Primavera Sound 2017, il racconto della diciassettesima edizione

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Arcade Fire – foto di Eric Pamies

A un certo punto, durante una conferenza per stampa e addetti ai lavori, Viv Albertine delle Slits racconta di sostenere che il vero problema per un artista di oggi è quello dell’eccesso di stimoli. Vero o falso che sia, a traslarlo, il ragionamento centra in pieno l’affanno del Primavera Sound nel 2017. Festival che – va premesso – a neanche una settimana dall’inaugurazione si trova a dover gestire la cancellazione del suo nome di punta, Frank Ocean. E che a quel punto butta tutte le sue carte non tanto nella valorizzazione di un cartellone spaventoso (per qualità, non solo per quantità) ma in una serie di eventi segreti che la stessa conferenza stampa di chiusura – ogni anno vera spia degli obiettivi prefissati – indica chiaramente fra i tratti caratterizzanti l’edizione. Mediaticamente imbattibile il primo, con gli Arcade Fire a montare dopo giorni di gossip e smentite su un palco a forma di ring per presentare davanti a un migliaio di persone singolo e album nuovo, Everything Now. Chi è dentro lo ha scoperto cinque minuti prima, chi suona ha l’aria di stare divertendosi come da tanto non capitava e un’ora infarcita di classici suonati impeccabilmente fa il resto, incluso il dimenticare di essere in mezzo a una pensata promozionale o l’impressione (confermata due giorni dopo, nel loro canonico set) di un materiale nuovo stranamente monodimensionale, anche se confrontato a Reflektor. Meno bene andrà coi Mogwai, in un discusso set di presentazione del nuovo lavoro, e malissimo con le Haim la terza sera, soprattutto per la scelta – o imposizione del management, chissà – di regalare il monopolio delle tre del mattino del sabato a un gruppo appena in rodaggio, con conseguente e inevitabile fuga di massa dal festival. Il tutto mentre di giorno in giorno venivano annunciati set esclusivi in un palco apposito, con un sistema di ingresso a gettone almeno cervellotico. Il risultato? Che un gruppo come gli Algiers, autori del nostro disco del mese, si trova a suonare uno dei concerti più impressionanti del festival – per potenza, lucidità e naturalezza nello scavalcare i teorici limiti della propria proposta – davanti a un centinaio di persone per lo più ingolosite dall’open bar, e non le migliaia che avrebbe meritato.

Soprattutto perché – ripulito dall’ansia dell’evento a tutti i costi – il Primavera da anni certe cose le sa fare, e benissimo. Le reunion, una volta vera specialità della casa, ad esempio. Due su tutte: il ritorno del gospel yé-yé dei Make Up di Ian Svenonius, dimostrazione che, se tutti sono in grado di gridare un let me hear you say yeah, un marxista col potere di camminare sulle folle lo farà sempre meglio degli altri. O una delle rarissime performance dei This Heat, a 36 anni dall’ultimo album in studio e a 16 dalla morte di Gareth Williams: in tre sul palco ai tempi e in otto ora, ma per assurdo il loro post-punk potrebbe essere ancora più avanti sui tempi ora di quanto lo fosse in un 1981 di tutt’altra fluidità.

È casomai l’indie classico, quello che per anni aveva fatto del festival una colonia estiva per fan dei Belle & Sebastian, a latitare. Effetto di una crisi generazionale su cui questo giornale si è recentemente speso, intanto. Così, funziona a meraviglia il set di una Angel Olsen che si è scordata la timidezza degli esordi: arrangiamenti anche eccessivamente classici, ma repertorio e interpretazione sono da artista pronta per i grandi palchi. Eccezione però, e la panchina non è corta, è cortissima: tanti gli occhi puntati su Mitski dopo un album promettentissimo nel 2016, e la ragazza ricambia con un set di una pochezza, pigrizia e approssimazione da fare cascare le braccia. A essere negli organizzatori, avremmo rimboccato personalmente le coperte ai Teenage Fanclub e agli Arab Strap, visto che di altra gente con in tasca pezzi come The Concept e The First Big Weekend non se n’è vista tanta, nel weekend. Così come agli Afghan Whigs di Greg Dulli, sempre meno soulman bianco e sempre più il bad motherfucker che ha sempre voluto essere, malgrado pancia e attaccatura dei capelli a remare in due direzioni opposte.

