Morte e rinascita nella cattedrale indie di Montréal: Funeral degli Arcade Fire

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(Arcade Fire – Funeral, 2004 – Merge)

Riconoscere immediatamente un suono o un gusto è un riflesso automatico e quotidiano. “Rumore”, in collaborazione con Jameson, vi porta a scoprire ciò che li rende riconoscibili.

di Fernando Rennis

Anni turbolenti quelli del 2004 e del 2005: nasceva Facebook, il terrorismo islamico colpiva Londra e Madrid, le banlieu parigine venivano messe a ferro e fuoco mentre New Orleans s’inginocchiava all’uragano Katrina. Anche musicalmente parlando si è trattato di un periodo inquieto; accanto ai nomi più blasonati come U2, Nick Cave, Madonna e Morrissey, tra i molti episodi discografici, si avvicendano quelli di Coldplay, Björk, Gorillaz, Oasis, Kanye West e gli esordi di Wolf Parade, M.I.A. e di un collettivo eclettico canadese riunitosi sotto il nome di Arcade Fire. Il loro Funeral diventa ben presto uno dei debutti più fragorosi degli ultimi vent’anni, tanto da favorire un assist sostanzioso all’inaspettata vittoria nel 2011 del Grammy per la categoria Album dell’anno con The Suburbs. I fratelli Butler, provenienti dal Texas, la polistrumentista di origine haitiana Régine Chassagne – l’outsider più atipica dell’ambiente indie dell’epoca -, Richard Reed Parry, Tim Kingsbury, Jeremy Gara e Sarah Neufeld si erano incontrati a Montréal, città che grazie a una serie di politiche solidali verso il fermento artistico (favorite da sale prove gratuite, costo della vita non esorbitante e un frenetico circuito di live e performance culturali) li aveva attirati e messi in condizione di crearsi un seguito degno di nota. Strappato quindi un contratto alla Merge Records, impressionata dalla potenza live della band, gli Arcade Fire si erano fatti le ossa con l’Ep Us Kid Now e ultimato in parallelo l’album d’esordio. Un disco che fu chiamato Funeral per la serie di lutti che avevano investito in pochi mesi molti membri del gruppo. Ad ogni modo, a dispetto del titolo, il sorprendente album d’esordio degli Arcade Fire è una cattedrale sontuosa che si staglia all’orizzonte, nelle sue navate riecheggiano echi di post punk e art pop, i suoi archi poggiano su pilastri d’indie folk e chamber pop, il suo è uno stile gotico e austero ma la luce che filtra dalle vetrate trasmette un calore sincero. Il collettivo canadese si presenta al mondo come un fascio di nervi che in studio, nonostante una produzione indie al limite della claustrofobia ben lontana dall’ariosità dei successivi dischi, sa intrecciare un suono sinfonico e corale con testi taglienti ed emotivi, mentre sul palco non risparmia nemmeno una goccia di sudore. Una miscela micidiale che conquista immediatamente padri putativi come David Byrne e David Bowie e, allo stesso tempo, convince l’influente Pitchfork, un acceleratore notevole per l’ascesa del gruppo. Funeral inizia e finisce immergendo l’ascoltatore nel suo suono barocco, un viatico che conduce ai temi principali del disco: “L’infanzia, la morte e la perdita, il passato”. Elementi, questi, che compaiono anche nell’efficace artwork del disco, curato da Tracy Maurice, in cui si può anche individuare “qualche immagine di riferimento dalla band, soprattutto vecchi certificati di nascita e morte”.

Un primo nucleo tematico è quello del vicinato, ben quattro brani hanno per titolo la parola Neighborhood: la prima (Tunnels) è sontuosa e ha l’onore e l’onere di aprire le danze, la seconda (Laika) parla di un ambiente familiare sinistro e mostra l’abilità di scrittura di Butler (“The police disco lights, now the neighbors can dance!”), il terzo (Power Out) è la punta di diamante del disco, oltre a rendere esplicita l’energia della performance vocale della coppia Butler – Chassagne, mentre il quarto (Kettles) mostra il lato più intimo e romantico della band. E poi c’è il folk caraibico di Haiti, l’onirica litania corale di Wake Up e la cavalcata visionaria di Rebellion (Lies); Funeral è uno di quei dischi sfocati, per certi versi acerbi, ma proprio per questo ancora più intriganti. Dietro una patina di energiche chitarre e grovigli di percussioni e potenti bassi, si nasconde sempre un’inquietudine pronta a risucchiare voracemente tutto e, soprattutto, un’imprevedibilità che è esaltata da repentini cambi di atmosfera, ritmo e vocalità. Probabilmente, però, quello che rende il debutto degli Arcade Fire ancor più incisivo è la dimensione collettiva che si percepisce lungo ogni brano e che dal vivo diventa tangibile dal continuo scambio polistrumentale messo in atto dai membri della band. Una tradizione, questa del collettivo, che in quegli anni era già prassi per alcuni gruppi indie come The Polyphonic Spree e Broken Social Scene, ma che gli Arcade Fire riescono a personalizzare attraverso musiche, testi e un immaginario che li porterà in breve tempo a squarciare il velo che separa l’underground dal mainstream. Funeral, che peraltro continua a invecchiare benissimo, getta le basi di questa favola moderna e il segreto della forza che sostiene la parabola degli Arcade Fire sta tutta in quel “With the lights out!” che squarcia Power Out a metà, raggela il sangue e centrifuga il nichilismo di Ian Curtis (Transmission) che si sprigiona nella sincerità infantile di John Lennon (Mind Games). Troppo? Ascoltare per credere!

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Redazione Rumore
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