Intervista a Tom Fleming (One True Pairing): “non faccio musica per raccontare delle storie, voglio parlare di me e di te e sono arrabbiatissimo”

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Tom Fleming, seconda voce e pluristrumentista nel gruppo inglese degli ormai sciolti Wild Beasts ci parla del suo nuovo progetto One True Pairing pochi giorni prima della sua apparizione al TOdays Festival di Torino. Ci incontriamo in un ristorante londinese nella zona vicina alla stazione di King’s Cross, la stazione dove arrivano i treni Eurostar dal continente. Una zona abbandonata per decenni e assolutamente da evitare, come tutte le zone intorno alle stazioni alla fine del secolo scorso, trasformata nell’ultimo ventennio in un posto alla moda, ricco di ristoranti e cocktail bar. Ci incontriamo il giorno di Ferragosto in Italia, ma è semplicemente un altro giorno lavorativo come tanti a Londra. Iniziamo dall’inevitabile Brexit, forse l’argomento più discusso nel Regno Unito da tre anni a questa parte, passando per l’inevitabile fine dolorosa degli amatissimi Wild Beasts, uno shock al sistema dopo 10 anni di successo indiscusso soprattutto nel Regno Unito. E quindi per Tom Fleming un nuovo inizio e la strada solista con One True Pairing, l’omonimo disco di esordio in uscita con Domino. Tom è molto carico e sia sul disco che di persona dimostra di avere una grande rabbia in corpo e il risultato è un disco elettrizzante, l’intento è scioccare il sistema, la musica dominante e dare una voce alle tante realtà inascoltate, alle vite frustrate e sfruttate, presentandosi come una variazione di Bruce Springsteen vomitata dal nord dell’Inghilterra, una variazione molto inglese ed elettronica, con lo sguardo rivolto al futuro piuttosto che al passato. E quindi quando incontro Tom iniziamo subito da Brexit: in fondo Brexit è anche coincisa con la fine effettiva dei Wild Beasts. 

Non so se ti ricordi ma ci siamo incontrati già 3 anni fa durante la promozione del tuo ultimo album con i Wild Beast, Boy King.

“È verissimo, scusami, sembra passata un’eternità da quel momento”.

Sì, sembra effettivamente un’eternità, era nel luglio del 2016 se non ricordo male e quindi il risultato del referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea era ancora freschissimo. Era un periodo molto strano.

“Sì, effettivamente pensavamo che quello fosse un periodo strano invece a partire da quel momento è andata sempre peggio, pensavamo di aver toccato il fondo e invece abbiamo iniziato a scavare”.

Sembra che siamo passati dalla stranezza all’assurdità del tutto.

“Proprio così e non te ne accorgeresti nemmeno stando seduto ad un tavolino di un ristorante di Londra ma ho passato molto tempo in giro per il paese e tutto sembra in fase di decadenza mentre Boris Johnson (il nuovo primo ministro britannico) fa finta di niente, ma è tutto molto evidente”.

Effettivamente ho vissuto in questo paese per quasi vent’anni e il cambiamento è evidente e profondo. Sto seriamente considerando se voglio rimanere in un paese dove non mi sento la benvenuta.

“Sì ti capisco, ma io sono un cittadino britannico e mi sentirei un codardo ad abbandonare la nave anche se tutto è completamente sbagliato e la sinistra è irriconoscibile, ma trasferirmi a Berlino come stanno facendo tutti non mi sembra la cosa giusta”.

Ma non pensare che la situazione sia strana solo nel Regno Unito. Forse c’è bisogno di un cambiamento radicale perché la civiltà occidentale sembra aver raggiunto un punto di rottura e sta spingendo tutti oltre il limite e mi sembra che questo sia uno dei temi riflessi nella tua musica. Il tema della divisione sociale e delle classi nel Regno Unito è molto forte, molto più sentito rispetto agli altri paesi europei. È vero che con la tua musica ti sei riproposto di avvicinarti alle classi più umili, quelle che stanno soffrendo di più in questo periodo di incertezza?

