Intervista a Deda (ex Sangue Misto e Isola Posse All Stars): “Il fatto che oggi suoni diversamente è proprio il motivo per cui seguo ancora l’hip hop”

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Prima con Isola Posse All Stars, poi con i Sangue Misto e infine al fianco del suo amico Neffa o ancora di Sean e Kaos in Melma & Merda, Deda ha segnato gli anni 90 sia per il suo flow di rime sia per le sue produzioni musicali.

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Di Luca Gricinella

In occasione della data torinese del 9 luglio scorso organizzata ai Murazzi sul Po dal collettivo indipendente TUM Torino, abbiamo intervistato Andrea Visani aka Deda o Chico MD o ancora Katzuma. Insieme a William Simone e Andrea Calì, è una delle menti del progetto Oké che ha portato l’albero genealogico del suo percorso musicale, partito dal punk hardcore, passato dal rap negli anni 90 e, tra il 2005 e il 2015, dalla disco-house, fino all’afro-jazz del recente Deserto, album uscito per Original Cultures a fine 2020. Un disco nato da alcune jam in studio, primo collegamento con il passato dell’artista ravennate classe 1971 di stanza a Bologna, perché, quando si parla del rap italiano degli anni 90, di cui è stato assoluto protagonista, spesso si parla proprio di “periodo delle jam” (anche se si fa riferimento a due sfumature diverse dello stesso termine, visto che nel rap gli unici strumenti presenti sul palco durante le jam erano microfoni e giradischi, a parte rari casi). Prima con Isola Posse All Stars, poi con i Sangue Misto e infine al fianco del suo amico Neffa o ancora di Sean e Kaos in Melma & Merda, Deda ha segnato gli anni 90 sia per il suo flow di rime sia per le sue produzioni musicali. Poi negli anni 2000 è tornato, appunto, con Katzuma (all’inizio Katzuma.org) con cui ha animato i dancefloor celebrando il groove più black tramite molti dj set oltre a tre album, vari singoli e remix anche per etichette straniere. Oké segna un nuovo approdo sonoro che afferma una passione totale per la musica e la fame di rinnovarsi, due predisposizioni ribadite in questa chiacchierata.

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Vorrei partire dal progetto Oké e in particolare dalla sua impronta jazz: in questi ultimi anni è emersa una nuova scena jazz, penso, per esempio, a quella di Londra (città che hai frequentato molto negli anni 10) e ci sono vari artisti la cui musica ha dei legami con l’hip hop (alcuni di loro hanno proprio trascorsi attivi nell’hip hop). Nella tua esperienza è stato l’hip hop ad averti condotto verso il jazz o sei arrivato a certi ascolti a prescindere dal tuo percorso nel rap?

“Ascoltare l’hip hop degli anni 90 è stata assolutamente una svolta: ogni pezzo che usciva si basava su un sample, una specie di perla nascosta che ti portava a scoprire anche altri generi e ad apprezzare sempre di più i musicisti degli anni 60 e 70, che fossero soul, funk o jazz. Quindi in quel periodo mi sono avvicinato per la prima volta al jazz. Compravo i dischi alla ricerca dei sample ma poi mi sono innamorato di quel sound a prescindere. Quando ho smesso di produrre hip hop – era circa il 2000 – avevo quel suono in testa, in particolare proprio le ibridazioni con il funk… il jazz-funk degli anni 70 – e il progetto Katzuma si nutriva di questo slancio. Ma dopo c’è stato un altro passaggio chiave: passati circa 10 anni ho iniziato a frequentare vari musicisti jazz qui a Bologna, nel senso che per diversi progetti ho iniziato a suonare tanto con loro, e in quel periodo ho scoperto, appunto, il vero e proprio punto di vista del musicista, ho iniziato a collaborare con loro, a parlarci di musica e, da parte mia, a studiare un po’ di armonia. Insomma, sono stati due momenti un po’ differenti: il primo guidato dal gusto musicale, il secondo vissuto all’interno della scena e quindi beccando in studio musicisti jazz, sperimentando ecc. Il primo disco di Oké (Tree Of Life, uscito per QueenSpectra) è del 2016 e nasce appunto da questi esperimenti con i musicisti della scena jazz di Bologna. Gli altri due membri del progetto (Andre Calì alle tastiere e William Simone alle percussioni) vengono da quel mondo e sono chiaramente abituati all’improvvisazione come forma creativa principale”.

Avete già portato dal vivo il progetto…

“Sì, quando è uscito questo primo disco abbiamo fatto un po’ di concerti in giro per l’Italia. Poi ci siamo fermati per un po’ e, in una fase ancora successiva, abbiamo iniziato a preparare queste tracce che poi sono finite nel disco nuovo, Deserto, ma si parla di due o tre anni fa. Si trattava di tracce lunghissime, finite nel cassetto per un po’… poi è arrivato il lockdown e mi sono ritrovato con queste ore di jam un po’ matte che non avevano una forma canzone e mi sono messo a lavorarci; d’altronde in quei mesi non si poteva far altro che chiudersi in studio tutto il giorno. Più o meno la storia è questa, oltre al fatto che, a un certo punto, abbiamo coinvolto altri musicisti per arricchire il suono finale. Ora stiamo pensando a preparare i live che speriamo di poter iniziare dopo l’estate”.

