Intervista a Greg Dulli (The Afghan Whigs): “Questo è il fuoco che mi brucia dentro”

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Unnamed 9

Il titolo scelto da Mark Lanegan, l’ispirazione di John Lennon: Greg Dulli racconta il nuovo album degli Afghan Whigs

RUMORE COVER FB NATALE 2023

di Cesare Lorenzi

La musica degli Afghan Whigs si muove a cavallo di una linea sottile. Greg Dulli sa che deve tenere alta l’attenzione: ha bisogno d’intensità, di emotività, altrimenti la sofferenza evocata dalle sue canzoni risulta anacronistica e l’approccio del gruppo rischia di non funzionare. Gli “Whigs” conoscono il problema, di conseguenza danno il massimo fin dall’inizio: “I’ll Make You See God”, la canzone che apre il nuovo disco, è un ceffone in pieno viso; inizia con un riff drammatico e gira immediatamente verso l’alto, senza mollare più la presa. È la loro maniera di salutare: “eccoci qui, siamo i soliti vecchi bastardi di sempre: alzate il volume”. Ho incontrato Greg Dulli la prima volta nel settembre del 1992, poche ore prima del suo primo concerto italiano. Claudio Sorge, all’epoca direttore di Rumore, diede il ritmo a una chiacchierata a tre voci che per il sottoscritto fu una sorta di battesimo del fuoco. Greg Dulli, dell’episodio nello specifico sorprendentemente ancora si ricorda: “il Bloom di Mezzago!!”, esclama. Quel ricordo condiviso ci consente di creare fin da subito il clima ideale per una piacevole chiacchierata.

Se ripensi a quei giorni, avresti mai immaginato di essere ancora in pista dopo così tanto tempo?

“Ho iniziato a suonare in una band da adolescente: era quello che volevo fare da sempre. Mi sono ritrovato dall’altra parte del mondo e non avevo preoccupazioni, ero entusiasta di qualsiasi cosa. Non sapevo nulla e non mi facevo troppe domande, sinceramente. Ero giovane, ero, come dire…’infinito’ (ndr: ride)….il futuro non era una mia preoccupazione. Ero troppo affascinato da tutto quello che vedevo per chiedermi qualsiasi cosa. Allo stesso modo mi sembra del tutto naturale essere qui, oggi, a parlare di un disco nuovo. Sono un cantante di rock’n’roll ed è quello che mi piace fare, ancora adesso”.

Ma che ricordi hai di quel primo tour europeo, del tuo primo contratto discografico con la Sub Pop? È un periodo che ti piace rievocare?

“Assolutamente sì! Ne ho parlato anche con degli amici di recente: penso che sia importante sforzarsi di ricordare le cose che ti sono accadute in passato, ricordare le cose che ti sono state di lezione, anche quelle negative. Si tende a dimenticare e a rimuovere, invece bisogna sforzarsi di tenere presente la propria storia personale. Quel primo viaggio europeo è stato importante per la mia crescita come essere umano. Ho conosciuto persone e mi sono trovato coinvolto in situazioni che hanno definito in seguito la mia persona”.

I dischi pubblicati in questo periodo sono stati tutti in qualche modo condizionati dalla pandemia. Così è stato anche nel vostro caso, mi è parso di capire. In che condizioni è nato How do you Burn?

“Be’, quando è scoppiata la pandemia mi stavo preparando a fare un tour per il mio album pubblicato da solista, Random Desire. Il giorno prima della partenza mi hanno fermato: stava cominciando a chiudere tutto. Ho aspettato un po’ come tutti, ho fatto qualche diretta streaming sui canali social ma poi ho capito che era il momento giusto per registrare. Ho raccolto qualche idea e ho cominciato ad andare nello studio di Christopher Thorne a Joshua Tree, che nel frattempo è diventato il chitarrista della band. Dopo un po’ si è aggiunto anche Patrick Keeler, il nostro batterista, che come noi vive in California. Abbiamo formato questa piccola band in formato ridotto, in sostanza. Quello che registravamo lo mandavamo a John Curley a Cincinnati, a John Skibic a New York e a Rick Nelson a New Orleans. Devo dire che non ho avuto particolari difficoltà perché avevo già vissuto una situazione simile durante l’uragano Katrina. Mi trovavo a New Orleans in quei giorni e non si poteva né entrare né uscire dalla città e quindi mi sono ritrovato a spedire file a tutti i miei compagni. Ha funzionato talmente bene, vista l’esperienza precedente, che abbiamo finito il disco in poco più di un anno, quindi molto velocemente per i nostri ritmi, perché tendiamo a prenderci il nostro tempo, di solito”.

