Live Report: I-Days Festival 2016

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di Luca Doldi

Sono anni che frequento saltuariamente i grandi festival italiani e i problemi e i limiti che si portano dietro sono sempre gli stessi. Non siamo mai stati capaci di evolverci: dagli anni ‘90 la situazione è immutata, con distese di asfalto chiamate arene, un giorno singolo di programmazione, un solo palco, servizi igienici insufficienti o inadeguati, punti ristoro al minimo sindacale con prezzi da galera e mille problemi di organizzazione. Robe che a chiamarle festival ci vuole un gran coraggio. Ormai sono quasi due decenni che, da quello che vedo, questi eventi presentano sempre gli stessi problemi. Il primo festival a cui andai fu il Teste Vuote Ossa Rotte del ‘98, non ero neanche maggiorenne. Una line up incredibile con NOFX, Rancid, Primus, Buzzcocks e H2O (questo è forse l’unico aspetto per il quale alcuni di questi “festival”, negli anni passati, si sono salvati), ma la solita distesa di asfalto fuori dal Forum di Assago, il solito monopalco, la solita area senza nessun servizio se non i requisiti minimi si sussistenza. Da allora non è cambiato sostanzialmente nulla. Il modo di organizzare questo tipo di eventi è rimasto sempre lo stesso, nonostante i difetti e i problemi che negli anni si sono manifestati.

Per questo il mio approccio all’I-Days e a qualsiasi altro evento del genere oggi è molto prevenuto e scettico. Se la line up è interessante ci vado, ma so già che dovrò affrontare qualche problema, e non è il modo migliore per vivere un’esperienza nella quale dovrei pensare solo a divertirmi.

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Quest’anno l’area che ha ospitato l’I-Days era inedita: il parco di Monza, più precisamente l’interno dell’autodromo, fra la parabolica del nuovo circuito e la sopraelevata del circuito storico. L’accesso, lo sa bene chi frequenta le corse, non è dei più immediati, essendo quello di Monza un parco recintato. Parcheggiando all’esterno si deve fare molta strada a piedi. C’erano comunque predisposti dei parcheggi all’interno, anche se al costo di 10 euro molti hanno preferito parcheggiare nelle strade limitrofe. In ogni caso, una passeggiata nel parco non fa mai male. Passati i controlli molto severi, una volta entrato, l’area che mi si è presentata davanti ha fatto cadere un po’ dello scetticismo che mi portavo dietro. Una distesa d’erba (finalmente!), quattro palchi distribuiti per tutta l’area, di cui due coperti e l’impressione che finalmente si siano fatte le cose per bene. Azzardo un “come nei grandi festival europei”, anche se in scala ridotta, dove spesso c’è il palco principale e poi il secondo grande palco coperto da un tendone.

Il primo giorno il mio festival è iniziato con tre quarti d’ora di coda per prendere da mangiare. È vero, ci sono andato all’ora di punta ,ma questo è uno di quei problemi di cui parlavo prima. Il mondo dello street food è in piena espansione, si organizzano festival fatti solo di camioncini che vendono cibi ottimi e di ogni genere a prezzi onesti, ma ai festival musicali siamo ancora a fare code infinite agli unici due punti ristoro in cui si vendono i soliti panini/piadine con salamella, cotoletta e simili (6€). Posso capire che ci siano permessi e regole difficili da gestire in Italia, ma fatico a credere che non si possa proprio offrire qualcosa di meglio.

Altra conferma delle vecchie cattive abitudini è stato costo delle bevande: 5 euro una birra piccola e 3 euro una bottiglietta d’acqua. Anche in questo caso se si vuole fare di un festival un’esperienza positiva sotto tutti gli aspetti non si può far pagare un’acqua tre euro, soprattutto quando non ci sono neanche fontane o docce per rinfrescarsi. A parte questi soliti, vecchi problemi, l’esperienza è stata positiva. L’organizzazione dei live molto efficace e precisa negli orari, con palchi perfettamente coordinati fra loro, senza quasi nessuna sovrapposizione. Dal punto di vista musicale è stato un buon festival, con conferme da parte degli headliner e alcune scoperte e sorprese interessanti.

La prima band che sono riuscito a vedere sono stati gli Stereophonics, che hanno fatto il loro solito onesto live. Suonato bene, preciso, con un calo fisiologico nella parte centrale e una ripresa sul finale con Dakota, che anche a distanza di anni rimane un gran pezzo con una presa incredibile sul pubblico.