Visto che la genesi del disco è costituita da queste lunghe jam in studio, i live saranno più fedeli ai dischi o più improvvisati?

“Direi una via di mezzo. Suonando con musicisti con questo background, la loro arma segreta è quella di poter improvvisare, quindi l’idea per i live è stata quella di dare ai pezzi la forma del disco lasciandoci la possibilità di jammare un po’, quindi con le strutture delle canzoni un po’ liquide, ecco”. 

“Invece, tornando un attimo al discorso sul rapporto tra jazz e hip hop, ci sarebbero molte altre cose da dire, se ne potrebbe parlare per ore: è un connubio che esiste da tantissimo e una cosa interessante è che da anni ormai è il jazz a essere influenzato dall’hip hop, non più viceversa. Penso a musicisti come Robert Glasper o Chris Dave ma la lista potrebbe essere lunghissima. Per quanto riguarda la scena di Londra a cui facevi riferimento tu, la caratteristica che la distingue, basandomi chiaramente su quello che conosco, è che ci sono molti musicisti influenzati dall’Africa”. 

Be’, anche in Deserto c’è una bella componente afro.

“Sì, assolutamente. William è un amante della tradizione afro-cubana. Ha studiato e suonato percussioni a Cuba per anni quindi inevitabilmente questa è una componente forte del nostro sound. Ma anche io negli ultimi anni ho ascoltato tantissima musica africana, sia tradizionale che attuale”. 

D’altronde altri due stili che da qualche anno stanno vivendo un notevole fermento internazionale sono l’afrohouse e i cosiddetti “afrobeats” contemporanei. Sono stili da cui attingi per i tuoi dj set?

“Sì, le cose nuove che sono uscite dalla scena africana negli ultimi anni mi hanno entusiasmato molto. In generale sono un super fan delle percussioni quindi qualsiasi cosa abbia una componente un po’ tribale mi è sempre piaciuta. Anche nei dischi di Katzuma – che erano orientati verso un suono più disco-funk – tendevo a mettere più percussioni possibile. Nei dj set poi si può spaziare ancora di più quindi mi capita di suonare un po’ di tutto compresa molta afro-house o anche robe un po’ più estreme tipo gqom”.

Hai citato Bologna per la scena jazz. Negli anni 90 c’era gente che da città più grandi come Milano veniva lì a fare serata o a passare periodi lunghi perché era un posto molto vivo, si diceva che era il crocevia di tante esperienze, di gente da ogni parte d’Italia. Adesso a livello culturale, o se preferisci prettamente musicale, com’è? In questi anni che clima c’è in città?

“Mi sembra che Bologna viva continuamente dei cicli che tendo un po’ a legare alla popolazione universitaria, perché la città è una specie di grande campus universitario. Ogni cinque anni, quindi, più o meno, si rinnova un po’ la gente che fa succedere le cose. Dal punto di vista musicale, per quanto mi riguarda, rimane una città vivissima, con un sacco di momenti interessanti di sperimentazione, di connubi strani. Ovviamente negli anni 90 è stato un punto di riferimento anche per l’hip hop ma più in generale rimane una città molto viva”.

Quando si parla della tua formazione musicale, si accenna sempre al fatto che sei partito dal punk, ma la questione non è mai stata molto approfondita. In particolare mi piacerebbe sapere in quali anni hai militato nel punk, in che modo e se si può dire che sia stato il tuo primo approccio alla musica.

“Proprio ultimamente sono usciti dei libri che raccontano la scena di quegli anni. Abitavo ancora a Ravenna e, come tanti, all’epoca suonavo in una band punk hardcore e frequentavo il giro dei centri sociali bolognesi. La mia passione per la musica è nata molto molto presto ma sì, grazie al punk hardcore ho iniziato ad avere un ruolo attivo perché era una scena in cui suonare, organizzare la serata, fare i flyer (e queste cose le ho un po’ fatte tutte) era la stessa cosa, facevi comunque parte della scena, ti sentivi sempre coinvolto. Era una scena molto unita che si proponeva di spezzare quel meccanismo per cui c’era la star sul palco e poi il pubblico… Quando mi sono trasferito a Bologna ho iniziato  a frequentare l’Isola nel Kantiere dove, tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90, hanno suonato praticamente tutte le band della scena punk hardcore mondiale. In quel periodo ho conosciuto Gopher, Dee Mo, Neffa e tutti gli altri amici con cui poi, qualche anno dopo, abbiamo intrapreso una nuova avventura (ride, nda)”. 

