Home Speciali Articoli My Tunes di Maurizio Blatto – Rumore, Raffaella Carrà

My Tunes di Maurizio Blatto – Rumore, Raffaella Carrà

0
5621

Nel numero 351 di Rumore di aprile 2021 (lo trovate qui tra gli arretrati), la rubrica My Tunes di Maurizio Blatto era dedicata a una canzone interpretata Raffaella Carrà, ovvero Rumore. Solitamente non ripubblichiamo nulla online di ciò che è uscito sull’edizione cartacea, ma per Raffaella Carrà, che ci ha lasciato ieri all’età di 78 anni, facciamo uno strappo alla regola, d’altra parte le regole dello spettacolo, della musica e della tv le ha sempre stravolte.

di Maurizio Blatto

“CHE COSA CI TROVASSERO DI TANTO STRAORDINARIO NEL MIO OMBELICO, CI HA PENSATO MIA MADRE A SVELARLO: PIACE PERCHÉ È UN OMBELICO ALLA BOLOGNESE…”
(RAFFAELLA CARRÀ)

Ogni tanto, forse per espiare un reato orrendo perpetrato in qualche vita precedente, sei invitato a incontri dove ti viene formulata immancabilmente questa domanda: “Tu cosa consiglieresti a un giovane che volesse intraprendere la carriera di critico musicale?”. Battuta facile “di fare l’idraulico”, risposta più ponderata “di non recensire mai gli italiani”. Ovviamente perché a meno che tu non sia affetto dalla sindrome di Mollica, per cui è tutto quantomeno sensazionale, prima o poi stroncherai qualche disco. E, nonostante tu lo faccia circostanziando le tue critiche, qualcuno si innervosirà. Se parli di una band del Wyoming come la peggior porcheria dopo gli inediti di Secret Society degli Europe, è evidente che non ci saranno ripercussioni. Ma se suggerisci a un gruppo di Sattrabia Val Cresta di rivedere magari gli arrangiamenti di fiati del brano numero sette, allora arriveranno i guai. Che si traducono in “pezzo di merda” (persino affettuoso), “t’ammazziamo” (vago) o “sappiamo dove abiti” (meno gradevole). Una volta nel camerino di un noto locale, a fianco di memorabilia su pompini assortiti, notai un “Maurizio Blatto fottiti” firmato da una band che avevo criticato per troppa aderenza joydivisioniana, seguito da un “quello non capise niente” aggiunto con grafia diversa. Mi concentrai sul “capise” alla ricerca di una traccia regionale, per intuire le ragioni per cui magari nel Polesine non andavo forte. A conti fatti risultò quasi lusinghiero, suonava persino rock’n’roll. Poi arrivarono i social e io mai con loro, ma la faccenda peggiorò. Nonostante la mia assenza, c’è sempre qualche serva del Web che, inevitabilmente, ti approccia con “tu fai benissimo a non stare su Facebook, è una merda totale. Figurati che hanno detto” e alè. Ora “se è una merda come dici, che diavolo ci fai tu lì per metà delle tue giornate e, soprattutto, non ti sfiora l’idea che io ne sia fuori proprio per il legittimo desiderio di non saperne niente?”. Ma è impossibile, il concetto, pur non così vertiginoso, non passa mai. Quindi un giorno mi dissero che, dopo una mia proverbiale accettata su un disco italiano ritenuto fondamentale dai più, al termine di uno shitstorm di massa uno aveva scritto “d’altra parte che cosa vi aspettate da uno che scrive per una rivista che ha il nome di una canzone di Raffaella Carrà!?”.