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I Sigur Rós invece ormai vivono da anni un confitto che pare insanabile: divisi fra il cercare di non perdere la loro natura e l’identità che li ha caratterizzati e il trovare una nuova definitiva direzione che gli dia una svolta. Da Valtari in poi la band continua a fare un passo avanti e due passi indietro. Andando con ordine: Valtari rappresenta un ritorno al passato, Kveikur un passo verso una nuova direzione (non troppo convinto). La formula di questo tour rappresenta ancora un passo indietro verso le loro origini. La decisione di affrontare i concerti come trio, senza nessun turnista o musicista aggiunto, è emblematica: un modo per tornare a guardarsi in faccia e ritrovare la piena intesa di gruppo, un modo di compattarsi e tornare a macinare chilometri e palchi solo con persone che conosci a fondo. Anche la scaletta del concerto è stata molto particolare, dato che andava a riprendere pezzi lasciati spesso fuori dalle scalette dei tour precedenti e che sono andati a riscoprire un lato della band rimasto nascosto per molti anni – quello più riflessivo e ostico, lontano anni luce dalle atmosfere allegre di Hoppipolla.

Tecnicamente è stato un concerto immenso: i Sigur ormai possono permettersi una produzione al pari di band planetarie come i Nine Inch Nails (il led-wall che usano è sostanzialmente lo stesso che usava Reznor nel tour di With Theeth, e anche l‘idea di iniziare a suonarci dietro), e le scenografie sono studiate sempre alla perfezione con luci e soluzioni specifiche diverse ad ogni brano. L’esecuzione come trio è stata impressionante: non ho mai visto una band di tre element  con strumentazione classica riuscire ad avere quella ricchezza di suono, quell’intensità e quella potenza senza l’ausilio di basi, se non qualche sample percussivo e poco altro. In definitiva è stato sì un grandissimo concerto, ma rispetto ad altri è mancato qualcosa. Una mancanza quasi impercettibile per la maggior parte del pubblico forse ma, per chi come me li ha visti più volte, è stata abbastanza netta – ma anche difficile da spiegare. È mancato l’affondo finale, il momento in cui rimani immobile con la bocca spalancata, in cui pensi che siano arrivati all’apice e invece hanno ancora fiato per spingersi più in alto. In un certo senso, è stato il concerto dei Sigur Rós più “normale” che ho visto.

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Il secondo giorno, la prima sorpresa sono stati gli Eagulls, con un live in piena luce diurna — atmosfera che non gli si addice per nulla — che mi ha piacevolmente stupito. La loro presenza sul palco non è di quelle che rimangono impresse, il loro stile molto dimesso e senza fronzoli non è molto adatto a palchi così grandi, ma sono riusciti a riempire quello spazio con una grande personalità, oltre che con un suono di basso enorme e affilatissimo. Una grande performance che sicuramente avrà raccolto qualche nuovo fan, o forse no, visto che erano tutti lì per i Biffy Clyro.

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La seconda sorpresa invece sono stati i Public Access T.V. in chiusura del festival, band di New York che deve molto agli Strokes, ma che ha saputo regalare un live con un tiro pazzesco e una personalità enorme per dei ragazzi vicini ai vent’anni. I Biffy Clyro non sono stati una sorpresa, invece. Il loro live è stato esplosivo come al solito, nonostante un calo di voce di Simon Neil dopo la prima metà del concerto, gestito comunque molto bene. La capacità di essere un unico corpo che suona alla perfezione è la caratteristica che sempre mi stupisce di più: l’intesa che c’è fra Neil e i fratelli Johnston è una cosa che non ho mai visto in nessun’altra band. Peccato che l’ultimo disco Ellipsis non sia per niente all’altezza dei tre precedenti. Per fortuna non gli hanno riservato molto spazio durante il live limitandosi a inserire quattro pezzi fra cui i primi singoli, che tutto sommato hanno reso molto di più che su disco. Il finale del concerto è stato affidato a Stingin’ Bell, con la coda strumentale che ha letteralmente lasciato tutti a bocca aperta.

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Una spiacevole sorpresa invece (sorpresa fino a un certo punto), l’ha riservata il pubblico dei Biffy Clyro che, subito dopo la fine del loro concerto, ha lasciato l’arena fregandosene dei Suede che suonavano dopo di loro. Posso capire che non siano affini come genere — realisticamente, neanche così lontani — ma un festival dovrebbe essere anche un’occasione per vedere band e artisti che non si conoscono e per i quali non pagheremmo mai per un singolo concerto. Un festival dovrebbe essere uno stimolo alla scoperta di nuove realtà, ad essere curiosi, a conoscere cose con le quali altrimenti non si verrebbe mai a contatto, non in modo così diretto almeno. L’atteggiamento di chi sfrutta un festival andando a vedere solo la sua band preferita e diserta tutto il resto è alquanto provinciale e denota un’educazione e una cultura musicale povera e limitata.

Si criticano sempre gli organizzatori dei festival, ma il problema più grande forse è la cultura di chi in Italia i festival li frequenta. La cosa che mi stupisce di più è che fra i fan dei Biffy Clyro, oltre a persone che magari non hanno una cultura musicale così capillare e seguono quelle due o tre band grosse, c’è anche molta gente “della scena” punk/hc e simili. Gente che suona, che organizza concerti, che sa quanto è difficile mettere insieme anche il più piccolo dei concerti. Magari sono fra quelli che si lamentano perché quando suonano di supporto a qualcuno, le persone stanno fuori a fumare e bere ed entrano nel locale solo per vedere la band che conoscono.