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Arab Strap – foto di Garbin Že Irizar

Uno che capolavori ne avrebbe da vendere è Van Morrison, non fosse per la proverbiale simpatia di uno che usa un microfono d’oro, tanto che è facile facile lasciare la palma della migliore vecchia gloria del festival a una Grace Jones ultraterrena. Body painting bianco e nero, abbrivio – dopo dieci minuti di ritardo, record assoluto – con la sua cover di Nightclubbing tanto per fare capire l’antifona e un’insospettabile buon umore, incluso lo scusarsi per un (impercettibile) calo di voce dando la colpa alla marijuana della sua Giamaica. Ma è la sua stessa presenza a spiegare quanto sia cambiato il festival. O il suo mondo di riferimento, se i migliori momenti del weekend arrivano da artisti che solo cinque anni fa si sarebbero mischiati al resto del cartellone come l’acqua con l’olio. Solange soprattutto, in uno spettacolo citazionista nella scenografia e nelle coreografie e futuribile per tutto il resto: che richiami un pubblico enorme (e una volta tanto non solo bianco) lascia sperare i più, con i rimanenti a rimuginare sui tempi in cui Ty Segall suonava anche a colazione. Oppure i Run The Jewels, da un pezzo il bromance più divertente in circolazione. D’accordo, un flow mostruoso così come il fatto di avere il pezzo perfetto per scoperchiare un festival (Lie, Cheat, Steal), ma non si ricorda l’ultima volta in cui si è usciti da un concerto rap con una sensazione di enorme tenerezza per i suoi interpreti. Impegno sociale, calore umano in dosi da cavallo e cazzeggio anche greve: a vederglieli impastare insieme sembra tutto facile, ma provateci voi.

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Grace Jones – foto di Eric Pamies

Solange@SergioAlbert

Solange – foto di Sergio Albert

In quota, è il contingente inglese a dare le risposte più contrastanti. Escludiamo subito Kate Tempest, persino imbarazzante per la violenza dell’impatto se accostata alla sfera privata raccontata nei testi. O Sampha, forse la vera sorpresa del festival, in un’ora ritmicamente più complessa (assolo di batteria a quattro incluso) del disco eppure intatta quanto a intimità: nessuno lo conoscerà come il suo piano, canta lui, ma sotto il palco non entrava più uno spillo. Di più ci si aspettava semmai da Skepta, primo vero tentativo del Primavera di tastare il terreno del grime: possibile che la concomitanza del suo set con le prime notizie degli attentati di Londra non lo abbia aiutato, ma l’impressione di uno arrivato in pantofole resta netta. E il dubbio resterebbe anche sugli XX, non fosse che l’unica colpa loro imputabile è quella dell’eccesso di popolarità. Non che non le provino tutte, inclusa una scaletta in crescendo o il tentativo in coda di affidarsi a Jamie XX e sperare in bene. Solo che quando l’intera Catalogna prova a schiacciarsi sotto il loro palco, il provare a godersi un po’ della microscopica magia degli incastri vocali e ritmici diventa a dir poco utopico. Soprattutto quando il pubblico è quello locale, sempre ad altissimo tasso cafonal: da quel punto di vista, lo spettacolo dei vecchi fan degli Slayer che fulminavano chiunque si mettesse a urlare o infastidire i vicini durante il set del gruppo ha riconciliato molti con la platea.

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Sampha – foto di Garbin Že Irizar

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The xx – foto di Eric Pamies

Buffo semmai che sia proprio Tom Araya, non proprio il poster boy del weekend catalano, a sintetizzare senza rendersene conto quello che continua a essere il vero punto di forza del festival, pur fra mille scossoni. Capita proprio al’inizio del set degli Slayer, quando con camionate di sarcasmo butta lì uno “spero che quello che facciamo vi piaccia, è molto diverso da quello che avete sentito fino ad ora”: anche quest’anno di tutto si può accusare gli organizzatori tranne di non avere provato ad ampliare i propri orizzonti musicali.

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