“Grazie per aver colto questo tema. Per esempio siamo in questo posto meraviglioso, trasformato con la presenza di una scuola d’arte, ma l’arte è diventata questa entità rarefatta e elitaria e c’è questo senso dominante sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti con il concetto del sogno americano per cui un ragazzo come me che viene dalla classe operaia può avere successo e questa narrativa giustifica il senso di abbandono che circonda queste classi e se qualcuno riesce a rompere gli schemi e avere successo allora tutto il resto diventa accettabile. Anche se per quanto mi riguarda effettivamente nonostante il successo degli ultimi 10 anni tutto è ancora molto precario, devi continuare a lavorare duro. E penso che sia un tema di cui nessuno parla. Sono diffidente quando la società ci impone delle narrative e in questo momento ci sono dei temi dominanti riguardo la sessualità, il genere sessuale, la razza e questi temi riflettono chi li crea ma esclude le masse. Mentre con il mio disco io voglio coinvolgere chi ascolta io non faccio musica per raccontare delle storie, voglio parlare di me e di te e sono arrabbiatissimo”.

La tua rabbia è riflessa nel tuo disco e questo senso di esclusione è una sensazione palpabile quando ti guardi intorno e vedi le persone per strada, persone che ogni giorno si devono guadagnare da vivere e ti rendi conto che c’è molta depressione in giro, la gente non si sente rappresentata, le narrative dominanti non riflettono le loro difficoltà e non si riesce a vedere la luce alla fine del tunnel…

“Sì, effettivamente sono molto più interessato alle cosiddette persone normali piuttosto che alle persone eccezionali e questa città è piena di persone che creano le proprie narrative, arrivano qui e si trasformano e iniziano a pubblicizzare il fatto che sono diversi e non è una cosa che mi interessa, sono interessato agli aspetti della loro vita che non vogliono pubblicizzare, mi piacciono le cose banali, le cose che non puoi eliminare”.

Quel lato banale che è poi l’essenza di ognuno di noi mentre tutti fanno di tutto per apparire migliori, più sofisticati e letteralmente indossiamo una maschera per cercare di coprire il fatto che siamo umani e imperfetti fisicamente e moralmente.

“Mi chiedo se sia sempre stato così. Parlando con i miei genitori e di quando erano giovani, veniamo da un posto piccolo e la sensazione dominante era un senso di fatalità, nonostante la voglia di scappare, andarsene era praticamente impossibile. Non so, sono parte della generazione che è cresciuta con Tony Blair come primo ministro, ci hanno detto che potevamo avere tutto quello che volevamo, sono stato il primo nella mia famiglia ad andare all’università e ho avuto tutte queste opportunità, tutto sembrava possibile e poi invece quando mi sono laureato la realtà era molto diversa rispetto a quello che ci avevano promesso ma ovviamente adesso è ancora peggio, non ci sono più nemmeno le speranze che avevamo noi”.

Ma mi chiedo se il problema vero è che ci siamo intrappolati da soli perché abbiamo creduto che abbiamo bisogno di più, di possedere di più, di andare sempre più veloci per poter essere felici, mentre ci allontaniamo sempre di più dalla nostra natura.

“È per questo che il mio essere tra virgolette artista, odio definirmi un artista perché non mi sembra onesto, è un atto di protesta, è un modo per cercare di resettare il sistema, non sto cercando di sfruttare la scia, almeno spero di poter fare qualcosa con la mia musica ed è quello che intendo quando parlo di coinvolgere il pubblico. E tutto quello che ti chiedono di fare per pubblicizzare la tua musica, la pubblicità super-sofisticata, sono molto riluttante a fare quello che ci sarebbe da fare. Sto cercando il modo migliore perché non mi sembra che sia coerente con quello che sto cercando di fare. Mi sto presentando con un’immagine aggressiva, arrabbiata non sto dicendo che non voglio che la gente colga anche un barlume di speranza ma soprattutto non voglio presentarmi come un intrattenitore, non voglio creare un mezzo per evadere dalla realtà, voglio che la gente si ritrovi nelle mie canzoni.

Stai cercando di risvegliare una coscienza nelle persone perché siamo tutti anestetizzati in un modo o nell’altro?

“Tutti pensano di essere “woke”, consapevoli quando in realtà non lo sono, e siamo circondati da narrative che probabilmente aiutano alcune persone direttamente, ma non aiutano chi è in qualche maniera in una situazione peggiore”.

Non solo ma tutte queste narrative stanno polarizzando le varie categorie e ci stanno mettendo gli uni contro gli altri a tutti i livelli. In realtà l’esperienza umana è universale e traumatica per tutti e questo dovrebbe unirci non separarci.

