L’Ypsigrock è il festival dove succedono cose

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(Credit: Roberto Panucci / Flaming Lips)

L’Ypsigrock di Castelbuono continua a coltivare la sua internazionalità senza perdere le sue peculiarità da piccolo grande festival. La 25esima edizione è il ritorno alla sua completezza emozionale

RUMORE COVER FB NATALE 2023

Di Nicholas David Altea / foto di Roberto Panucci

Era solo questione di tempo e ci saremmo lasciati dietro l’incertezza combattuta con eventi a ridotta capacità, entrate contingentate, sedute distanziate e tutte le normative vigenti da rispettare. Quel momento è arrivato anche per l’Ypsigrock festival, finalmente, ed è stato speciale e difficilmente ripetibile poiché la nostalgia accumulata negli ultimi due anni, malgrado l’evento itinerante Orbita – e Tu splendi del 2020 e l’edizione Tiny But Needed 2021 fossero stati dei buoni palliativi, non potevamo continuare a serbarla per tutto questo tempo.

Così ci ritroviamo in un giovedì anomalo a Castelbuono, che solitamente è la giornata dedicata al “riscaldamento” pre festival, mentre per la venticinquesima edizione si punta più in alto, si allarga un po’ il raggio d’azione e si parte subito con tre artisti sul palco Ypsi Once di Piazza Castello. L’apertura è affidata al progetto nato nella residenza artistica castelbuonese organizzata per il secondo anno durante i giorni antecedenti il festival, chiamata The Sound Of This Place. Sul palco ci sono i tre membri dei Penelope Isles – band di Brighton che rivedremo più avanti – insieme al producer Go Dugong (aka Giulio Fonseca) e la visual artist americana (ma vissuta tra il Venezuela e l’Italia) Ionee Waterhouse. Il risultato è la massima contaminazione artistica in un connubio di post rock e psichedelia, ritmiche sincopate e drumming post punk, suoni sintetici, qualche campionatura pazzerella come lo scacciapensieri che rimodulato diventa una texture elettronica e i visual – trattati sul momento – che prendono il paese e lo saturano fino a decostruirlo e piegarlo su se stesso manco fossimo dentro Inception. Subito dopo tocca ai 4B2M (Four Brothers Two Mothers): quartetto olandese con batteria, synth, tastiera e basso. Solo frequenze basse e compresse, e un suono che ce li fa definire come dei Devo post sovietici che suonano e cantano come una backing band di Ciao2021 – abiti, mullet e baffi compresi. Così assurdi che fanno il giro e diventano geni incontrastati pur avendoci già conquistato furbescamente con Rocco (voce e tastiera) che indossa la maglia di Roberto Baggio del dannato Mondiale ’98.

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(Credit: Roberto Panucci / 4B2M)

Arriva l’atto conclusivo della prima serata che molti attendono: dopo gli Afterhours nel 1998 all’Ypsigrock ritorna Manuel Agnelli ma da solista sul palco siciliano – ricordiamo che al festival ogni band o artista ci può suonare una sola volta, salvo ripresentarsi con un progetto diverso. Che poi Agnelli è solista nell’idea ma non nella realizzazione visto che con lui c’è Giacomo Rossetti (Negrita), i Little Pieces of Marmelade (chitarra e batteria) e Beatrice Antolini che suona praticamente quasi tutto. L’entrata in scena è con la cinematografica Pam Pum Pam e poi Signorina Mani Avanti, due estratti dal disco d’esordio di Manuel Agnelli, Ama Il Prossimo Tuo Come Te Stesso. C’è però un problema che presto si evince: le frequenze della chitarra distorta di Manuel sono altissime e scartavetrano l’udito raggiungendo livelli di fastidio difficili da spiegare. A fondo piazza c’è chi si mette fisicamente le dita nelle orecchie per alleviare il disturbo. E non è questione di udito delicato o non abituato, ma è proprio un fastidio sonoro inaspettato che sovrasta il resto della band e ne danneggia la resa seguente dei brani degli Afterhours che occuperanno la parte preponderante della scaletta (15 su 20). All’incirca a metà del concerto qualcosa migliora ma è stato un peccato non poterne godere adeguatamente malgrado sul palco tutto sia al posto giusto compresa l’amalgama tra i musicisti. Una chicca poco prima della chiusura: la cover di Damaged Good dei Gang Of Four (passati da qui nel 2010) e ad accompagnare Agnelli e la band al basso c’è Massimo Pupillo degli Zu (anche loro in line up nel 2003).

