Intervista a Orlando Weeks (ex-The Maccabees): “Non ho la verità in tasca, i miei testi sono la storia di qualcuno che non ha le risposte.”

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di Luca Doldi

Era il 2 luglio 2017, i Maccabees salutavano per l’ultima volta i loro fan dal palco dell’Alexandra Palace di Londra (tre date consecutive andate sold-out in un attimo) e non c’era alcuno spiraglio per immaginare un ripensamento: così è stato. Una brillante carriera lunga dieci anni, arrivata al capolinea non per il corrodersi dei rapporti interpersonali, che rimangono ottimi ancora oggi, ma per il progressivo complicarsi delle dinamiche di scrittura all’interno della band. Da quel momento in poi membri della band si sono dedicati alla propria carriera, chi come produttore, chi in altri campi, chi come Orlando Weeks, proseguendo una carriera solista molto particolare.

Una band dal destino un po’ beffardo, che, nonostante la grande qualità della musica prodotta, non è mai riuscita a sfondare fuori dai confini nazionali come avrebbe meritato . L’unica colpa dei The Maccabees è stata probabilmente arrivare con qualche anno di ritardo sull’esplosione dell’onda lanciata da Strokes, Franz Ferdinand e altri.

Questo però non gli ha impedito di togliersi delle soddisfazioni, soprattutto con il loro penultimo album Given To The Wild: nominato album dell’anno al Mercury Prize, vincitore dell’NME Award come disco dell’anno e Pelican, primo singolo del disco, premiata come miglior canzone contemporanea agli Ivor Novello.

Orlando Weeks non è mai stato un frontman travolgente, la sua presenza sul palco è sempre stata pacata, gentile e rispettosa, concentrato a dare il meglio dal punto di vista della performance più che dell’intrattenimento. Con il senno di poi, questo suo aspetto diceva già molto sulla sua concretezza e sul suo modo di essere artista e musicista.

Infatti non ha tardato molto a dare il via ad un suo percorso: già tre mesi dopo quegli ultimi concerti con la band, usciva il suo primo lavoro. Non un disco come tutti si sarebbero aspettati, ma bensì una “favola” di Natale. Un libro illustrato, disegnato con le sue mani, accompagnato da un’audiolibro narrato dalla voce di Paul Whitehouse (attore e doppiatore dalla voce inconfondibile) e musiche composte da Weeks.

Facile immaginarsi una velleità da artista, possibile solo grazie al suo essere un personaggio conosciuto, invece The Gritterman (questo il titolo del libro) è una rivelazione e un lavoro di grande impatto, tanto da meritarsi il titolo di libro dell’anno per il Financial Times. Senza tralasciare poi la componente musicale, che ci mostra un’aspetto totalmente inedito del cantante dei Maccabees, perfettamente fotografato da Seasonal Hero: una ballata con un testo commovente e uno dei migliori pezzi della sua carriera musicale.

Il 2020 invece è l’anno del vero debutto discografico, con un disco importante, coraggioso e attuale. A Quickening, in uscita il 12 giugno, è un lavoro che ci pone di fronte ad un artista di grande qualità e di grande impatto emozionale, dedicato in gran parte al figlio nato da poco. Più vicino al cantautorato, e in alcuni tratti all’elettronica, che all’indie rock. Con sonorità che ricordano Thom Yorke, Sufjan Stevens e Bon Iver (lo trovate recensito sul numero di giugno di Rumore).

Qualche settimana fa, mentre si apriva il primo spiraglio sul lock-down, l’ho raggiunto via Skype nella sua abitazione per parlare un po’ del disco e del percorso che l’ha portato fin qui.

Come un po’ tutti noi in Europa sei anche tu chiuso in casa, come stai vivendo questo periodo? 

“Molti alti e bassi, siamo tutti in una situazione simile che comporta molte cose dal punto di vista emozionale. Passi dal sentirti bene e riflettere su quanto tu sia fortunato ad avere quello che hai, a saltare senza motivo da un estremo all’altro e sentirti nervoso e teso. Spero che le cose vadano per il meglio e mi fa piacere che in Italia stiate uscendo da questa situazione”.