“Assolutamente ben detto”.

Ma ritorniamo al tuo disco e partiamo con la copertina, c’è una tua foto molto intensa. Cosa volevi comunicare con questa immagine?

“Non amo essere fotografato ma per questo disco solista volevo una mia foto per dire, ecco questo sono io e non volevo creare un’immagine pulita, ritoccata, ho quasi 35 anni non mi faccio illusioni sulla bellezza, volevo che la foto riflettesse il mio suono, un po’ inquieto, vissuto. Ho detto alla fotografa che volevo dare l’idea di uno Springsteen proiettato nel futuro dopo aver vissuto in una casa popolare di Liverpool. E volevo che il mio sguardo fosse fisso sulla macchina fotografica per dare l’impressione che hey sto parlando proprio con te e il fatto che sono nel mare è stata un’idea così, perché no. Ma volevamo fare qualcosa di memorabile, il fatto che il design, il carattere delle parole e i colori che abbiamo scelto siano orribili, danno l’impressione che sia stato tutto improvvisato, sono molto felice del risultato”.

È sicuramente di sicuro effetto e poi c’è la posa che richiama l’Urlo di Edvard Munch, è un effetto voluto e intenzionale?

“Non c’è un richiamo intenzionale ma amo Munch e i suoi ritratti con gli occhi sempre più neri. C’è un museo a Bergen che sono andato a vedere. Non posso dire di aver pensato di fare una citazione intenzionale ma mi piace che hai pensato ad una connessione”.

Forse in maniera subconscia.

“Forse, ma sicuramente non volevo che fosse una copia di tutte queste presentazioni super ripulite fatte da ragazzini appena usciti dalle scuole d’arte che hanno imparato tutte le mosse giuste”.   

L’immagine che ci stai presentando mi sembra più reale rispetto alla maggioranza degli artisti mainstream che si concentrano sull’immagine ma producono della musica che non si può assolutamente ascoltare. E inoltre le tematiche che affronti sono piuttosto serie.

“Effettivamente c’è molto nel disco a proposito di quello che ho dovuto subire per gran parte della mia vita, quello che adesso chiamiamo mascolinità tossica, l’internalizzazione della rabbia e quanto questi atteggiamenti siano dannosi per i ragazzini che li subiscono. Con questo disco volevo documentare cosa è successo e cosa sta succedendo in continuazione. Ma ho esitato a parlare di questi argomenti perché significa esporsi e non appena ti esponi, sono tutti lì pronti a colpirti e qualunque cosa fai ovviamente adesso il feedback è immediato, è tutto lì nero su bianco sui social. Ma alla fine queste sono le mie opinioni, questo è il mio modo di affrontare le cose”.

E in ogni caso anche per chi non è una figura pubblica comunque se condividi una tua opinione in ogni caso c’è sempre qualcuno che ti attacca in maniera forte anche se immagino la pressione è moltiplicata per chi si trova come te in una posizione di rilievo. Ma parlami un po’ del tuo background. Tu vieni dal nord dell’Inghilterra, vero?

“Sì, da Kendal, nella regione dei laghi, tra Manchester e la Scozia. È un posto molto bello ma chiuso. In una città come Londra ci sono tante persone che arrivano e portano nuovo sangue, nuove idee, mentre in un posto piccolo manca il ricambio. Non voglio essere negativo rispetto ai posti piccoli ma purtroppo non è un posto dove posso vivere, non potrei fare quello che faccio nella mia città d’origine”.

È vero perché tutto storicamente è stato concentrato nelle capitali quindi era totalmente impossibile poter fisicamente registrare della musica ai margini dell’unione. Anche se adesso con le nuove tecnologie forse le cose stanno cambiando o è un discorso valido solo per la musica DIY?

“Sì e no perché il mondo musicale è molto pigro. Non si sposterebbero per andare a Brixton (20 minuti con la metropolitana dal centro di Londra) figuriamoci se dovessero viaggiare fino a Northampton per vedere com’è la scena musicale da quelle parti. Alla fine dei conti devi sempre venire a Londra se ti vuoi fare notare. Anche se hai la curiosità necessaria puoi trovare ispirazione nella banalità che ti circonda ovunque, puoi sempre trovare una nuova prospettiva al di fuori dell’influenza della narrativa dominante”.