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(Credit: Roberto Panucci / Manuel Agnelli e Beatrice Antolini)

Dai Flaming Lips che sono headliner il giorno seguente sappiamo già cosa aspettarci, ma lì, in quella piazza, tutto cambia e tutto si amplifica grazie a una magia medievale e primitiva ai piedi del castello. Fin dal soundcheck aperto al pubblico – plus non da poco quando la maggior parte degli artisti non pongono limiti – Wayne Coyne è in forma, fuori e dentro la bolla, e sotto l’arcobaleno gonfiabile. Rilassato e tranquillo; è un artista che non ha più nulla da dimostrare con una band che va per il 40ennale di carriera e 18 album in studio. Ciò non fa perdere però la sua meticolosità nel testare il palco su e giù, e allo stesso tempo scherzare col pubblico presente.

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(Credit foto drone: Roberto Panucci)

Mentre i live al camping sul Cuzzocrea stage iniziano molto presto (ore 14) con Brunacci e IRuna, al Chiostro settecentesco dell’ex Convento di San Francesco nel tardo pomeriggio si esibiscono lo scozzese C Duncan e i danesi Lowly. Il primo è dotato di una vocalità davvero interessante che già era stata riconfermata nell’album Alluvium (2022), anche se vederlo accompagnato dalla band avrebbe reso maggior giustizia alle sue potenzialità pop e di scrittura, al contrario del set voce, tastiera, basi e un poco di chitarra acustica. I secondi, invece, sono abili tessitori di armonie sognanti non lineari e mai banali, ma altrettanto algidi.

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(Credit: Roberto Panucci / Lowly)

Ci si sposta al Castello e i Penelope Isles non deludono: mantengono una scrittura scintillante e duttile sia nelle dinamiche più lente che in quelle più spedite, passando dall’indie pop al jangle pop sognante fino ad aspre distorsioni. Dopo di loro tocca agli Yard Act, attesissimi per la loro prima data italiana sulla scorta di un ottimo lavoro d’esordio (The Overload) e dal vivo ritroviamo tutto ciò che ci auspicavamo: il post punk che glissa fra il brit mid-’90 scuola Pulp e Blur, il flow hip hop che incontra le dissonanze no wave senza dimenticare di essere figli di XTC e Fall. La band di Leeds – con membri di progetti come Menace Beach e Post War Glamour Girls – è compatta e capace di piazzare la propria pietra ben definita nell’enorme muraglia neo post punk odierna che, più prima che poi, fisiologicamente inizierà a mostrare le prime crepe. Infine loro, i Flaming Lips, con Wayne Coyne che introduce il l’esibizione ricordando di un uccello meccanico mai più ritrovato riferito al brano di che aprirà il concerto, poco prima di attaccare con My Cosmic Autumn Rebellion. E la festa psichedelica abbia inizio, fino a renderci conto che se qualcosa lo si immaginava e lo si conosceva già, lì, in un paese del Parco delle Madonie in una notte stellata d’agosto acquisisce un sapore nuovo e di mai vissuto, perché all’Ypsigrock sembra sempre la prima volta e vien da dire Mother I’ve Taken LSD, Do You Realize?? Fra arcobaleni e robot rosa gonfiabili (Yoshimi Battles The Pink Robots) si viene immersi da cannonate di coriandoli colorati che non se ne andranno più e rimarranno come segno distintivo del passaggio dell’allucinogena brigata. Coyne a dire il vero resta un po’ troppo spesso nella sua bolla ed è un peccato, ma va bene così: il “Fuck Yeah” gonfiabile personalizzato per il festival non ce lo toglie nessuno con Race For The Price.

