L’importanza di comunicare: Yankee Hotel Foxtrot dei Wilco

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Up Wilco Lg
(Wilco – Yankee Hotel Foxtrot, 2002 – Nonesuch)

Riconoscere immediatamente un suono o un gusto è un riflesso automatico e quotidiano. “Rumore”, in collaborazione con Jameson, vi porta a scoprire ciò che li rende riconoscibili.

di Mauro Fenoglio

Alla fine della Prima Guerra Mondiale, misteriose stazioni radio ad onde corte iniziarono a trasmettere ai quattro angoli del globo. Passarono alla storia come Number Stations. Ad ogni ora del giorno si potevano ascoltare voci asettiche, recitare sequenze alfanumeriche e parole in codice, immerse in un mare infinito di rumore. Si dice che fossero trasmissioni organizzate dai vari governi dell’epoca, per far arrivare messaggi in codice, che poi le spie potevano decodificare. Nel 1998, Akin Fernandez, pubblicò più di 100 di quei messaggi cifrati in un box di quattro CD, per la sua Indial Records. Titolo The Conet Project. La quarta traccia della compilation s’intitola Phonetic Alphabet – Nato. Dietro la grana grossolana dei cigolii delle onde corte, si ascolta un probabile agente del Mossad (servizio segreto israeliano) ripetere in loop, freddo e quasi senza accento “ Yankee….Hotel…Foxtrot”. Quella traccia rimane per lungo tempo, nella playlist d’ascolto dell’auto di Jeff Tweedy, a cavallo del secolo. Il cantautore di Belleville (Illinois) aveva già completato la sua avventura con gli Uncle Tupelo quattro anni prima. Il gruppo di No Depression, messo su con l’amico di una vita Jay Farrar, per portare il country fuori dall’alveo vetusto della tradizione. Hank Williams insieme ai Minutemen, per mettere la parola alt in testa alla radice country. Tweedy aveva chiuso l’avventura UT, con la solita cornice di scazzi e amicizie tradite, per frasi non dette o gesti non compresi, come spesso accade fra persone, obbligate per lavoro a stare insieme per tanto, troppo tempo.

Le parole scandite dall’inumano agente del Mossad iniziano a girare nella testa di Tweedy, mentre lui è già al terzo disco pubblicato con il suo nuovo gruppo, i Wilco; e sta lavorando al secondo capitolo della collaborazione con Billy Bragg, Mermaid Avenue. Fino ad allora, il percorso dei Wilco è stato un progressivo allontanamento dalle formule oliate della precedente creatura di Tweedy, con risultati promettenti, ma non ancora superlativi. L’esordio AM un’incerta propaggine degli Uncle Tupelo, l’espanso Being There, un esperimento di concept fra Tom Petty e i Flying Burrito Brothers e Summerteeth un primo tentativo di sguardo pop evoluto, non ancora completamente a fuoco. “Non c’è nulla per me di più astratto dell’idea di nazione. Solitudini così lontane l’una dall’altra, che esistono in un mare di rumore bianco e informazione. E la cosa meravigliosa è che continuino a trasmettere, nella speranza che qualcuno li ascolti e si accorga di loro”. Jeff Tweedy racconta a Greg Kot del Chicago Tribune a proposito di The Conet Project. Ed è già il presagio dell’album che ha in mente. Che racconti l’ansia nel riuscire a comunicare, in qualche modo. Per chi, come lui, è cresciuto in una realtà americana, marchiata a fuoco dal vizio ineludibile, della difficoltà del rapportarsi agli altri. All’alba di un’epoca, che sdoganerà qualsiasi veicolo di comunicazione, con l’illusione di superarne i limiti, Tweedy dichiara la sua necessità di farsi decodificare attraverso musica e testi. “E il bello è, che nonostante tutto, le persone continuano a farlo. Trovando il loro significato nell’altro, nella loro relazione esclusiva. Anche se il modo in cui finiscono per comunicare, non era quello che avevano in mente all’inizio. Comunque qualsiasi tentativo, è meglio che arrendersi e non comunicare affatto”. Sembra quasi il riassunto di Yankee Hotel Foxtrot.



