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L’età matura della depressione: Disintegration dei Cure

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(The Cure – Disintegration, 1989 – Fiction)

Di Mauro Fenoglio

La faccia segnata dall’età che campeggia sulla copertina di Standing On The Beach, la raccolta uscita nel 1986, contenente i singoli prodotti dai Cure, nel primo decennio della loro esistenza, dice molto sulla paura d’invecchiare del leader Robert Smith. Sull’espressione, vagamente dimessa, del pescatore in pensione John Button, modello in bianco e nero per quell’immagine, sembrava già gravare tutto il peso degli anni, che avevano portato il cantante con il rossetto sbavato e il cuore nero, da Killing An Arab a Close To Me (testa e coda della scaletta dei singoli). I suoi vent’anni annunciati alla fine degli anni 70 con l’istantanea di Boys Don’t Cry, precipitati gradualmente in un buco nero di depressione, lenita da LSD e alcol e da improvvisi momenti di caleidoscopico pop. La trilogia dark, che parte da Seventeen Seconds del 1980 e arriva al baratro di Pornography due anni dopo, è il diario d’oscurità scritto per una generazione, che s’affaccia agli anni 80 senza rivoluzioni a portata di mano, declinando il no future ereditato dal punk in un abbraccio ai propri demoni privati. “Avevo due scelte: o suicidarmi o tirare fuori tutto con un album”, confessa Smith ai tempi di Pornography, solenne testamento della prima fulgida epoca dei Cure. Il baratro, sorvolato su rintocchi tribali di batteria funebre, basso pulsante e sciabolate di chitarre, tenendosi per mano agli inevitabili Camus e Baudelaire, con un esercito in nero pronto a buttarcisi dentro con lui, solo per marcare la propria differenza letteraria, da un mondo che scopre i primi vagiti del riflusso egoistico del decennio dell’edonismo. Smith sceglie di sopravviversi, opta per la vita e accetta (in qualche modo) di dover fare i conti col tempo che passa. L’epilessia felice di In Between Days (primo singolo di The Head On The Door, del 1985) il primo spartiacque.

Quell’ambizione pop che è sempre stata con Smith, fin da quando era uno dei tre ragazzi immaginari, a fine 70, in qualche modo sovrastata dal manto brumoso della trilogia dark, detta le nuove regole della sopravvivenza. È la seconda metà degli anni 80, baby. Un’intera comunità adolescente esilia espressioni emaciate, pizzo nero, clippers e cuore viola in enclavi sempre più isolate, dove ci si dimena illusi della propria eroica tristezza, su The Hanging Garden o Primary, ai margini di una gioventù ufficiale, che è invece pronta a sdoganare il rock passionale di U2 e Simple Minds. È la fine di un’era. Entrano definitivamente fiati e divertissement jazz. Il rossetto sbavato e il mascara si scoprono trucco teatrale e Smith arriva ad agghindarsi come un orsetto nel video di Why Can’t I Be You, dal monumentale Kiss Me Kiss Me Kiss Me del 1987. L’America scopre i Cure e s’illude di inscatolarli, nonostante Kiss Me sia uno degli album più complessi della storia della band. Intanto le truppe dark invecchiano, ripudiamo, guardano indietro per difendere la loro diversità, scoprono lateralità nuove per il futuro. Smith e i suoi, fra il 1985 e il 1987 sono una creatura di pop oscuro e lisergico, sofisticato ma giocoso. Pronti per il salto successivo. Per il tour tutto esaurito di Kiss Me, Smith assolda Roger O’Donnell come secondo tastierista. Il primo, l’amico d’infanzia Lol Tolhurst, è alle prese con seri problemi d’alcolismo ed è ormai ingestibile. “Era come un bimbo handicappato, da punzecchiare continuamente con un bastone” dice Smith. La decisione di non farla finita, presa ai tempi di Pornography, comporta anche la necessità di affrontare le difficoltà dei rapporti più intimi. Smith inizia ad interrogarsi su cosa significhi per lui, essere diventato una bizzarra pop star. La depressione è un’amica fedele, tenuta a bada in qualche modo dal successo, ma che torna a farsi sentire, soprattutto nei momenti di stanchezza (i Cure sono ormai una macchina da guerra per concerti). Il rifugio sono LSD (ancora) e l’isolamento insieme alla fidanzata di sempre Mary Poole. Smith torna a chiedersi cosa realmente voglia dalla sua band.

