Sophia @ The Lexington, Londra, 09/05/2016

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SI_Sofia

di Stefania Ianne

L’introduzione di Unknown Harbours accompagna l’ingresso della band al Lexington di Londra: pub al pianterreno, sala concerti al primo piano. Sono sorpresa di vedere 5 musicisti sul palco. Robin Proper-Sheppard non ha badato a spese per questo concerto. Il collettivo Sophia è in realtà una persona, RPS, una svolta drammatica dopo gli inizi di The God Machine negli anni 90. Un gruppo californiano tristissimo ma di una potenza musicale subdola, inaudita. Ormai oggetto di culto, i God Machine terminarono con la morte del bassista Jimmy Fernandez. Un tumore al cervello. Una recensione iniziale al loro Scenes from the Second Storey chiedeva incredula che cosa ci fosse di tanto drammatico in California, cosa generasse tanta tristezza – mentre la musica dei GM dimostrava che il malessere di vivere esiste anche nei posti più artificialmente allegri sulla terra. Quando Proper-Sheppard si è reinventato come Sophia, chitarra acustica solitaria ad accompagnare la sua tristezza, il pubblico lo ha odiato. Ce lo ricorda lui stesso, stasera.  Il pubblico in sala grida la sua approvazione.

Enigmatico, sornione: non traspare nulla dai tratti quasi latini di Sheppard. Sono secoli dal mio ultimo concerto dei Sophia. L’ultima immagine che ho era di RPS con una serie di birre in mano, amabilissimo con i fan sul parterre della sala prima del concerto. Qualche birra di troppo non lo aiuterà sul palco, soprattutto nell’introduzione dissonante di Ship in the Sand. Ricordo tante risate e un concerto acustico, una tastiera come accompagnamento. Stasera invece sembra molto più concentrato sulla performance. Lo intravedo marciare a grandi passi su e giù per il locale sicuramente per definire gli ultimi dettagli. E sul palco? As We Make Our Way (Unknown Harbours) viene suonato nella sua interezza, dalla prima all’ultima nota. Il volume è altissimo. Tre chitarre, tre tastiere, basso e batteria. Lo spazio sul palco non basta a contenere la strumentazione. Quello riservato alla chitarra principale è limitatissimo, tra l’amplificazione e la serie infinita di pedali. Mal movimento per il chitarrista è fondamentale e, per tutta la serata, resto terrorizzata dalla sua visione: è in trance, trasportato dalla musica per tutto il concerto. Un talento naturale.

La musica dei God Machine mandava l’ascoltatore in una trance musicale a ritmo elevato, e stasera mi sembra di tornare indietro nel tempo. I nuovi musicisti che circondano RPS sembrano completamente convertiti alla religione Sophistica – persi nella musica in maniera totale. In trance anche loro, la musica come religione e i fan fedeli. Vedo in sala tanta gente che probabilmente non ha visto concerti per decenni. C’è anche qualche ragazzina che canta tutte le parole come se fossimo ad un concerto pop. Tutti in un silenzio quasi religioso, attento. Chi è in sala è venuto per lui: “Amazing to have you back, Robin!”.” Amazing to be back”, risponde lui con un sorriso soddisfatto.

RPS ha una storia incredibile alle spalle. Non ha più una casa, o meglio non l’ha mai avuta. La California sicuramente non lo è, l’Europa lo ha espulso visto che ci ha vissuto per decenni ma senza un permesso di soggiorno vero e proprio. The Drifter: un concetto a noi estraneo. Una persona che vive ai margini – difficile da catalogare, in continuo movimento.

Il concerto sembra fin troppo breve, stasera. Il mitico coprifuoco londinese, alle 23 esatte. Robin ci dice, in traduzione: “Se fossimo in Europa continueremmo a fare festa fino all’alba e voi cantereste tutte le mie canzoni anche senza capirne una parola”. Alla fine di Unknown Harbours Sophia ritorna alle origini, a canzoni amatissime come Bad Man e (Death Comes) So Slow. Il finale è pirotecnico, con Desert Song e i movimenti kung-fu del chitarrista – il distorsore a palla, alla ricerca di suoni inconsueti. Impossibile da descrivere la forza, l’energia esplosiva della performance del chitarrista costretto in uno spazio di 50 cm quadrati. Lo sbattere energetico, un’implosione contagiosa. Le nostre vene pulsano fuori dai nostri corpi, amplificate nell’ondata di rumore, al volume giusto per una volta – il suono non è distorto da un’amplificazione mal giudicata per il volume della sala, come troppo spesso accade. Dopo aver riaccordato le chitarre per l’ennesima volta, le corde stressatissime, i Sophia concludono con River Song: una canzone di una potenza subdola. Ormai non siamo più interessati alle parole, il pubblico del Lexington vuole il volume sempre più alto e le chitarre crescono in intensità, violenza e potenza. Il chitarrista che mi sta di fronte perde infine il controllo della propria chitarra. Il plettro mi vola incontro. Diventerà il mio souvenir della serata, sudato, meritato.

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