Forse la line up del festival non era una delle più coerenti, ma il bello dei grandi festival è anche quello di mettere insieme situazioni completamente differenti fra loro. Mettere gli Suede dopo i Biffy Clyro non è stata una scelta azzeccata? Può anche essere, ma un minimo di curiosità di vedere un gruppo che tutto sommato ha fatto la storia di un genere possibile che non ci sia? La scusa dell’orario e del lunedì lavorativo non regge, la serata finiva a mezzanotte (Public Access TV esclusi), non un orario impossibile. Passi per chi magari doveva farsi un centinaio o più di chilometri, ma non credo che venissero tutti da fuori Milano.

Non parlo da fan dei Suede, sia chiaro, non mi sono mai piaciuti particolarmente, come in genere tutto il brit-pop. Ero lì anche io principalmente per i Biffy Clyro, ma mi è sembrata la cosa più naturale del mondo andare a un festival, avere la possibilità di vedere una band così, sostanzialmente gratis, perché per 25€ (senza prevendita) non vedrete neanche i Biffy Clyro da soli a Firenze questo ottobre, e non perderla.

Siamo ancora molto indietro per quel che riguarda la cultura musicale, nel modo di vivere i live, i festival e nel vivere la musica come cultura e non come passatempo o come semplici fan dei nostri artisti preferiti e nulla di più. Troppo facile dare sempre la colpa agli organizzatori, bisogna imparare a vivere eventi come questo con curiosità verso quello che non conosciamo, con il gusto della scoperta e perché no anche il piacere di criticare qualcosa che si è visto e non è piaciuto. Finché non ci sarà questa cultura è forse inutile avere certi eventi in Italia.

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Per il piacere dei pochi rimasti alla fine il concerto dei Suede è stato qualcosa di epico. Il live è iniziato con una serie di problemi tecnici che sembravano insormontabili. È successo di tutto, ma la band non ha mai mollato il colpo. Brett Anderson è un frontman come non se ne vedono più da tempo, ed è riuscito a risollevare un concerto che sembrava nato sotto le peggiori premesse. Partito subito scaraventando il microfono a terra dopo soli trenta secondi dall’inizio, uscendo mentre la band continuava a suonare, per problemi ai suoi in-ear monitor. Dopo aver constatato che non ci sarebbe stato verso di farli funzionare ha abbandonato gli in-ear per affidarsi alle spie da palco, che però hanno comunque dato problemi. Il microfono è stato scaraventato sul palco ancora un paio di volte e la rabbia sembrava prendere il sopravvento. Ma poi si è caricato sulle spalle tutta la band, aprendosi la camicia come di solito usa fare e aggredendo il palco come una tigre in gabbia. Ha fatto veramente di tutto, ed è sceso dal palco per cantare davanti alle transenne, stando per parecchio tempo a contatto col pubblico.

È salito anche su una struttura davanti al palco incastrando il cavo del microfono senza che nessuno dei tecnici sul palco si accorgesse di nulla, e dopo una richiesta di aiuto ignorata (di solito il cavo viene liberato prima ancora che il cantante si accorga del problema), l’ha lasciato lì dov’era, ed è risalito sul palco a incitare il pubblico come se niente fosse anche se in realtà avrebbe dovuto cantare.

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Il momento più curioso è stato quando ha iniziato a far roteare il microfono sulla testa, disegnando un cerchio molto ampio nell’aria, uno dei tecnici senza accorgersi di nulla si è precipitato di corsa verso una delle spie che dava problemi, col microfono che passava a pochissimi centimetri dalla sua testa. Per fortuna Richard Oakes (chitarrista) accortosi del rischio che stava correndo, mentre suonava lo ha scaraventato a terra indicandogli il microfono che passava davanti alla sua faccia. L’avesse colpito si sarebbe fatto molto, molto male.

Anderson è riuscito a coinvolgere tutto il pubblico, lo è andato letteralmente a prendere e ha trascinato tutti in quello che è stato un concerto come non ne vedevo da anni, dettato solo dall’istinto e dalla capacità di trasformare le difficoltà in punti di forza. Chi era sotto il palco ha vissuto veramente un concerto speciale, di quelli unici, dove tutte le sovrastrutture saltano e ci si ritrova ad ammirare il talento vero, di chi si esprime al meglio in ogni condizione. Questo è stato il regalo dei Suede per chi è rimasto a vederli.

Questo I-Days Festival è stato una piccola svolta dal punto di vista della disponibilità di palchi e dell’organizzazione dello spazio e del tempo, all’interno di un festival italiano. Inoltre è stato una buona base di partenza per sviluppare un festival veramente grande e internazionale, in un luogo inedito che spero venga riconfermato l’anno prossimo. Non tanto per la bellezza o la comodità, ma per dare la possibilità al festival di migliorarsi conoscendo già le criticità che può presentare e potersi dedicare maggiormente ai dettagli, alle line-up, e correggere quei piccoli grandi difetti che ci portiamo dietro da vent’anni.

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