Fa parte della mitologia del rock l’immagine della band che si trova in studio di registrazione e ad un certo punto scatta la magia. Quanto pensi ci sia del vero dietro questa affermazione? E quanto pensi che registrare per forza di cose ‘da remoto’ condizioni tutto il processo creativo?

“Eravamo in tre in studio, non è stato un disco propriamente registrato a distanza, come ti ho spiegato in precedenza. Le fondamenta delle canzoni sono state gettate come al solito. Ma capisco cosa vuoi dire ed hai ragione: è importante stare insieme in studio. Sento che queste canzoni, in particolare tre o quattro brani hanno un fuoco che è nato in quella situazione, in quello spazio quando ti ritrovi uno di fronte all’altro, quando ti guardi negli occhi mentre suoni, quando osservi da vicino i tuoi compagni suonare e cantare. Ma, devo dire, è stata affascinante anche la parte da remoto. Abbiamo mandato la musica a persone che conosciamo e sapevano cosa fare ma è stato ugualmente interessante scoprire cosa riuscissero ad aggiungere di volta in volta. Comunque, è stata una modalità di lavoro nata per necessità, se non avessimo fatto in quel modo non potremmo stare qui in questo momento a parlare di un nuovo album”.

Nel nuovo disco, in due canzoni, è presente anche Mark Lanegan, ai cori. So che avevate un rapporto molto stretto, la sua scomparsa deve essere stata un duro colpo. Ti va di parlarne?

“… (ndr: silenzio, cambia il tono della voce) …siamo stati amici per 22 anni, ed è un periodo lungo. Ho passato molto tempo con Mark e quando non ero con lui ero in contatto con lui. Lo consideravo come un fratello, era uno di famiglia. Sai quando hai un amico e hai questa sorta di rapporto dove tutto quello che ti capita lo vuoi immediatamente condividere con lui, scrivendogli o lasciandogli un messaggio se non ce l’hai vicino. Mi succede ancora adesso: mi ritrovo a pensare adesso lo scrivo a Mark, adesso lo chiamo e poi devo ricordare a me stesso che lui non c’è più. Non so se ci si abitua ma di certo io non me ne sono fatto ancora una ragione. Lui era una sicurezza per me, era la persona con cui potevo confrontarmi. Ha dato lui il titolo a questo disco, mi ha sempre sostenuto, mi ha sempre dato un’opinione. Avevamo questo continuo scambio d’idee. Ma mi manca soprattutto la sua amicizia, il suo senso dell’umorismo, la sua gentilezza. Mark era una persona splendida, non ho mai conosciuto uno come lui e non credo che mi ricapiterà mai”.

Hai detto che ha scelto lui il titolo dell’album. Sai a che cosa si riferisse?

“Penso che intendesse: cosa ti eccita? Che fuoco ti brucia dentro? Cosa c’è dentro di te che ti tiene vivo? Questo è il senso di quel titolo”.

Tra le mie preferite del nuovo album ci sono tre canzoni in particolare. La prima è The Gateway con questo fantastico arrangiamento d’archi che dà un tono quasi epico alla canzone…

“Be’, è una canzone nata con una sequenza di note di pianoforte. Avevo la parte introduttiva e l’ho suonata per qualche giorno, poi quando mi è venuta in mente la parte successiva, appena ho iniziato a lavorare sulla progressione di accordi, mi è venuto in mente John Lennon e mi sono detto: ‘oh, magari facciamo questo arrangiamento tipo I Am The Walrus’. Ho un amico che è uno specialista in questo campo, si chiama Eric Gorfaine e gli ho detto: ‘Eric, puoi arrangiare questa canzone per me?’. Gli ho spiegato cosa avevo in testa e lui mi ha fatto avere questa cosa bellissima. Aveva già fatto un arrangiamento simile nel 2006 su una canzone dei Twilight Singer intitolata There’s Been An Accident. Lui è un arrangiatore spettacolare e suona tutte queste cose: il violino, la viola e il violoncello. Il suo intervento ha effettivamente conferito una qualità epica a quel pezzo, soprattutto nel bridge, dove inizia a… inizia a girare, come una tempesta in cielo…”.

Jyja è una canzone decisamente particolare che mi ha ricordato i Bad Seeds, ha un incedere che mi ricorda in qualche modo il gruppo di Nick Cave….

