Live Report: Ulver @ Labirinto Della Masone, Fontanellato (PR) – 03/06/2017

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testo di Daniele Ferriero / fotografie di Stefano Zerbini

Nell’opulenta e lussuriosa cornice del Labirinto della Masone (a Fontanellato, in provincia di Parma), gli Ulver chiamano a raccolta gli accoliti. Senza clamore. Con il solo ausilio della propria presenza in musica. Il concerto è il quarto ad essere messo in scena nell’anomala, splendida, location. Prima di loro, gli Air nel maggio del 2016 e i Sunn 0))) prima e il siriano Omar Souleyman poi a qualche mese di distanza.

Oggi, appena arrivati, il parcheggio antistante l’ingresso si riempie in fretta e ad incastro. Dai campi ritagliati per ospitare le macchine passiamo all’ingresso. Spendiamo l’attesa nel chiostro introduttivo, tra un bistrot e qualche esercizio commerciale dai modi raffinati e dal prezzo non sempre popolare. Il secondo cancello viene aperto dopo la pausa, breve ma sfiancante, a mo’ di rito iniziatico. Dall’entrata della struttura veniamo tutti incanalati attraverso le vie del Labirinto, delimitate dalla muraglia complicata di bamboo. Ogni tanto qualche lanterna, o qualche addetto, ci conduce lungo la giusta direzione. Il percorso, serpentino e arzigogolato, è in realtà illuminato solo dagli ultimi spasmi del giorno che già cede terreno al buio. Qualche rumore da soundcheck e poco altro soffia via tra di noi. L’eccitazione dell’attesa, e dell’antipasto, elettrizza in toto l’aria. Arrivati nel chiostro centrale, dove una piramide presiede il palco, è ormai notte.

Riprese ufficiali del concerto, a cura di Video di Marco Giovanardi e Andrea Galvagni.

Gli Ulver sono una creatura anomala, per definizione e per esplicita ricercatezza. Snob. Elitaristi. Coerenti con il nero nucleo di fiamma che dovrebbe appartenere all’etica black metal. Hanno tuttavia “rinnegato” a più riprese le fondamenta estetiche, morali e finanche pratiche della corrente musicale. Hanno camminato, con passo calmo, sicuro e misurato, lungo dorsali che la maggior parte dei gruppi non potrebbe percorrere nemmeno in qualche milione di anni ed evoluzioni. Hanno spinto l’anima oltre l’ostacolo, al di là del traguardo.

Dai primordi squisitamente black metal della trilogia iniziale sono passati a sperimentare con parole ed elettronica varia ed eclettica (Themes from William Blake’s The Marriage of Heaven and Hell, Metamorphosis, Perdition City, etc), scegliendo poi di misurarsi con la musica classica e da camera, con krautrock, traiettorie in odore di psych rock e anni Sessanta e infine, per ora, con il pop elettronico mutuato dai maggiori campioni new/darkwave. Hanno mutato pelle senza mai guardarsi indietro. Sono stati tra quanti hanno introdotto migliaia di metallari a tutto un universo di suoni sino ad allora sconosciuti.

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Della formazione primordiale rimane solo Garm, il Trickster, al secolo Krystoffer Rigg, e in seconda istanza Tore Ylwizaker, alchimista di suoni e sperimentazioni dai tempi del fondante sperimentalismo musicato su Themes from… .Il resto della truppa è a formazione variabile, una sorta di collettivo esteso, i cui tentacoli agitano molti e diversi musicisti. Recentissimo, l’ultimo The Assassination of Julius Caesar (che vede anche il tocco aureo di Martin Glover) ha rimesso il progetto in carreggiata esplicitamente elettronica, nel divagare di melodie e beat onnivoro, elegante e raffinato. Il disco appare principalmente come una versione dritta al grugno delle declinazioni pop e waveragionate da uno fra i progetti più vitali degli ultimi lustri. Musica di massa dal sottotesto esoterico.

Stasera, lo si trasforma in materia pulsante dal vivo. Ad aprire il concerto è Stian Westerhus, che propone una sorta d’incrocio, vocale e strumentale, di Anthony e Scott Walker; decadente, aspro, carico d’emozioni e sperimentazioni avant-jazz con la chitarra, introduce al meglio al clima della serata. Senza colpo ferire, né interruzioni, sale il resto della band, a partire dalla sezione ritmica ed elettronica. In ultimo, il celebrante con la sua voce. Garm (voce e pad) e Tore (synth), Stian (chitarra), Anders Møller (percussioni), Ole Alexander Halstensgård (electronics) e Ivar Thormodsæter (batteria)cominciano l’epica.

Durante la serata The Assassination of Julius Caesar viene rilanciato e riletto nella sua interezza. I brani sono riarrangiati secondo una forma mentale elastica e aperta in parte all’improvvisazione, di stretta derivazione free rock: le parti ritmiche vengono allargate e mutate, campionamenti saltano o cambiano, le tracce vocali e i sintetizzatori subiscono manipolazioni, storture e differenziazioni timbriche o tonali. Al di sotto di tutto, un groove continuo ed eterno, condotto dall’incredibile lavoro della ritmica e dalle svisate armonico-melodiche di Tore. A tratti, dimenticate le musiche, pare essere in presenza di un rito arcaico proiettato nel futuro, o della rivisitazione elettronica della continuità blues-soul in chiave “dance”. In fondo, sono solo pulsazioni che percorrono l’eternità.

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In accompagnamento al concerto possiamo ammirare lo stupendo lavoro visivo condotto da Birk Nygaard/BnVisuals. Il quale prepara ed esegue una danza di luci, icone e colori, servendosi di 6 rgb scanner laser con macchine hazer per l’effetto “Fumo denso” e di proiezioni eseguite contro un tulle di 10 m, posto in alto tra il pubblico e il gruppo, e ulteriormente riflesse da alcuni specchi. Evoca immagini dai testi e dalle musiche. Le preoccupazioni filosofiche e metafisiche del progetto prendono vita tra di noi, sulle nostre teste e dentro ai nostri occhi. Cascate di porpora e bianchi sfavillanti, chiaroscuri blu e indaco. Loghi in veste di croci, dollari e Colosseo.

Una sola, gelida, concessione al pubblico: The Future Sound of Music da Perdition City, accolta dall’entusiasmo dei presenti e scagliata verso ulteriori spettri emotivi. Lo show è indimenticabile, pochele note storte. Una, in particolare: la voce del mastermind, Garm. Seppure d’indubbio fascino e spessore, anche emotivo, in più di un frangente si rivela difatti non adeguata alle musiche; qualche stonatura e il fiato un po’ corto ci ricordano e raccontano che Ulver non è creatura abituata alla luce e ai tour intorno al mondo. Il concerto ad ogni modo non ne risente granché. La band è del tutto affiatata e molto professionale, gli arrangiamenti e gli strumenti procedono all’unisono nel costruire quanto sembra essere una cavalcata rock nascosta sotto i panni del pop anni Ottanta e Novanta.

La piramide che per tutto il tempo ha trionfato alle spalle della band risplende ulteriormente, nell’ultima, lunga,marcia strumentale. Per pochi istanti si accende un occhio celeste e divino, al vertice. Immagini ipnagogiche, allucinazioni al neon. Il gruppo smette ed esce di scena con un sussurro, dopo un’ora e mezza circa di meraviglie. Il banchetto con il merchandising è stato svuotato. La trance indotta da tempo. Il rituale è concluso.

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