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(Credit: Roberto Panucci / Flaming Lips)

Certo, dopo tutto questo profluvio di colori e vibrazioni alienanti, il giorno successivo c’è il rischio che tutto sembri in bianco e nero, ma già dal tardo pomeriggio Natalie Bergman e Denise Chaila, trovano la chiave giusta per indirizzare la giornata. La bionda losangelina ha pubblicato un album dal titolo Mercy per la Third Man Records (l’etichetta di Jack White) nato dopo la tragica morte del padre e della matrigna comunicatagli al telefono poco prima di esibirsi al Radio City Music Hall con i Wild Belle, progetto musicale che aveva col fratello. La fiducia nella fede come ancora di salvezza e speranza infondono anche dal vivo – qui in formazione a due – un certo sollievo paradisiaco fatto di gospel, soul, retropop e quelle tinte calde 70s dei Fleetwood Mac. Tocca alla rapper irlandese/zambiana Denise Chaila scuotere per davvero il chiostro con rap, grime, dancehall e che trova in M.I.A. o Kreayshawn chiari punti di riferimento. Il pubblico non si fa tanto pregare e alza la temperatura già di suo importante, e il chiostro va in ebollizione. In Piazza Castello il menù è decisamente più pop anche se l’apertura è sulle spalle della band indie rock Pillow Queens, originaria di Dublino.

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(Credit: Roberto Panucci / Natalie Bergman)

Poi c’è grande attesa visto l’hype generato dal secondo disco dell’artista inglese Self Esteem, ovvero Rebecca Lucy Taylor che ricordiamo negli Slow Club. Prioritise Pleasure è un disco con pregi e sfaccettati dettagli che però nel live si perdono risultando normalizzato e con qualche cliché sia sonoro (il solito timpano percussivo e rutilante per accrescere il pathos) che scenico (il corpo coriste-ballerine pareva la brutta copia di qualcosa già visto ai piani alti di Britney Spears o Beyoncé). E non è problema dell’artista di turno troppo pop per il festival: l’Ypsigrock ha imparato negli anni a non chiudersi in comodi recinti foderati di comfort zone indie rock, brit pop o post punk. Semplicemente ha funzionato molto meno di quello che ci si aspettasse. Il pop dal vivo può essere a suo modo devastante e di altissimo livello: citofonare a Rina Sawayana, chi l’ha vista al Primavera Sound non se la dimentica. Dalle canzoni e dallo schermo il messaggio è tutt’altro che scontato: “There is nothing that terrifies a man more than a woman who appears completely deranged”, coperto per pochi secondi da un sempre poco tempestivo aggiornamento di Windows.

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(Credit: Roberto Panucci / Self Esteem)

Il sabato si chiude con l’elettronica da molti anni: in cattedra salgono i prof. David e Stephen Dewaele, già Soulwax ma da molti anni anche 2ManyDjs. Non può che essere un dj set didattico che passa da I Wanna Be Your Dog di Iggy and The Stooges – la copertina dell’album The Stooges prende vita con le bocche e le facce che si muovono a tempo – e tocca Marie Davidson, Wet Leg, 808 State (Pacific State), e poi, immancabile per l’occasione un cioccolatino belga per vincere facile: I Ricchi e Poveri con Sarà Perché Ti Amo che in qualche modo finiscono per incastrarsi con Bizcochito di Rosalía. C’è spazio anche per Gloria di Umberto Tozzi, adeguatamente rieditata e Blue Monday dei New Order. La piazza si muove, impara, capisce cosa stanno mixando e non ha praticamente bisogno di Shazam: è tutto lì, spiegato alla lavagna… pardon al ledwall, dai migliori prof. belgi che ci possano capitare.