A Quickening inizia a fare i suoi primi passi proprio in questi giorni, personalmente l’ho molto apprezzato ma soprattutto mi ha stupito. Spesso i dischi solisti sembrano un disco della band senza la band, invece il tuo è completamente diverso, come se avessi lavorato per anni al tuo suono parallelamente ai The Maccabees, come lo hai costruito?

“Quando lavoravo insieme ai Maccabees il mio approccio alla scrittura dei pezzi era sempre quello di provare a dare a tutti una sorta di demo che suonasse bene per me, sapendo che la natura della band avrebbe portato a smantellare e a riarrangiare completamente quella demo nella forma che più le si addicesse. Ma allo stesso tempo imparavo anche dagli altri, dal loro metodo di scrittura e dal loro modo di suonare, capivo come sentirmi a mio agio e dove la mia voce potesse sentirsi a suo agio in quello che facevano. Questo però non significa che andasse sempre tutto bene per me, come cantante e come autore, come spesso accade quando sei in una band devi fare qualche compromesso. Chi ha ascoltato quelle demo e il mio disco trova che non siano poi così lontani”.

È cambiato il tuo approccio?

“Il mio approccio ora è molto diverso. Una persona che stimo molto, tanto tempo fa mi disse che lui ama i dischi perché sono come spettacoli teatrali, in cui ci sono vari attori e ognuno ha la sua parte, il disco è un palcoscenico dove va in scena la rappresentazione. Se metti troppi attori sul palco perdi le loro caratterizzazioni, diventa tutto confuso e troppo dispersivo. Il modo in cui mi sono approcciato a questo disco parte proprio da questa considerazione, limitare gli elementi e tirare fuori tutto da uno o due ‘contenitori’ al massimo, come una sfida, e credo sia interessante anche dal punto di vista dell’ascoltatore ascoltare un lavoro fatto con questa filosofia. Così ho provato a trovare il mio suono. Se ascolti i pezzi ci sono i fiati, tromba e trombone, che ho suonato con lunghe note per creare una sorta di droni, a questi ho aggiunto il Korg Minilog, basso e batteria o percussioni e il piano, una sorta di regista/attore, sul quale ho scritto praticamente tutti i pezzi. Infine ho messo al centro la mia voce, come protagonista. Questi sono gli attori principali, poi ci sono altri strumenti che ho usato come dei “cameo” per arricchire il suono. Lo spettacolo è formato da tutti questi attori, la parte più complicata e interessante è stata capire come potessero convivere sul palco e le sensazioni che avrebbero trasmesso una volta aperto il sipario”.

Riguardo al protagonista del tuo “spettacolo”, la sensazione che ho avuto ascoltando il tuo disco è che tu volessi più spazio per la voce. Ti sei costruito una sorta di bolla, dove poter esprimere le sue potenzialità senza paura di metterti in gioco.

“Esatto, volevo essere più coraggioso, volevo mettere alla prova il mio range vocale ed arrivare ad un livello superiore, non so se ci sono riuscito (ride, ndr), ma questo era il mio scopo”.

Questo tuo cercare il limite si sente particolarmente in Moon’s Opera. Ti spingi davvero in territori che forse non avevi mai fatto sentire prima, con una linea vocale molto particolare, fra il soul e il jazz, è un tipo di musica che ascolti o che ti ha ispirato per fare questo?

“Devo dire che ho ascoltato parecchio Nina Simone, e amo particolarmente il suo modo di cantare, soprattutto live, dove lei in un certo senso si disconnette dal tessuto musicale, per poi tornare ad abbracciarlo con estrema facilità. Anche altri cantanti come Arthur Russel o Robert Wyatt osano linee rischiose che si elevano sulla musica per poi tornare in picchiata in mezzo ad essa. Quella “riconciliazione” da soddisfazione, trovare il momento esatto in cui tornare “dentro” alla musica è come una sorta di premio per l’ascoltatore. Io ho cercato di fare questo con Moon’s Opera e l’influenza di questi tre nomi che ho fatto è stata sicuramente determinante”.