Non lo so, è più hip hop di quello che ho sentito fare a Nick Cave di solito (ndr: risate). Ti racconto qualcosa a proposito di questa canzone: ho letto questa storia a proposito di un ingegnere cinese che si è costruito un robot sessuale e poi l’ha sposato. Ho pensato: che storia pazzesca. Scrivendo il brano mi sono immedesimato in questo tizio, Jyia è il suo nome, in sostanza. Negli ultimi anni, scrivendo i testi, cerco di non essere sempre autobiografico, mi piace inventare o immedesimarmi in personalità che non sono le mie”.

E poi c’è Please, Baby Please che sembra la cover di un classico della Motown…

“È una delle mie canzoni preferite in assoluto. Amo quel pezzo, amo quella canzone perché ha un sacco di spazio e mi fa stare così bene cantarla. È qualcosa di speciale…so che non si dovrebbe parlare in questi termini della propria musica, ma ne sono innamorato, mi fa sorridere solo pensarci. Se dovessi scegliere in questo momento non avrei dubbi: è la mia canzone preferita in assoluto”.

Dai fatti di Capitol Hill fino alla recente decisione della Corte costituzionale in tema di aborto, molti di noi sono rimasti interdetti da quello che sta succedendo in America in questo momento. Hai un’opinione in merito che vuoi condividere?

“È semplicemente scioccante! Il potere della lobby delle armi, la forza della destra religiosa sono impressionanti. Non pensavo potessero arrivare a questo punto. È scioccante che dei bianchi anziani possano decidere cosa fare con il corpo di una donna. La verità è che il nostro sistema politico ignora consapevolmente le persone in difficoltà, persone povere senza aiuti, abbandonate a sé stesse. Persone che si trasformano in tossicodipendenti, diventano malati di mente, diventano senzatetto. Non si prende cura nessuno di una fascia sempre più grande di popolazione povera, senza sussidi. Dire a una donna cosa può o non può fare con il suo corpo, questo è fascismo. Sono imbarazzato dal mio paese, sono imbarazzato dal mio presidente. Sono arrivato al punto che se continuerà in questo modo dovrò pensare seriamente di lasciare gli Stati Uniti”.

Che rapporto hai con i nuovi artisti? Ascolti musica nuova? Ti piace tenerti aggiornato sulle ultime tendenze?

“Ascolto tantissima musica, sai. Mi piace questo ragazzo di Baltimora, Dijon, il suo album è stupendo. Ascolto un sacco di radio, non ho preclusioni di genere. Ho amato l’ultimo album dei Midlake. Ma oltre alle novità cerco sempre di scoprire musica degli anni sessanta e settanta che non conosco. Se inizi a pescare in quel periodo finisci in un pozzo senza fondo, c’è così tanta musica eccitante là fuori. Tanta musica fatta da adolescenti, inoltre. Mi fanno pensare che sono molto più avanti di quanto non fossi io alla loro età. Scrivono canzoni con una maturità e con un’innovazione sorprendenti. Quando ascolto musica cerco sempre di non pensare troppo a chi sia il cantante, a quanti anni abbia o da dove venga. Mi concentro solo sulla musica, sul fatto che sappia eccitarmi o meno. Torniamo al titolo del disco: cosa mi fa bruciare? Cosa ti accende? Un buon ritmo, una grande melodia, sono l’unica cosa che conta: non mi importa quanti anni hai o da dove vieni”.

Sei sempre in contatto con Manuel Agnelli? Avete in programma qualcosa insieme?

“Ho notato che non indossa più magliette (ndr: risate), è sempre a petto nudo. Gli ho scritto un messaggio ieri a questo proposito. Sai cosa? Adoro la sua nuova canzone, penso sia incredibile, super fresca. Manuel è quel tipo di persona, sempre alla ricerca della novità e sempre alla ricerca di spingere il suo limite. È un’artista nel vero senso della parola e sono così felice di vedere il successo che ha raggiunto, è semplicemente un ragazzo magnifico, nessuno se lo merita più di lui”.

Ho sempre pensato che la musica della tua band non sia di semplice catalogazione. Emerge l’amore per la musica soul, chiaramente, ma vi muovete allo stesso tempo in una zona d’ombra. Se dovessimo scambiarci i ruoli per un momento: come descriveresti la tua musica a qualcuno che ancora non vi conoscesse?

“Onestamente, per me è molto semplice: mi definisco un cantante di rock’n’roll. Intendo il rock’n’roll nel senso più ampio possibile. Non importa che tu faccia noise rock giapponese, Mississippi blues, musica country, hip hop: tutto nasce da una combustione interiore che ti consente di condividere sentimenti. Proviene tutto dall’esigenza di descrivere le proprie emozioni più profonde in questo idioma universale: il linguaggio della musica, il linguaggio del rock’n’roll”.

Redazione Rumore
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