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(Credit: Roberto Panucci / 2ManyDjs)

La domenica profuma già di nostalgia. I DIIV fanno il soundcheck, la gente se li gode ma l’Ypsigrock non è solo un festival, è il festival dove capitano episodi del genere, come ritrovarsi Andrew Bailey – chitarrista della band di Brooklyn – che dopo aver testato il palco va casa di alcuni fan catanesi a bersi un caffè e firmare i dischi. Cose che accadono solo qui. L’ultimo giro di orologio di live di questa edizione si appresta a fare il suo corso: si parte come sempre dal camping e si arriva al tramonto con la delicatezza di Anna B Savage all’Ypsi Love Stage del chiostro. Voce straordinaria, penna finissima e chitarra: il peso del mondo e della vita messi in musica in una tensione struggente e sublime. Cambio palco e cambio mood: Alyona Alyona è una rapper ucraina che prima di diventare molto famosa nel suo paese natale faceva semplicemente la maestra d’asilo. Ora col suo flow è tra i nomi più interessanti; il pubblico di Castelbuono apprezza lei e la sua crew, e il feeling con l’artista scoppia in pochi minuti.

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(Credit: Roberto Panucci / Alyona Alyona)

Al main stage avremmo dovuto vedere i Nation of Language ma il covid – speravamo di non doverlo nominare, maledetto – ha interrotto il loro tour. Così in sostituzione ci sono i londinesi PVA. Occhio all’album d’esordio Blush in uscita a ottobre per Ninja Tune che di solito ci vede lungo. Live precisissimo e millimetrico dove elettronica catartica, post punk, synth pop e math rock trovano un punto d’incontro insperato. Non possiamo dire lo stesso delle londinesi Goat Girl. Sul palco anche l’aggiunta di un quinto membro al synth non aiuta a legare il suono art punk / post punk che sembra sfilacciato, non compatto, incompleto e con dinamiche troppo sincopate. Il pubblico resta un po’ più freddo del solito e qualche miglioramento si nota solo sul finale quando i brani vanno un po’ più dritti. Tocca ai DIIV chiudere questa edizione. Dall’ultimo album Deceiver (2019) sono passati tre anni ma questa è la prima occasione che hanno di suonare quei brani in Italia dopo gli annullamenti del tour del marzo 2020. Recuperiamo con gli interessi un live perfetto per resa sonora e scaletta – certo, Bent (Roi’s Song) dispiace non ascoltarla. I quattro di Brooklyn hanno definitivamente trovato l’equilibrio tra riverberi shoegaze, melodie dream pop e ruvidità alternative anni 90: dentro ci possiamo trovare i Ride, gli Swervedriver, i Sonic Youth di Rather Ripped, i My Bloody Valentine ma anche i Bowery Electric, tanto adorati da Zachary Cole Smith. Si va da Under The Sun di Is The Is Are (2016) passando per Doused dall’esordio Oshin (2012) fino alla tripletta finale Life Before You Were Born / Horsehead / Blankenship. Su quest’ultima, come da scaletta, finisce tutta la bellezza. È davvero finito il festival, anche se i saluti proseguiranno con i dj set al camping e fra le vie dei baretti del paese con l’apparizione di Andrew dei DIIV che decide di concludere la serata con i fan italiani.

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(Credit: Roberto Panucci / DIIV)

Dopo 25 anni questo piccolo grande festival coltiva e accresce il suo respiro internazionale; guarda ed è considerato oltre confine, ma non lo scopriamo di certo oggi. Non ci sono aree privée o VIP; non servono. Si può incontrare Simon Raymonde (ex Cocteau Twins, ora Lost Horizons) ai concerti o ascoltarlo parlare al panel dedicato ai 25 anni della sua etichetta, la storica Bella Union che ha portato un numero cospicuo di band al festival per celebrare la propria Festa Bellissima. Il dj e conduttore Vic Galloway di BBC Scotland è ormai un habitué di Castelbuono da alcuni anni.
All’Ypsigrock succedono cose, chi c’era lo sa.

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