È importante avere prospettive diverse, altrimenti ci ritroviamo davanti ad una produzione artistica, ripetitiva, clonata, gli artisti escono tutti dalle stesse scuole, frequentano gli stessi ambienti, si vestono nello stesso modo e quando si esce fuori dagli schemi, crolla l’interesse dell’industria discografica. Quindi vuoi dire la regione da cui vieni, i grandi spazi la natura hanno influenzato la tua musica in qualche modo?

“Ho sempre cercato di resistere all’influenza degli spazi aperti. Sono cresciuto ascoltando molta musica folk che secondo me è direttamente influenzata dalla natura ma non volevo fare un disco da solista che avesse quel senso di bellezza inerente alla natura, volevo fare un disco che riflettesse la mia condizione attuale, vivo in un appartamento minuscolo e rumoroso su una strada principale, e anche se posso apprezzare gli spazi aperti e l’isolamento della natura non era quello che mi interessava per questo disco, volevo comunicare piuttosto un senso di decadenza, un senso di claustrofobia”.

In questo senso il disco mi sembra piuttosto riuscito. Senti ti va di parlare del perché vi siete sciolti dopo dieci anni di successi come Wild Beasts? Cosa è successo?

“Sì, certo. In realtà ci è sembrato il momento più naturale per fermarci, avremmo potuto continuare ma sia Ben (chitarrista) che Chris (batterista) hanno dei bambini piccoli e Hayden e io volevamo fare qualcosa di diverso. Penso che tutto sia iniziato con Boy King. Quel disco ha polarizzato le opinioni, ha diviso i nostri fan e per noi è stato uno shock anche la freddezza della stampa dopo aver passato tutta la nostra carriera come i favoriti della critica. Praticamente ti fermi un attimo e pensi: ma cosa sta succedendo? A noi il disco sembrava perfetto, geniale e invece per la prima volta abbiamo dovuto affrontare il fatto che quello che abbiamo fatto non piaceva più. Adesso non mi importa più di piacere a tutti i costi, certo è una bella sensazione, ma non è quello che sto cercando di fare”.

È una storia che si ripete, dopo aver passato tanto tempo a creare un seguito, ai fan non piace il cambiamento. Ma effettivamente non siete più le stesse persone che avevano iniziato da ragazzini e il cambiamento è inevitabile. Forse il Regno Unito è ancora più conservatore in questo senso e quindi avverso al cambiamento.

“Sì e poi al contrario degli Stati Uniti dove ci sono molte scene, nel Regno Unito gira tutto intorno a Londra, intorno alle radio e la tua carriera può decollare o essere distrutta da un paio di giornalisti. Forse la situazione è migliorata un po’ adesso”.

Sì, facciamo l’errore di considerare gli Stati Uniti come un’unica entità mentre praticamente dovremmo paragonarlo all’Europa se diventasse una federazione di Stati.

“Esattamente, ricordo la prima volta che abbiamo fatto un tour degli Stati Uniti abbiamo guidato da New Orleans fino al New Hampshire e mi sono detto: assolutamente questo non è lo stesso posto, tutto è completamente diverso!”

Ritorniamo a te, dopo il successo dei Wild Beast, adesso che stai cercando di costruirti una carriera da solista, come sta andando, com’è iniziata l’avventura?

“Direi che sono ancora agli inizi anche se il responso sembra positivo. Ma sto iniziando con un nome che non è il mio, un nome che nessuno può riconoscere ed è stata una scelta ponderata per dare un taglio netto. E non volevo fare un disco di canzoni tristi scritte dal solito cantautore con la chitarra, volevo creare qualcosa di energetico, ritmico, trascinante e allo stesso tempo avevo voglia di ricominciare da zero per mantenere la mia sanità mentale”.

E vedo che sei rimasto con Domino, la stessa casa discografica con cui pubblicavate insieme ai Wild Beasts. Com’è stato il passaggio? So per aver parlato con altri artisti che lavorano con Domino che vi lasciano molta libertà creativa.