Ora, io sono d’accordo con la regola di Andreotti e non replico mai, ma questa mi parve davvero eccessiva. Non solo perché voglio bene alla mia rivista, ma principalmente perché soltanto un idiota da competizione non può accorgersi che quella canzone della Carrà è una bomba assoluta. Ripeto, assoluta. La Carrà va presa al netto delle imitazioni, dei fagioli da indovinare nel bicchiere e dall’aggressione fisica vergognosa (possiamo dirlo?) di Benigni in TV. Occorre considerarla per ciò che è stata, una straordinaria icona pop e una bomba sexy. Oltre che la cantante di alcune canzoni che hanno cambiato la Storia di questo Paese. Per dire, Tanti Auguri. Ovviamente lo hanno capito prima all’estero, ed ecco l’inattaccabile “Guardian” che, in un articolo del 16 novembre 2020 intitolato “Raffaella Carrà: The Italian Pop Star Who Taught Europe The Joy Of Sex”, parla in questi termini di quant’è bello far l’amore da Trieste in giù: “It’s such an innovative, liberatory act! Imagine all those women on the outskirts of Rome or in the Brescia province who thought that making love was an act they could only perform with their husbands in a very unhappy way”. L’ho lasciato in inglese perché aumenta il tasso di exotica rispettabilità, ma devo ammettere che mi risulta incomprensibile perché nelle periferie di Roma e nella provincia di Brescia si dovesse scopare con tristezza. Per tacere di A Far L’Amore Comincia Tu, presente nella versione inglese (Do It Again) in un episodio del Doctor Who prima ancora che remixata e gambardellizzata o Tuca Tuca ( “the jazz-like song: one performer touches the other on different body parts as the song progresses” sempre il “Guardian”). Ma nulla può eguagliare le vette di Rumore. Lo ammetto, non ho letto il libro sul glam di Simon Reynolds, ma se non contenesse almeno un paragrafo su Rumore, be’, allora perderebbe metà del suo valore. Come altro definire i tamburi incessanti che reggono il groove (giungla? curva di stadio?)? Quel glorioso na-na-na iniziale (Sweet meets Giuda?) I fiati che irrompono all’improvviso? Le tastiere da Stevie Wonder era Songs In The Key Of Life? La chitarra wah wah in stile Temptations che stacca ai due minuti? Tutto è pura quintessenza glam. Ma soprattutto lo è Raffaella. I video dell’epoca sono letteralmente devastanti, polverizzano non tanto Madonna o Lady Gaga quanto Tina Turner e Betty Davis. Nero glitter alla Marc Bolan con schiena libera fino all’aggancio della riga del culo e zampa d’elefante. Giubbotto borchiato Kiss sadomaso e mutande latex con reggicalze e stivaloni, in pratica Cherie Currie delle Runaways in Cherry Bomb, ma più oltraggiosa (fate i confronti, al netto di Joan Jett). Bikini di leopardo in paillettes catarifrangenti. Tutto.

Presentato per la prima volta a Canzonissima 1974, Rumore è uscito in inglese (Get Movin’), francese (Lumière) e spagnolo (Rumores).  A volte il mondo gira per il verso giusto e divenne immediatamente un successo. Spero davvero di non offendere nessuno dicendo che una volta ero seduto con degli amici al tavolo di un ristorante di Reggio Emilia chiamato Le Terme Del Colesterolo esattamente quando partì Rumore da una macchina parcheggiata lì vicino. E in quel momento, ebbro di cibo e vita, ripensando al video della Carrà, realizzai che stavo vivendo uno dei momenti di porca felicità più alti della mia esistenza.