Il disco che doveva essere, e invece fu diverso. L’importante, alla fine, era tirarlo fuori. Comunicare, in qualche modo. Tweedy inizia a lavorarci a inizio 2000. Insieme al fido (e compianto – se ne andrà per overdose nel 2009) polistrumentista Jay Bennett, così importante a quel punto, che non solo registra i demo iniziali ma è co autore di otto degli 11 pezzi dell’album. Alcuni dei demo usciranno come bootleg non ufficiali, negli anni successivi, rivelando quella forte tensione a superare i vincoli della tradizione americana, di cui i Wilco fino a quel momento, sono stati  fra i campioni. Ora provano a misurarsi su terreni inesplorati. Il batterista originario, Ken Coomer prova con difficoltà, a muoversi sui poliritmi fuori sincrono che Tweedy gli chiede d’interpretare. I demo rivelano una band in mezzo al guado, fra pulsioni contemporanee e il tesoro delle radici da proteggere. Il documentario sulle prime sessions (I Am Trying To Break Your Heart: A Film About Wilco, del 2002) riporta le animate discussioni fra Coomer e Tweedy. (“Sono solo un fottuto batterista, vieni qui e vediamo se lo fai meglio!”, con bacchette inevitabilmente scagliate). Ma a Tweedy non serve un (pur dotato) batterista che impari tecnicamente nuovi, elaborati ritmi. L’importante è comunicare, in qualche modo. Bad Timing del geniale compositore contemporaneo Jim O’Rourke è uno degli altri voraci ascolti del leader dei Wilco. “La pazienza degli arrangiamenti m’intriga. L’idea che non sia importante il tempo che ci metti per andare da A a B, ma piuttosto assaporare ogni secondo del viaggio”. S’incontrano al Chicago Noise Pop Fest e l’autore di Eureka introduce a Tweedy il batterista sperimentale e amico Glenn Kotche. I tre s’incontrano nell’appartamento di O’Rourke, suonano e parlano del loro comune amore per il PIL di John Lydon. Creano le prime canzoni di quello che diventerà il primo disco de Loose Fur. Ma questa è un’altra storia. Kotche e O’Rourke sono il codice che serve a Tweedy, per decrittare i messaggi compressi, fra le intenzioni dei demo del nuovo album. Non gli rimane che licenziare il malcapitato Coomer (con un’inadeguata telefonata fatta da un terzo. L’importante è comunicare, in qualche modo) e rimettersi al lavoro. È il gennaio del 2001. Ma la saga del disco che doveva uscire, e non uscì quando doveva, che doveva essere, ma fu diverso, non finisce certo qui. La Reprise ascolta il prodotto, dopo il trattamento O’Rourke e lo giudica poco commerciale. Tweedy s’arrabbia, strappa il contratto, trova modo di allontanare anche Jay Bennett a fine sessione, e mette l’album in rete sul sito della band. Il disco vedrà la luce solo nella primavera del 2002, per la subentrante Nonesuch. “Ho tirato via l’80 per cento del rumore che c’era nel disco, che è il contrario di quanto la gente si aspettava da me” confesserà O’Rourke. Con un approccio discreto ma profondo, lancia il tesoro ancestrale delle radici country, nello spazio del ventunesimo secolo. L’album rappresenterà un oggetto irrisolto per molti fan. Freddo, asettico e celebrale, lontano dal calore legnoso e ardente degli esordi. Alcuni addirittura, preferiranno i demo. Altri lo identificheranno come il Kid A dei Radiohead applicato al rock americano, o il Gaucho degli Steely Dan applicato al cuore dell’America rurale,  per la sua capacità di fotografare un momento evolutivo fondamentale. Per capirne l’essenza, basta addentrarsi fra i passaggi labirintici dell’iniziale I Am Tyring To Break Your Heart.

La batteria di Kotche rulla come ai nastri di una partenza qualsiasi, fra cascate di campanelli e rumori, quasi dovesse trovare il passo giusto. Un piano punteggiante e sparso, quasi improvvisando, si unisce a lei, fuori sincrono. Siamo proiettati in una sala prove, in attesa che succeda qualcosa. È come se uno scultore invisibile preparasse gli attrezzi per estrarre la forma dal pezzo di marmo ancora squadrato, davanti a sé. Tutti i percorsi possibili, ancora da scrivere. Kotche organizza il suo armamentario di piastrelle di ceramica e crotales, per disegnare un paesaggio adatto alle parole che verranno, piuttosto che focalizzarsi su un ritmo studiato. Tutto intorno è una calibrazione di interferenze e spunti elettronici. Nel magma spunta improvvisamente una chitarra acustica, un arpeggio tradizionale e la voce quasi annoiata, disillusa, spettinata da troppe notti insonni, di Tweedy. “Sono un ubriacone che rischia di uccidere qualcuno per strada / mi nascondo nelle luci delle insegne di una grande città / a che cosa pensavo quanto ti ho lasciata andar via?”. Il grande romanzo americano, regalato alle parole dubbiose, di uno cresciuto a dosi di divieti, obblighi e farmaci per tenere dentro qualsiasi dolore. Una voce dal disincanto quasi stonato, intossicato da poco abusi di alcol e marijuana annoiati, che armeggia parole, conscia di non aver mai imparato bene come dirle. E si aggrappa alla sicurezza delle corde di una chitarra. Le radici che abbracciano nuove forme, in un ambiente percussivo, che è la seconda voce dell’umore dei testi. Arrangiamenti moderni, che rispettano la storia musicale, muovendosi con misura, ma incidendo solchi nuovi. Se volete capire se possa esserci vita per la musica tradizionale americana nel ventunesimo secolo, si passa necessariamente da qui. È solo l’inizio. La desolazione quasi ambient di Radio Cure, è l’elegia lunare della premiata ditta Yorke / Greenwood, catapultata nella Prateria americana del narratore William Least Heat-Moon. O’Rourke governa interferenze, lavorandole per sottrazione dal retropalco, solo per distillare la natura intrinseca delle forme tradizionali, senza oltraggiarla. Regala accenni di modernità alle semplici melodie narcotiche di Tweedy. Il disco doveva vedere la luce originariamente l’11 Settembre del 2001. La data non sembra essere un caso. Difficile non pensare alle Torri Gemelle di New York, guardando i due edifici in copertina (le torri del Marina Center a Chicago). Come per Donnie Darko, il film di Richard Kelly, i riferimenti profetici o voluti alla più grande tragedia recente della storia americana, sono obbligo e dannazione.