Ho trovato una vaga similitudine anche con una artista più recente, Moses Sumney, anche lui come te usa molto il falsetto e come dicevi prima usa spesso linee vocali che si allontanano dal tessuto sonoro.

“Non ho ancora avuto modo di ascoltare, ma lo farò certamente, invece un altro nome recente che mi viene in mente è Bon Iver, nel suo ultimo disco usa molto questo modo di cantare”.

Parlando invece della parte musicale del tuo disco, ti abbiamo sempre visto con una chitarra in mano, nei live e nei video, e nell’immaginario collettivo dei fan dei Maccabees sei sempre stato un cantante/chitarrista. Qui invece le chitarre sembrano sparire, come se tu le abbia volute nascondere. È anche un modo per tagliare col passato o solo una scelta di stile o gusto personale?

“Penso che non ci sia stata l’intenzione di allontanarmi dal sound dei Maccabees, almeno non consciamente. Da almeno un anno amo molto sedermi al pianoforte e penso di suonarlo un po’ meglio della chitarra. Inoltre mi da migliori sensazioni, lo sento più congeniale al mio modo di scrivere e suonare, cambia anche il modo in cui scrivo, mi fa sentire bene. È uno strumento “acustico”, semplicemente ti siedi e inizi a suonare senza aver bisogno di altro. Anche solo usando il pedale di espressione, puoi costruirci un pezzo completo di tutto, se sai usare bene lo strumento. Più che altro quello che ho cercato di evitare è di usare il piano come strumento ritmico, cosa che invece facevamo con la band. Ci sono solo un paio di pezzi, dove ho lasciato che il piano fosse il “motore” della canzone, come in Summer Clothes, ma per il resto l’ho usato principalmente per costruire la melodia e ‘sorreggere’ la voce”.

Anche in The Gritterman hai scritto principalmente al pianoforte.

“Sì The Gritterman è stato senza dubbio la mia “prima volta” in cui ho cercato quella confidenza con il pianoforte. Ho cercato, senza riuscirci,  anche di rendere omaggio ad alcuni miei miti classici americani, come Randy Newman, o Harry Nilsson. Ho cercato un po’ quell’intenzione, pochi bassi, una mano molto leggera, scomponendo quell’atmosfera a modo mio. Il piano prende sempre molto spazio comunque, se componi tutto lì sopra rimane poco spazio per gli altri strumenti”.

Entrando un attimo più nello specifico di quel lavoro, quella esperienza in qualche modo ti ha mostrato un modo nuovo di essere un artista e di pensare alla musica, che poi in qualche modo ti ha portato a costruire la tua identità con A Quickening?

“Per me è stato un’ottima soluzione provvisoria, mi sono focalizzato su qualcosa di molto specifico che poteva essere vissuto come un progetto isolato da qualsiasi altra cosa e non mi ha fatto pensare a cosa avrei voluto fare dopo. È stato molto confortante per me lavorarci, perché in quel momento, come dicevo prima mi stavo innamorando del pianoforte. Vivevo a Berlino, completamente immerso in me stesso. Io e la mia partner siamo stati lì per tutto quel periodo, ed è stato appagante, ho apprezzato ogni aspetto di quel di quel progetto, suonare, disegnare, sedersi in riva al fiume e scrivere la storia, una cosa completamente diversa dallo stare in una band. Molto diversa anche dallo scrivere un disco con i Maccabees, che mi dava un po’ una sensazione di claustrofobia a volte, anche solo per il fatto di avere cinque persone molto coinvolte a lavorare sullo stesso progetto. Per questo è stato molto utile per separare la mia mente da ciò che ero come artista e da quello che ho fatto in precedenza”.

Dopo The Gritterman quando hai iniziato a scrivere le canzoni per A Quickening?

“Verso la fine del 2017 e inizio 2018 ho iniziato il processo di scrittura, nello stesso periodo io e la mia compagna abbiamo saputo che avremmo avuto un bambino. Non volevo scrivere esplicitamente su quel tema, ma sono stato naturalmente portato a farlo, sentivo che avevo tanto da dire e una gran voglia di fare”.