Ma ce n’è uno in particolare, facilmente rintracciabile come Rumore Chile 1980, che è oltre l’immaginabile. La Carrà indossa una tuta nera che parte con tacchi e finisce in top leggermente brillantinato e ha il miglior caschetto di tutta la sua carriera, più spettinato del solito, perfetto a inquadrare una faccia dove tutto esprime senza nessuna possibilità di errore soltanto una cosa: sesso. Sul na-na-na iniziale rotea già la testa senza freno, ogni posa è da copertina, poi perde il controllo. Sul drumming poderoso va giù di schiena (scoperta, scultorea) come una campionessa di limbo rock, ancheggia, guarda dritta il centro della camera, a un certo punto rotea i gomiti alla Ian Curtis, poi è in ginocchio come Hendrix quando dà fuoco alla sua chitarra, quindi poco prima dei tre minuti e mezzo inventa il pilates punk con una serie di movimenti improvvisi. Dà tutto, senza risparmiarsi. In qualità di maschio etero vorresti inchiodarla al soffitto come un pipistrello. In qualità di maschio omosessuale sogneresti soltanto di essere Lei. Per questa seconda aspirazione mi baso sulla notoria caratura di icona gay della Carrà, ma soprattutto su quanto mi confessò uno che, verso la metà degli anni 90, aveva un banchetto alla Fiera del Disco di Novegro. Vendeva solo dischi e memorabilia di “Raffa”, tra cui un best of di tutte le pagine a lei dedicate da “Sorrisi E Canzoni TV” e una videocassetta dove aveva raccolto personalmente tutte le apparizioni della Carrà nelle televisioni mondiali, dalle emittenti locali guatemalteche al David Letterman Show (di quest’ultima siamo certi, sull’altra non ho prove concrete). Mi disse che c’erano almeno otto video di Rumore e, se non avessi speso i miei ultimi risparmi per un bootleg dei Dream Syndicate, probabilmente l’avrei comprata sul serio. Ovviamente avevo già Rumore in 45 giri. Una copia con Raffaella in copertina che indossa un passamontagna rosso da Super G/ rapina/manifestazione extraparlamentare e mascara spinto e un’altra (la mia preferita) dove indossa abbigliamento da motociclista glamour con tanto di casco, completamente incorniciata da pelli di zebra, orsi e leopardi (Alice Cooper sucks). Rumore esce nel 1974 grazie alle musiche del compositore Guido Maria Ferilli, già autore due anni prima della notevolissima Il Bosco No di Adriano Pappalardo (il protagonista, nel testo di Mogol, ripudia il proprio mestiere di boscaiolo perché gli risulta impossibile segare gli alberi del bosco dove aveva amoreggiato…). Testo di Andrea Lo Vecchio, che aveva già firmato Luci A San Siro di Vecchioni (ed è tristemente scomparso a febbraio di quest’anno per Covid) e arrangiamento di Shel Shapiro (sì, il frontman dei Rokes). Il grandissimo Alfredo Cerruti (produttore, cantante e membro degli Squallor) intuisce subito che il pezzo sarebbe perfetto per la Carrà, quindi contatta Gianni Boncompagni, all’epoca compagno di Raffaella, e il resto è na-na-na.

Le liriche parlano di una donna che forse si pente della sua indipendenza conquistata, che la notte non si sente sicura. Controfemminismo? Basta vedere la Carrà cantarla per non preoccuparsi. Erano gli anni 70, Drupi si faceva fare il caffè dalla sua donna mentre stava a letto, Mogol metteva in bocca a Battisti donna tu sei mia e quando dico mia dico che non vai più via è meglio che rimani qui a far l’amore insieme a me: altri tempi. Ma Raffaella Carrà, quando batte i suoi tacchi al ritmo di questa proto disco music, è libera, erotica e padrona. Reitera quel rumore rumore inorgogliendo il nostro nome e agitando memorie Funhouse e anticipi Amphetamine Reptile. Sventoliamo il nostro vessillo mentre lei ha sullo sfondo ballerini sudamericani con baffi da cangaceiros, villosi macho gay borchiati Village People style, un corpo di ballo sterminato in tutina rosa con bordini argentati. Può permettersi e merita di tutto. È una dea pop. Quindi, prima di parlare male del nome della rivista che avete in mano, e della selvaggia canzone di cui porta lo stesso emblema, pensateci bene. Forse siete uno che non capise niente e magari potreste commettere un errore madornale, pentirvene, agitarvi. Cuore, batticuore. Ma soprattutto na-na. E na-na-na.

https://www.youtube.com/watch?v=V6oryEBGU2I