Il rituale epico di Daniela Pes

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Daniela Pes Catania 2
(Credit: Giacomo De Caro)

Di Gianluca Runza

La musicista sarda Daniela Pes ha convinto tutti nel 2023 con l’album Spira. Nel suo lungo tour è passata anche da Catania coinvolgendoci nel suo rituale

RUMORE COVER FB NATALE 2023

Oltre 600 persone riempiono Zo per Daniela Pes, il cui album d’esordio, Spira, nell’arco di pochissimo si è conquistato un fittissimo passaparola, mediatico e non. Affatto scontato per un disco così refrattario a qualunque smanceria stilistica, tanto da costringere l’ascoltatore a fare la propria parte. Nessuna canzone propriamente detta, al contrario, il suo obiettivo è la trasformazione del suono e del suo alter ego, il silenzio, in pura presenza: plasmarlo così da portarlo in un’area di senso più incerta in cui tutto può accadere. Da questa prospettiva, appare ancora più chiara e coerente la scelta linguistica della glossolalia, cioè la produzione di suoni vocali senza senso, spesso sotto forma di sillabe, parole o frasi in lingue sconosciute o in un linguaggio inventato, che ne caratterizza le parti cantate. Pratica peraltro comunemente associata a esperienze spirituali in cui un individuo parla in modo inintelligibile, come guidato da uno stato alterato di coscienza o da una forza spirituale. Un disco tanto avventuroso quanto oscuro, da qualunque parte lo si voglia osservare, dal lato elettronico come da quello etnico, per dire dei suoi due vocabolari sonori principali. 

Date le premesse, eravamo molto curiosi di scoprire come lo avrebbe reso dal vivo. Nel primo pomeriggio, via social, arriva la comunicazione che la data di stasera è andata sold out. Una sorpresa, lì per lì, ma del resto, a pensarci meglio, è una notizia abbastanza in linea con le decine di concerti che, dalla pubblicazione di Spira, continuano, settimana dopo settimana, a infittire il suo calendario. Uno di quei casi in cui tutti gli elementi si muovono dalla parte giusta, producendo risultati superiori alla loro somma algebrica. 

Daniela Pes Catania
(Credit: Giacomo De Caro)

Inizio confermato per le 21,15, arrivo da Zo con un buon anticipo, intorno alle 19,30. Un piccolo capannello di due o tre comitive beve e chiacchiera davanti all’ingresso. Uno di loro racconta che è riuscito a prendere il biglietto secondo volontà divine: stava per acquistarlo quando gli è piombato un check in nel B&B in cui lavora, ritornato su Dice, ha trovato il tutto esaurito. Fortuna che proprio quegli ospiti, arrivati non ho capito da dove, ne avessero uno in più. Neanche il tempo di lamentarsi del destino, che lo stesso si è ripresentato come buona sorte. Ridono, fanno un altro brindisi. Varco l’ingresso della zona bar/ristorante, che è attigua alla sala concerti. Una tavolata alla mia sinistra è occupata dalla band, crew e promoter che cenano. Il resto dei tavoli è vuoto ma sono tutti prenotati. “Pubblico del concerto che ha deciso di cenare prima”, mi dicono mentre ordino una birra. “Fra poco sarà pieno”. Così è, infatti. Pian piano arrivano, prima i più anziani poi i più giovani, alla fine a occhio l’età media sarà intorno ai 35. No ragazzini, no teenager. Non è il pubblico di Tik Tok. Nessun abbigliamento sofisticato o caratterizzante, da sottocultura. Tra le chiacchiere fatte e quelle ascoltate, nessuno è lì per caso. Alcuni mi dicono che hanno consumato il disco, altri sono stati incuriositi da amici o da quanto hanno letto, tra social e riviste. In tanti, fra chi la musica la fa, sono qui. Da Giuseppe Iacobaci, della band noise Long Hair In Three Stages, che ha da poco pubblicato un nuovo disco, The Oak Within The Akorn, accolto abbastanza bene dalla stampa di settore, a Mario Lo Faro degli shoegazer Clustersun, in questo momento la band rock più importante in città. Dario Blatta, ex Blatta & Inesha, ora chitarra nel progetto jazz-funk Cratere Centrale e solista elettronico sotto l’alias My Friend Dario, o Agosta, autore nel 2022 di un bell’esordio, omonimo, in atmosfera trip hop, bissato da poco da un disco di remix. Così come la regista Maria Arena, che sta ultimando il suo documentario sugli Uzeda o Piero Toscano di Rock 86, che da decenni è molto più di un negozio di dischi (un cameo omaggio lo trovate in La Distanza, il libro a fumetti di Colapesce con Alessandro Baronciani, ndr).