Riguardo al tema della paternità, non so se ami lo sport e la Formula 1 ma poco importa, sicuramente conosci Enzo Ferrari: lui diceva che un pilota perde un secondo ogni figlio che fa, per un artista invece cosa comporta?

“Ne so poco di Formula 1 ma lui era sicuramente un uomo saggio (ride, ndr). Come artista devi adattarti ai suoi tempi, innanzi tutto mi sono ritrovato a dormire pochissimo; all’inizio ho cercato comunque di essere molto produttivo, di sfruttare a pieno il tempo che mi restava e un paio di volte sono arrivato veramente allo stremo. Per questo ho imparato che non devo pretendere da me stesso lo stesso livello di dedizione che avevo prima, ho imparato ad essere più efficiente e a usare il tempo in modo più intelligente”.

Le canzoni di A Quickening sono molto delicate, morbide, sembrano proprio una ninna nanna per tuo figlio. Questa atmosfera è data dal fatto che avevi lui in casa mentre componevi e registravi, oppure è un’intenzione che è nata già prima del suo arrivo?

“Quasi tutte le canzoni, tranne Milk Breath, sono state scritte dopo che mio figlio è nato, ma ho iniziato a pensarle quando la mia compagna era incinta e vivere con lei quel periodo ne ha determinato un po’ l’atmosfera. Quando è nato poi, ho lavorato alle canzoni sul pianoforte mentre lui dormiva nella stanza di fianco, cercando di non svegliarlo. Quindi sì, certamente quello ha inciso fortemente sul suono delle canzoni e il modo in cui le ho arrangiate.
Lui comunque devo dire che apprezza la musica, quando era appena nato, ho passato molto tempo a suonare con lui che dormiva sulle mie gambe.
C’è un passaggio molto bello della biografia di Barbara Hepworth, famosa scultrice, in cui racconta che quando suo figlio era appena nato, averlo nel suo lettino di fianco a lei o su un tappeto ai suoi piedi mentre scolpiva i suoi blocchi di pietra ha rafforzato e portato un’evoluzione nella sua scultura. Ho sempre amato quel passaggio e quel tipo di romanticismo, l’idea della presenza di tuo figlio e la sua influenza nel momento in cui crei qualcosa di importante”.

Per la produzione e il mixaggio ti sei affidato a Nic Nell, tuo amico e collaboratore da molto tempo, con il quale hai fatto anche un ep sotto il nome di Young Colossus.

“Sì io e Nic siamo amici dai tempi della scuola, da sempre facciamo musica insieme. Lui viene da un background musicale completamente diverso dal mio e penso sia più brillante di me, ha un cervello più “matematico”, molto tecnico, infatti ha anche un progetto chiamato Casually Here, con il quale fa elettronica. Ma nonostante questo diverso background quando parliamo di musica parliamo la stessa lingua e ci capiamo subito. Inoltre Nic ama lasciare che il disco si crei in studio, non pianifica tutto, permette che piccoli imprevisti o errori diano una nuova forma e migliorino quello che si sta facendo. Non è uno che pretende una take perfetta di voce, gli interessa quella che ha il miglior feeling. È esattamente quello che cercavo per questo disco, una maggiore libertà per avere la giusta atmosfera”. 

Devo dire che si sente questo approccio e penso che un lavoro intimo come A Quickening fosse difficile da lasciare in mani estranee, magari di qualche grande produttore.

“È vero, infatti non solo la produzione è stata lasciata in mani “amiche”: gran parte delle foto sono state fatte dalla mia ragazza, il progetto grafico è di uno dei miei migliori amici, anche l’ufficio stampa con cui ho lavorato in UK è di un mio amico, tutte le persone coinvolte in questo disco sono molto vicine a me. Con la casa discografica e il management mi trovavo spesso a dovergli ricordare che non stavano trattando con grafici, produttori ecc, non era solo un rapporto di lavoro, ma stavano trattando con alcuni dei miei migliori amici. Hanno rispettato le mie decisioni e hanno capito quanto fosse importante per me avere questo nucleo di lavoro così ristretto. Gli va dato atto anche di aver avuto così tanta fiducia in Nic e me per la produzione del disco”.