Ad aprile 1989 dovrebbe compiere trent’anni e si sente esattamente come il pescatore John Button sulla copertina di Standing On The Beach. L’epoca dello sturm und drang adolescente è ormai un ricordo, e varcare la soglia dell’età adulta lo atterrisce. Troppo tardi per rifugiarsi nell’eroico Club dei 27, insieme all’amato Hendrix e a Morrison, attendendo Cobain. Smith ha scelto l’orrore dei compromessi della vita già dal 1982, ma teme che il tempo utile per poter produrre qualcosa di definitivo stia inesorabilmente finendo. L’espressione dimessa di John Button lo perseguita come un fantasma. Persino gli odiati Smiths hanno rimediato sciogliendosi nel 1987, cosi da marchiare a fuoco la loro esistenza, nell’istante fulgido in cui l’adolescenza passa la mano alla normalità. Smith è rimasto solo, a dover trovare il modo di uscire vivo dagli anni ottanta, lasciando un testamento artistico definitivo. Inizia a scrivere in solitudine, forse materiale per un disco solista. Il tema: il suo terrore di compiere trent’anni e perdersi definitivamente fra le pieghe orribili del quotidiano. Altro che l’uscita eroica di Pornography. Alla fine, decide di far sentire i nuovi pezzi al gruppo. S’incontrano più volte a casa del batterista Boris Williams, danno i voti ai pezzi e alla fine dell’estate hanno le dodici canzoni dell’album. Disintegration prende forma ai Hook End Manor Studios nell’Oxfordshire alla fine del 1988. Tolhurst si aggira come un fantasma molesto durante le sessions. Gli verranno accreditati altri strumenti. In realtà non suonerà nulla. Smith cerca di glorificare il terrore da invecchiamento, provando ad immergere la band in un’atmosfera lugubre e depressa. “Volevo essere come un monaco per tutti. Era un po’ pretenzioso da parte mia, ma volevo un ambiente che fosse lievemente spiacevole”. L’idea è quella di lasciar perdere i giochi di The Head On The Door e Kiss Me…e ricreare i presupposti della trilogia dark, con la consapevolezza adulta del sopravvissuto. Un’impresa quasi titanica, da una prospettiva piantata in un mondo, che non è più quello di inizio decennio. Infatti O’Donnell ricorda: “Ridevamo e scherzavamo in sala controllo, mentre Robert cantava Disintegration, pronti a tornare improvvisamente seri, quando lui tornava da noi. Nonostante l’album sia molto dark e la gente pensi che eravamo seduti li a tagliarci i polsi, circondati da candele e catene penzolanti dai muri, l’atmosfera in studio non è mai stata seria”. Ed è forse questa la dicotomia che forma l’album, l’ultimo monumento dei Cure prima di diventare definitivamente storia. Nelle note di copertina delle prime copie dell’album, uscito a Maggio del 1989, si legge: “questo disco è stato mixato per essere suonato forte, quindi alzate il volume”. Le intenzioni di Smith non si limitano ai temi da trattare, ma sono essenzialmente concentrate sulla musica. Se il rigore monolitico di Pornography era stato definito come Phil Spector all’inferno, il muro sonoro costruito dalle cascate di sintetizzatori di O’Donnell e dalla massa ritmica del duo Gallup – Williams è la materializzazione del glorioso Wall Of Sound in ambito dark. Una virata a 360 gradi dalla psichedelia sgargiante e in punta di piedi di Kiss Me…. che quasi stordisce. Basti l’iniziale Plainsong per capire tutto.Un diluvio di sintetizzatori che piangono marziali, abbraccia le chitarre che muovono in delay e saturazione. Smith entra con la voce quasi trasfigurata per recitare “I’m So Cold”, solo dopo vari minuti d’introduzione orchestrale. E’ come se Kevin Shields provasse a guardarsi la punta delle scarpe due anni prima di Loveless. Come se tutto quello che conosciamo del dream pop provasse a muovere i primi passi sul crepuscolo degli anni 80, nella testa di un uomo terrorizzato dal diventare adulto. È la cifra di un disco, che si alimenta di introduzioni strumentali estese, per dipanare i testi immersi in una struttura quasi orchestrale che li avvolga.