“Sì è proprio così, mi hanno lasciato un sacco di libertà. Ho mandato un demo a Laurence Bell (boss fondatore di Domino) e ero solo io con la chitarra e la voce urlata e lui mi ha risposto che era grande e mi ha chiesto se avevo altro materiale pronto e io ho risposto non ancora ma è nato tutto così da quel momento. Laurence mi ha dato fiducia, mi ha fatto capire che ce la potevo fare. E gli è piaciuto tutto quello che ho creato, le mie idee per le canzoni, per i testi, per il video, per il design, mi ha dato sempre il suo appoggio incondizionato”.

E per quanto riguarda la realizzazione del disco, hai suonato tutte le parti e hai creato l’arrangiamento da solo, vero?

“Quasi completamente. Il produttore Ben Hillier ha aggiunto la programmazione della parte ritmica ma altrimenti ho registrato tutto io le chitarre, il basso, i sintetizzatori modulari, anche parte della programmazione della parte ritmica. Volevo creare un disco la cui portata fosse ridotta, non volevo trucchi spettacolari, volevo che il ritmo dominasse la composizione con l’aggiunta di qualche chitarra distorta a rompere gli schemi e la voce molto aggressiva, provocatoria. Non volevo creare qualcosa di sofisticato, è troppo noioso”.

E come hai strutturato lo spettacolo dal vivo?

“Siamo in due io e il mio amico Josh Taylor-Moon ai sintetizzatori. È tutto molto semplice, ridotto all’osso, volevo fare qualcosa di simile ai Suicide, uno spettacolo di rock elettronico. Ma siamo agli inizi, certo passare dall’ultimo spettacolo con i Wild Beast davanti a 5000 persone all’Hammersmith Apollo al primo show come OTP a Sheffield davanti a 30 persone annoiate è tutta un’altra storia, ma sono pronto per passare da questa fase, mi serve, voglio dimostrare questa voglia, sono pronto per questo tipo di intensità”.

Mi hai ricordato che un paio di anni fa sono andata a vedere Grant Lee Phillips il cantante dei Grant Lee Buffalo un gruppo che negli anni 90 del secolo scorso ha avuto un enorme successo e lui era ritornato a suonare da solo con la sua chitarra acustica girando il paese in treno. Ci vuole passione e umiltà ma dopotutto il mondo dello spettacolo è molto volubile. Parlando di chitarra acustica, certo non fa parte dei tuoi strumenti preferiti?

“Effettivamente c’è solo un pezzo dove ho aggiunto la chitarra acustica nel disco e la seconda volta in assoluto, non è un suono che mi rappresenta. Volevo che il mio disco fosse più duro, elettrico. Le chitarre sul disco non sono particolarmente prominenti, sono accordi di base, alla Bruce Springsteen, è tutto incentrato sulla drum-machine e i sintetizzatori, volevo un disco elettronico, non amo la musica rock e gli strumenti tradizionali e usando la tecnologia sento di essere io a decidere, sto guidando io. E anche perché è un disco molto aggressivo e spigoloso anche se ci sono dei momenti più dolci per combattere la sensazione dominante di sgradevolezza”.

Ti posso chiedere come nascono le tue canzoni? Come funziona per te il processo creativo e cosa viene prima le parole, un suono, un verso?

“Malissimo! Non sono molto efficiente. Ma di solito inizio con il titolo, cerco di pensare ad almeno un centinaio di titoli e poi cerco di fare una cernita e di scegliere quello giusto e quindi passo per la creazione della sequenza degli accordi di base e di una sequenza di parole che mi soddisfino, verso per verso, da-dee-da-dee-da ok questo va bene, eccetera. E poi cerco di costruire le canzoni intorno a questa struttura di base, verso per verso e mi impongo di non avvicinarmi al computer prima di aver pensato la struttura degli accordi di base nella sua interezza, il computer offre troppe opzioni, faccio di tutto per completare prima una canzone prima di usare il computer che aggiunge tutti questi effetti magici. Ci si può perdere cercando di programmare una sequenza ritmica e a nessuno in realtà importa, voglio dire nessuno coglie tutte le sfumature della programmazione. È per questo che penso sia importante avere una canzone mia innanzitutto. E per il resto aspetto l’arrivo della musa, per così dire. Effettivamente può essere molto frustrante ma l’importante è cercare di riconoscere cosa può avere un valore musicale altrimenti rimani perso nelle possibilità e da questo punto di vista Ben Hillier è stato molto importante ad aiutarmi a capire cosa sviluppare e cosa abbandonare. So di essere un artista solista ma non posso fare completamente tutto da solo”.

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