Nic ha partecipato anche alla scrittura?

“Sì, è inserito anche nei credits del disco, diciamo che i pezzi sono stati composti da me, ma poi lui mi ha aiutato a concretizzarli.”

Invece parlando dei testi, sembra quasi che tu abbia vissuto in lockdown per oltre un anno osservando le piccole cose intorno a te e costruendo piccoli mondi partendo da queste.

“In questo lavoro mi vedo come un testimone, come un attento osservatore. C’è una grande zona grigia quando aspetti l’arrivo di un figlio: ti arrivano consigli da ogni parte, spesso contraddittori. Ogni sito che leggi ti dice l’opposto di quello che avevi consultato un minuto prima e devi trovare la tua via, il tuo modo. L’unica cosa che non volevo fare era scrivere dei testi che parlassero di una verità universale perché non ho idea di dove sia, sono solo una persona che sta scegliendo la sua. Il modo in cui scrivo è così: cerco di guardare il mio, la felicità di vivere un’esperienza come quella giorno per giorno, senza sovrastrutture e senza pontificare dall’alto.
Non ho la verità in tasca, i miei testi sono la storia di qualcuno che non ha le risposte”.

Un’ultima domanda, ho visto qualche foto del tuo ultimo concerto di presentazione a Londra, vorrei chiederti com’è stato suonare per la prima volta i tuoi pezzi nuovi davanti a un pubblico che non li conosceva e che non sapeva nulla della tua carriera da solista, visto che è appena iniziata?

“È stata certamente un’esperienza che non ho mai fatto prima. The Gritterman mi ha dato una lezione importante su quanto devi essere preparato per affrontare con un tuo lavoro, fatto e pensato interamente da te, un teatro con migliaia di persone. Devi fare tantissime prove per far sì che sia completo, che tu sia sicuro di te stesso e che sia un piacere farlo, altrimenti sarebbe un disastro. Abbiamo voluto creare un suono diverso dal disco, ci siamo concentrati sulla resa del live invece di pensare a riprodurre fedelmente quello che è stato registrato. La parte più facile è stata decidere quali strumenti usare. Sapevo che avevo bisogno di fiati, batteria, tastiere ma non di un basso. Volevo che il talento dei musicisti venisse fuori, che si esprimessero al massimo del loro potenziale. Stando per anni in una band dove il talento e l’estro veniva un po’ sacrificato per essere fedeli alla versione registrata, volevo che questa volta fosse completamente diverso”.

E la band ti ha seguito a meraviglia…

“Sami (El-Enany) è un bravissimo tastierista e quindi abbiamo splittato il suono della tastiera per far uscire le note basse in modo indipendente, così da poterle amplificare. Wilf (Petherbridge) ama molto fare stratificazioni di tromba in loop, come piace anche a me, e ho voluto che il suo gusto e la suo stile venisse fuori. Luca (Caruso) è un batterista delicato con un’attitudine jazz ma che ama anche pestare sui tamburi quindi ho lasciato che guidasse l’intensità dei pezzi. Mi sono lasciato trasportare nella creazione di quel suono ed è stata un’esperienza fantastica”.

Probabilmente c’era anche meno ego sul palco rispetto ai Maccabees.

“Sicuramente, ma anche meno rumore, un suono più compatto, più gestibile”.

Adesso è un periodo un po’ strano per parlare di live, hai in programma qualche live streaming o qualcosa del genere?

“Ho speso talmente tanto tempo per creare questo disco, per far sì che tutto fosse al posto giusto che non ho voluto pensare ad altro. Gli farei un torto se facessi circolare in rete ora, prima dell’uscita, versioni diverse dei pezzi rispetto a come li ho registrati, quindi non ci ho pensato molto. Sicuramente faremo qualcosa, probabilmente noi 4 in una stanza a suonare, o in qualche altro modo, ma solo quando il disco sarà fuori. Ora sono molto concentrato sulla realizzazione del video di Milk Breath e inoltre sto facendo un altro libro illustrato ispirato alla canzone Moon’s Opera”. 

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