L’altro tuo grande background è proprio l’hip hop che, appunto, hai condiviso con Gopher, Dee Mo e Neffa a partire dall’Isola Posse All Stars. Mi sembra che oggi, soprattutto in Italia, una differenza importante con la scena della vostra epoca – e mi ricollego un po’ a quanto dicevamo prima – è che ci sono sempre meno producer che hanno come riferimenti musicali principali jazz, soul e funk, o quanto meno se li hanno non sono sempre consapevoli. Tu segui le ultime evoluzioni dell’hip hop e, a prescindere dai riferimenti, ti suscitano interesse oppure guardi altrove?

“Le seguo e devo dirti che le apprezzo anche. Il fatto che oggi suoni diversamente è proprio il motivo per cui seguo ancora l’hip hop. Come si è capito, amo cambiare: la stessa roba per troppi anni tende ad annoiarmi, quindi quel suono classico della golden age basato sui sample, per quanto lo consideri fichissimo, secondo me oggi come oggi ha detto quello che doveva dire. Mi piacciono molto le produzioni contemporanee, non tutte ovviamente, ma c’è un sacco di roba che mi piace proprio perché suona diversa e segue altri meccanismi. L’arte di produrre con il sample è andata in un certo senso perduta perché poi, appunto, i meccanismi di scoperta dei suoni sono un po’ tutti saltati con l’affermazione e l’evoluzione di Internet. Produrre, soprattutto nell’hip hop, è proprio un’altra cosa. E mi trovo ad apprezzare delle cose che non avrei mai detto. Negli ultimi anni, per esempio, oltre a certa  trap americana, mi piace molto il suono club ignorante alla Dj Mustard. Poi c’è anche un sacco di roba bella fatta in Italia e, anzi, malgrado molti miei coetanei tendano a dire il contrario, secondo me il livello si è alzato tanto sia dal punto di vista del suono, di come far suonare un beat, sia da quello delle capacità al microfono di certi artisti, quindi ben venga. Anche se, appunto, nella trap americana ci ho trovato delle visioni musicali nuove proprio belle, psichedeliche in un certo senso”. 

La tua è una visione complessiva sul suono di quel filone.

“Esatto, trovo sia potente in certe declinazioni. Originale, interessante ecc”.

Invece l’eredità dell’hip hop coi sample che pescava anche dal jazz la trovo un po’ nel filone che discende dall’hip hop astratto strumentale e che oggi ha come sommo rappresentante Flying Lotus… quelli che a partire dall’hip hop sono arrivati in qualche modo a fare jazz.

“Loro hanno proprio fatto il giro della boa e sono in un altro universo. Pensavo, invece, che stessi per nominare Griselda, quella scena più prettamente rap, quel mondo hip hop basato sui sample. Le loro cose che ho sentito mi sono piaciute perché non sono esattamente una replica del suono anni 90 e ho visto che anche in Italia c’è chi sta seguendo questa strada e sta usando i campionamenti… alla fine la musica ha i suoi cicli che tornano”.

Hai accennato un paio di volte a Katzuma: è un progetto ormai attivo solo per i dj set o tornerai in studio anche con questo nome?

“Le ultime cose che ho fatto uscire come Katzuma sono del 2015. Dopodiché mi sono trovato di fronte a un problema dovuto al metodo di lavoro che avevo adottato fino a quel momento. Era tutto basato sul campionamento e la maggioranza dei suoni derivava da sample tagliati. Ne usavo anche 10, 15, 20 o 30 per un pezzo, quindi il metodo di lavoro era abbastanza complicato e lungo. Ora dopo un po’ di anni di pausa ho immaginato di poter scrivere un nuovo capitolo basandomi molto di più su tracce suonate. Quindi sono al lavoro su cose nuove. In realtà è appena uscito un mio remix per Godblesscomputers che ha già questa impronta. Il progetto Katzuma mi ha dato un bel po’ di soddisfazioni all’estero, ho collaborato con gente super figa della scena internazionale disco e house e quindi ci tengo molto. Oltretutto stanno per uscire delle ristampe in vinile dei primi tre album (il primo, Moonbooty è giù uscito per Aldebaran)”.

Spesso il sottotitolo delle tue uscite firmate Katzuma recitava “Music From The Motion Picture”: nasce da una passione per il cinema o dall’ispirazione sonora, per esempio da quella per la blaxpoitation?

Moonbooty è nato molto spontaneamente, in un momento – il 2004 – in cui mi occupavo anche di web e grafica. È uscito a nome Katzuma.org perché legato a questo sito dove facevo vari esperimenti. Le ultime cose sono molto più vicine alla disco o alla house ma l’immaginario era quello dei dischi da cui prendevo i sample, quindi sì, anche colonne sonore blaxploitation oppure dischi funk anni 70, le library, le sonorizzazioni. Però, ecco, non c’era proprio un’idea solida dietro il discorso “Motion Picture”… era nato anche per confondere un po’ le acque”.

Ah, quindi non ti immaginavi di musicare un film?

“Quello succede ogni volta che faccio musica (ride, nda)”. 

Ma sei un appassionato di film e serie TV e magari ti piacerebbe fare una colonna sonora?

“È uno dei miei sogni nel cassetto”. 

Redazione Rumore
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