Il piglio lisergico di War On War, il country declinato fra le carte da parati scadenti di un albergo di quarta categoria di Jesus Etc. (“Alti edifici tremano, voci fuggono intonando canzoni tristissime”.) non sembrano casuali. Sono lo sguardo cresciuto emotivamente autistico, su un dolore a cui non si è mai stati preparati. Per chiudere il cerchio di una nazione, di fronte ad un distributore automatico di bibite. I paradigmi della cultura americana, recitati da uno Springsteen che ha detto addio a tutte le certezze, in Ashes Of American Flags. “Mi chiedo perché diamo ascolto ai poeti, quando a nessuno gliene frega un cazzo”. L’ultimo memoriale possibile. Tweedy non chiarisce mai, non spiega completamente, si affida a Kotche e O’Rourke per modellare il suo messaggio incerto, nella speranza che qualcuno lo intercetti e lo faccia suo. La transizione dal drone finale di Ashes…. alla nostalgia in cerca di spensieratezza della brillante Heavy Metal Drummer è l’estremo sacrificio sull’altare della comunicazione a tutti i costi. Pare che la discussione generata fra Tweedy, O’Rourke e Bennett, su come passare da una canzone all’altra, sia stata la causa finale dell’allontanamento del polistrumentista nel 2001. Il gusto amaro che a volte lascia la ricerca estrema dei dettagli. Quante volte Tweedy avrà ascoltato i Cure di The Head On The Door, per tirare un sospiro di sollievo con quella canzone, Kamera e soprattutto Pot Kettle Back? Come sempre, non lo sapremo mai. L’importante è comunicare, ad ogni costo. Il viaggio narcolettico di Tweedy si compie, fra le onde dell’inarrivabile melodia di Poor Places. Il viaggio che partiva da No Depression trova una sua destinazione, fra le braccia di Lennon e Mc Cartney, con l’eco della tristezza mercuriale del Prince di Sometimes It Snows In April. O’Rourke si deve essere divertito come non mai, a ipotizzare arrangiamenti e carambole d’arpeggi che declinano verso le parole da cui tutto era iniziato. Yankee, Hotel, Foxtrot. La voce marziale dell’agente del Mossad introduce il mare infinito di Reservations. La personale Holocaust di Tweedy. Come per Alex Chilton, l’autoanalisi finale, prima di mettere il messaggio in bottiglia e liberarlo. “Come faccio a convincerti che sono io la persona che detesto di più / e non essere indifferente al tuo sguardo / quando sono sempre stato distante / e ho detto sempre bugie per amore”. Titoli di coda su una processione funebre che non ha più l’appiglio della tradizione, non guarda più ad futuro possibile. YHF venderà più di 400,000 copie, in barba ai creativi della Reprise ed è ancora oggi un passaggio fondamentale, per capire dove vada il rock americano, adesso e domattina. Con tutti i suoi messaggi non spiegati, le sue parole lanciate nell’etere, i suoi significati nascosti. Di sicuro uno dei modi più complessi per andare da A a B, ma anche più appaganti. Cambio scena. Torino, estate 2007, Spazio 211. suonano i Wilco. La canzone è Spiders (Kidsmoke), da A Ghost Is Born, album di completamento del percorso iniziato con YHF, e ultima collaborazione (finora) di Tweedy con O’Rourke. Il pezzo è un lunghissimo motorick krauto. S’interrompe bruscamente, quando all’improvviso viene a mancare la corrente sul palco. Il pubblico, indomito, continua, intonando a voce il pattern percussivo di Kotche. Quasi a sottolineare la natura del suo contributo alla musica dei Wilco. Una voce più che un sottofondo ritmico. È un coro molto preciso, incessante. Tweedy e soci decidono di assecondarlo, imbracciando strumenti acustici e supporti percussivi casualmente trovati sul palco. Per qualche minuto, la band improvvisa con gli astanti la loro personale ed entusiasta versione del pezzo. Torna la corrente e i Wilco fanno esplodere il finale. Ovazione e commozione totali. Qualche volta, anche quando non ci sarebbero le condizioni, il messaggio arriva. Qualsiasi comunicazione è meglio che arrendersi e non comunicare affatto.

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