Editoriale 337: L’età di mezzo

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Di Rossano Lo Mele

La freschezza degli esordi. Quel soffio che alita sugli artisti una volta sola nella vita. E mai più. Oppure la saggezza della fine, i venerati maestri, l’imperiosità di una carriera che volge con flemma verso il capolinea. Magari tutti ti hanno dimenticato fino all’altro ieri, ma poi arriva una serie come gli American Recordings e Johnny Cash torna a regnare. In mezzo però. Cosa capita nel mezzo? Nelle giornate infinite che diventano settimane, poi mesi, infine anni, spazi da colmare in una carriera quando sei risaputo per i più, ignorato e lontano nel tempo per gli altri, ma non ancora vecchio abbastanza per la targa di maestro. Alan Light è stato un grande giornalista per “Rolling Stone”, versione americana. Ha raggiunto anche lui l’età di mezzo, 54 anni. E qualche mese fa ha firmato per il mensile britannico “Mojo” un delicato ritratto di Leonard Cohen. Colto proprio nella sua età di mezzo.

Light scrive del Cohen di metà carriera. Non il romanziere degli esordi, non quello dei primi magici album dei tardi anni 60. Al contrario accende l’abat jour sul periodo più oscuro dell’artista canadese. Quello che dalla fine dei ’70 sfocia nei pieni ‘80. Leonard pubblica nel ’79 Recent Songs. Trascorre il suo tempo meditando tra due monasteri zen, Los Angeles e Marsiglia. In quegli anni, con l’esplosione del punk, interrogato sulla materia, Bono Vox degli U2 avrebbe spiegato che “ascoltare Leonard Cohen sembrava un atto da fuorilegge”. Reduce da un disco non così redditizio, Cohen si mette al lavoro a New York al principio degli ’80 con il produttore John Lissauer. Quest’ultimo crede così tanto nel progetto da presentarsi alla CBS dicendo che “questo disco sarà importante, un album di rottura”. A quel punto Cohen ha 50 anni esatti. Reduce dai trionfi blasé del decennio precedente, ma elegantemente fuori moda. Il presidente della CBS, Walter Yernikoff, è fresco del successo di Thriller, uscito due anni prima. Avendo alle spalle le vendite sviluppate dal classico di Michael Jackson, Yernikoff ha più di un dubbio. Prende così in odio il disco, decidendo di non supportarlo negli Stati Uniti. La frase chiave fu: “Leonard, sappiamo tutti che sei un gigante, ma non sappiamo se hai ancora delle idee così buone”. Leonard prende e porta a casa. Nel periodo di maggiore boom economico mondiale per la discografia si trova a reagire così: “Talvolta il music business è ospitale, accoglie innovazione ed eccellenza, talvolta non lo è. Al momento non lo è per me: ora è stretto nella morsa del dollaro”. 

Ripetiamo: 1984. Leonard Cohen. Accolto in questo modo. L’album si chiama Various Positions. 35 date live e poi più niente. Leonard torna al lavoro per il successivo I’m Your Man, ma le sessioni di registrazione s’interrompono quattro volte. L’autore si definisce “soffocato dalle parole”. Revisioni continue di testi e nel 1988 il disco esce. Cohen compone con una tastiera Casio portatile, nel disco ci sono capolavori come First We Take Manhattan, ma le sue sensazioni rimangono negative. Interrogato risponde: “Questi sono i giorni finali. Questo è il buio, questa è l’alluvione. Mi ha sempre colpito il modesto interesse suscitato dai miei lavori”. Il Cohen di fine anni 80 afferma di avvertire uno strano feeling: “Tutti i miei fan dei primi dischi sono morti, quando suono noto un pubblico di gente che non era neanche nata quando cominciai”. La musica di mezza età, un Cohen ormai 55 enne. Destinato non a scomparire, ma all’oblio di chi non ha una voce. Salvato tuttavia a quel punto, sorpresa, proprio dai ragazzi cresciuti col post punk. Gente come Morrissey, R.E.M., Pixies, Nick Cave comincia a reinterpretare le sue canzoni, dando loro lustro. 

Tra fine anni 80 e primi ‘90 Leonard assiste dalla finestra di casa ai moti di rivolta di Los Angeles. Nel frattempo crolla il Muro di Berlino e piazza Tiananmen porta la Cina dentro la cronaca di contestazione. Complice il cinema (la colonna sonora di Natural Born Killers), The Future (inclusa nell’album omonimo) diventa una sorta d’inno generazionale al pessimismo. Poco prima la rilettura che John Cale dà della sua Hallelujah (presente nell’album dimenticato Various Positions) riporta il brano a nuova vita. Oggi questa è una delle canzoni più riprese di tutta la storia della musica pop: contra oltre 300 registrazioni, fra cui quella ormai celeberrima di Jeff Buckley. Ricordiamoci sempre di ricordare: prima di diventare un padre fondatore, c’è stato per tutti un periodo indeterminato e stretto tra due parentesi in cui il mondo, invece di girarti le spalle, non ti ha proprio più visto passare. C’è una grandezza resiliente, nella carriera a metà corsa, che solo l’attenzione e la memoria possono nominare. Il 3 e 4 marzo esce in diversi cinema Marianne & Leonard: Parole D’Amore. Il docufim dedicato al cantautore e alla sua donna/musa, quella di So Long, Marianne. Una storia degli anni 60, che arriva dopo la morte di Leonard. Sarà bellissimo, sicuro, ma mai duro e vero come l’età di mezzo.  

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