Alle 21,00 si apre. Alle 21,30 la sala è gremita: in piedi, ognuno al proprio posto. È il secondo appuntamento della rassegna Partiture, che nei prossimi vedrà esibirsi, fra gli altri, Bono/Burattini, Valentina Magaletti e Ben Frost. Lo apre Gaia Banfi con un set di melodie pop, più melliflue che romantiche, su texture elettroniche decisamente canoniche. Il suo concerto, cioè la risultante di musica e presenza scenica, è davvero debole. Cambio palco, dopo qualche minuto, alle 22,22, salgono Daniela Pes, Maru Barucco e Mariagiulia Degli Amori. La Pes è al centro della scena, leggermente più indietro, Barucco alla sua sinistra e Degli Amori a destra. Synth, drum machine, percussioni, chitarra, voci. Vestite di nero, la loro è una presenza sobria e austera, come di tre sacerdotesse. Qualcosa che non è chiarissimo subito, ma che lo diventa via via, dal primo pezzo in scaletta in poi. Ca Mira, segue Illa Sera, poi Carme, cioè la stessa sequenza del disco. Che viene riproposto pressoché per intero con l’aggiunta, quasi alla fine, affidata ad Arca, di un pezzo inedito, il cui titolo viene ancora lasciato anonimo. Nessuno è lì per caso anche sul palco. Perché sono tre musiciste perfettamente a fuoco, non solo in quanto musiciste, Daniela Pes ha un’esperienza importante e su un palco, quel tipo di dimestichezza, di confidenza, si percepisce subito, perché non è qualcosa che ci si inventa. Soprattutto, sono a fuoco dentro ciò che stanno suonando.

Daniela Pes Catania 4
(Credit: Giacomo De Caro)

Che assomiglia a un rito: dal vivo molto più che su disco, questa sensazione smette di essere tale e diventa palpabile per via di una religiosa elettricità che investe la sala. Ognuno a proprio modo, i 600 restano immobili, in silenzio, ad ascoltare, ad accogliere. Lasciandosi trasportare in questo posto speciale che è la musica. Considerazioni, se vogliamo, soggettive, queste ultime, ma del resto è un po’ la summa di tutto quello che sentirò, origlierò, ascolterò a fine concerto. Le cui atmosfere sono quelle scure, come dentro una caverna, del disco. Bordoni che si dipanano lentamente e parti ritmiche che inchiodano e schiodano i perimetri dentro i quali la musica accade, ma, rispetto all’album, il suono ha un po’ più di polvere ed è più secco, mentre la voce della Pes, e delle sue musiciste, è più dentro il flusso che sopra. Molto rimanda a certi Dead Can Dance, quelli meno gotici che troviamo in diverse canzoni dei primi dischi, ad esempio Frontier. Lei stessa, Daniela Pes, ricorda per un verso Lisa Gerrard, dei Dead Can Dance, appunto, e per un altro Diamanda Galás. Senza essere né l’una né l’altra. Il modo in cui lascia che la sua voce si consegni al flusso del suono e la radicalità femminile del proprio approccio alla esperienza musicale. Sul palco, non accade nulla, nel senso che la presenza scenica è davvero solo una faccenda di carisma, con Daniela Pes che si muove spesso a scatti, quasi a governare il fuoco, mentre Degli Amori e Barucco rispettano quel tipo di equilibrio di scena, restando sempre un passo al di qua. Alle 23,30 l’ultimo suono svanisce. Loro tre si avvicinano e salutano il pubblico, silenziosissimo durante la musica, che è tanto entusiasta quanto scosso dall’energia ricevuta. Scendono dal palco velocemente, qualcuno chiede il bis, che per fortuna non arriva. Perché avrebbe banalizzato quanto avvenuto, su cui siamo stati un po’ tutti d’accordo: non si è trattato di un concerto, è stato un rito. La fine è importante in tutte le cose.

Redazione Rumore
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