Un muro, appunto, come voleva Smith, il sopravvissuto. Ma che il mondo sia cambiato da Pornography e che la depressione si cibi di quotidianità adulta, piuttosto che di eroismo nichilista, lo dicono i pezzi che si susseguono in leggendaria successione. L’abbandono alla memoria dell’immensa Pictures Of You prende ispirazione da foto dell’amata Mary Poole, che Smith ha perso in un incendio domestico. Quasi un trucco per tuffarsi nell’utero confortevole del ricordo, come difesa dalle ansie del futuro, circondato dai cascami celestiali del wah wah della sua chitarra e dall’infinito mare sintetico di O’Donnell. Serenità effimera di un’anima tormentata. Mary Poole, compagna di una vita, cantata nella lineare Lovesong, l’unico regalo di nozze che Smith potesse farle. Una canzone d’amore, per provare, ancora una volta, a fermare il tempo, questa volta fra le braccia della persona amata. Molti dei detrattori di Disintegration (per lo più alfieri dei rigori invernali della sacra trilogia dark) ne rifiutano le supposte semplificazioni, confondendo l’abile e compiuta sintesi pop di Smith con pose e ammiccamenti da star che si finge adolescente. Nel dolcetto o scherzetto di Lullaby, Smith (forte di un riuscitissimo video girato da Tim Pope ed ispirato ad Eraserhead di David Lynch) anticipa in un sol boccone tutta la deriva gotica americana del decennio successivo. Tim Burton e i suoi amabili incubi artigianali, partono tutti dal pigiama a striscie di Smith. La distanza marcata fra Pornography e Disintegration, è proprio la maturità pop raggiunta da Smith alla soglia dei trent’anni.

La capacità di sintetizzare, anche avvicinandosi alla caricatura, le pulsioni della depressione in un ambito vivibile. Ma il tesoro di Disintegration sta nell’aprire porte per quello che succederà. I bassi quasi parossistici della brillante Fascination Street (un  altro dolce incubo di Smith a spasso per Bourbon Street a New Orleans) sono la passerella che attende l’avvento coloratissimo dei Chromatics. Le brume di Prayers For Rain aprono alla neo psichedelia dark dei DIIV. È certamente l’America l’orizzonte di Smith, ma certificata da un laboratorio di idee e spunti per i tempi che verranno, di cui solo dopo l’uscita dell’album, si capirà appieno la portata. A Febbraio del 1989 Tolhurst viene definitamente allontanato, non prima di un alterco molto accesso durante le fasi di missaggio dell’album. I piatti che volano e si spaccano all’inizio di Disintegration, il pezzo più vicino all’abisso di Pornography, l’ultimo testamento di un’epoca che si chiude. Non prima di salutare Lol con l’unica canzone a cui ha veramente partecipato, quella Homesick che chiosa, quasi riflessiva, un decennio per aprirne un altro. Disintegration rimane la miglior testimonianza di come Smith ce l’abbia fatta, nonostante se stesso, ed è sicuramente una delle porte da aprire per uscire dagli anni 80 e buttarsi negli anni 90. Quel muro di suono, quella produzione sognante, quasi dronica, informerà (sicuramente inconsapevole) non solo lo shoegaze di inizio decennio, ma in qualche modo anche parte del post rock britannico (si pensi ai Mogwai). È il capolavoro dei Cure? Difficile da dire. E’ sicuramente un album che marca un’epoca, quella dell’abbandono della gioventù e di tutti gli eroismi che si porta dietro. E lo fa, senza rinnegare nulla. Citando un commento di Alessandro Baronciani (che anche sul mito di quel disco, ha strutturato il suo pregevolissimo progetto Tante Anna), per chi è stato di una certa generazione, di quella venuta dopo la sacra trilogia dark, Disintegration è forse il capitolo definitivo dei Cure.  E di quell’uomo che non voleva invecchiare, per non perdere la sua furia. Alla fine (come dice Brandon Lee, in The Crow, altro figlio illegittimo di Disintegration), “Non può piovere per sempre”.