al posto giusto e una produzione praticamente perfetta, coaudiuvata dal tedesco Jochen Schmalbach. Pezzi cesellati al millimetro, senza mai nulla in più di quello che serve, che crescono molto con gli ascolti e rivelano sempre un lato nascosto a ogni play. Oltre al singolo Tree of Life segnalo Crowded Out, forse il pezzo migliore del disco, con un incedere lento, un’atmosfera molto intensa e un’esplosione finale lascia inchiodati alla poltrona. Si dice che i veri campioni lasciano all’apice della loro carriera. Sebbene quella dei Funeral Suits sia stata molto breve, li vede andarsene con grande classe. (Luca Doldi)

Jess Williamson – Heart Song

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Uscito il 4 novembre 2016 su Brutal Honest
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Mettiamoci il fatto che quanto a dischi deprimenti il 2016 non si è fatto mancare davvero niente, e basterebbe un giro alla lettera c di Cohen o Cave a blindare il discorso. O che alcuni album circumnavigano tonalità di nero tali per cui infilarli in una playlist di fine anno allarmerebbe i famigliari dell’estensore: e, metro più metro meno, in quel calderone finirebbe pure il secondo lavoro della cantautrice di Austin, non spiccasse per una capacità fuori dal comune di trascinare nel suo vortice.

Triste senza per questo essere arreso: la chiave è tutta in versi in cui la Williamson si racconta “vulnerabile come il ghiaccio”. E tenuto su da una scrittura che si rinnova ad alti livelli come da arrangiamenti sensati, con minutaggi attorno ai sette minuti in cui una volta tanto capita qualcosa. Consigliato a chi PJ Harvey la preferiva prima della canonizzazione, magari in quegli anni in cui i suoi dischi ricordavano esercizi di autoanalisi in salsa urbana. Ma da lassù anche Karen Dalton approverebbe. (Francesco Vignani)

KATIEE – Out All Night

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Uscito il 1 luglio 2016 su Selfish Agenda
Ascolta l’album su Bandcamp

Ho questo debole per le storie di musica alla Mark Hollis, quelle di gente che ha raggiunto un risultato artistico e che poi, a un certo punto, smette di inseguire il sogno. I musicisti che spariscono nella vita vera e nei lavori da ufficio e se continuano a suonare se lo tengono come passatempo non-ambizioso. Per alcuni è una scelta di vita, e per altri è una rimozione forzata dalle circostanze; poco importa. La storia di Katie Eastburn è così: è ragionevole pensare che il suo nome non vi dica molto, ma nei primi anni duemila il suo gruppo era una promessa. Si chiamavano Young People: canzoncine pop da due minuti, costruite su linee vocali sospese ed impossibili ed arrangiamenti che dire scarni è poco: la loro vita discografica è lunga un lustro e tre album bellissimi.

Poi Katie Eastburn si trasferisce a New York e gli Young People si sciolgono un po’ in silenzio. È il 2006: la cantante inizia a ripensare la propria musica, in cameretta, con una tastiera e una drum machine. Si rimette anche un po’ in giro, aprendo i concerti di qualche vecchio amico del giro post-punk, ma senza far uscire musica nuova. È il marito JimMcHugh (un altro arnese della scena off, capitano dei notevoli weird-folkers Dark Meat) a costringerla, in anni recenti, a registrare una decina di canzoni scritte lungo il decennio, assieme a una band di amici. Il risultato è un disco di profilo bassissimo a nome KATIEE, intitolato Out All Night e descritto dall’etichetta come “functional body music”, musica pensata per ballare e scacciare i pensieri. Descrizione poco veritiera: al netto di qualche malfermo tentativo elettropop, il cuore del disco è fatto di canzoncine sognanti di due minuti, costruite sulle stesse linee vocali impossibili e sulla stessa essenzialità musicale che animavano i dischi degli Young People. Tanto che è assolutamente lecito ripensare Out All Night, a tutti gli effetti, come una sorta apocrifo Episodio IV –e in quest’ottica, una delle migliori manifestazioni cantautorali espresse di recente dall’indie americano. Out All Night è uscito a luglio e non è stato cacato praticamente da nessuno. Lo ascoltate su Bandcamp: nel caso, concentratevi sugli episodi da due minuti come Rilke o la title-track. (Francesco Farabegoli)

Nick Hook – Relationships

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Uscito il 1 novembre 2016 su Fool’s Gold
Ascolta l’album su SoundCloud

In questo caso non si tratta esattamente di un disco sconosciuto, ma di uno dei più grandi underdog della stagione discografica appena conclusa. Recensito timidamente da Pitchfork con un mese di ritardo e un insipido 7.0, Relationships è arrivato a fine 2016 piano e a fari spenti, ma come album riassuntivo delle correnti che hanno avuto maggiore fortuna durante l’anno. In realtà l’esordio di Nick Hook aveva tutte le carte in regola per fare il botto: produzione della Fool’s Gold; featuring di artisti come Hudson Mohawke, Chino Moreno dei Deftones, DJ Paypal, Novelist, ILOVEMAKONNEN e 21 Savage, e una palette di generi che spazia dall’IDM alla trap e dal grime al black-revival di scuola Brainfeeder.

Nick Hook, per intenderci, è uno dei due producer dietro a Old English, hit di Young Thuge negli ultimi anni si è circondato di amicizie importanti grazie al suo lavoro in studio. Prima di Relationships l’artista aveva pubblicato solo un EP su Bandcamp e la sua versione remixata. Ora – con un disco d’esordio del genere – ha reso ben chiaro a tutti di non essere un semplice beatmaker, ma un produttore in grado di catturare l’essenza della sua epoca e riproporla in un mosaico di alta qualità. Ciliegina sulla torta: Silk Pants, ovvero un messaggio decisamente offensivo lasciato da Action Bronson sulla sua segreteria telefonica per prenotare una sessione di registrazione. (Tommaso Tecchi)

The Ukrainians – Evolutsiya!

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Uscito il 24 agosto 2016 su Easyblok
Ascolta l’album su Spotify

Mentre i Wedding Present riscrivono il pregevole George Best, la tedesca Easyblok raccoglie il best degli Ukrainians. Chi sono gli Ukrainians? Il gruppo nasce nel ‘91 per volontà di Peter Solowka, chitarrista, appunto, dei Wedding Present. Per rendere omaggio ai suoi avi, Solowka si presenta alle prove dei WP con un canto tradizionale, che invero convince i sodali e persino, in seguito, uno come John Peel. Le Ukrainian Peel Sessions vendono un botto e David Gedge, leader dei WP, decide di far fuori l’impertinente che gli fa ombra. Solowka non se lo fa dire due volte e fonda quindi gli Ukrainians, con il fermo intento di contaminare la tradizione del suo paese d’origine con le poetiche rock britanniche.

Molti i riferimenti a gruppi come Smiths e Sex Pistols, dei quali Solowka e c. sono appassionati cultori. The Queen is Dead diventa quindi Koroleva Ne Pomerla, e Anarkhiya trasforma Anarchy in the UK. Come rilevato dal celebre saggio di Artemy Troitsky, il merito delle band ‘di confine’ sta nell’aver reso fruibili canoni occidentali ad est del Muro, in un periodo di transizione nel quale i più non avevano certamente la libertà di azione dei Leningrad o degli stessi Gogol Bordello. Un venticinquennale da ricordare, con significativi episodi live (provateci voi a suonare Bigmouth Strikes Again in ucraino, a Manchester!). (Fabio Striani)

Redazione Rumore
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