Editoriale 273: Scrivere e parlare di musica

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di Rossano Lo Mele

Ho passato l’ultimo mese su e giù per l’Italia. A parlare di musica. Ancora una volta. A parlare di come si può, si potrebbe, sarebbe possibile, chissà, scrivere di musica. A parlare di come si ascolta la musica: pratica apparentemente diffusa, ma piuttosto rara ormai, mi pare. Fa parte del mio mestiere, della mia vita, mi piace, ci sono rimasto sotto, lo faccio con piacere ormai da anni. E da altrettanti anni – che sia in università o a un convegno, che tenga un workshop o incappi in una discussione da birreria – c’è sempre qualcuno che a un certo punto comincia a sciorinare il solito repertorio di parole/etichette. Non penso neanche che lo faccia in malafede. Ma attacca. E l’aria circostante si riempie di espressioni quali: commerciale. Pop. Target. Rock (come valore assoluto e gnoseologico). Vero. Falso. Finto. Furbo. Plastica. Autentico. Inautentico. Studiato a tavolino. Il bouquet è più o meno questo, ampliabile o restringibile a piacimento, ma insomma, avete capito. Con pazienza ogni volta provo a disincrostare i luoghi comuni che foderano molte delle nostre convinzioni legate alla musica. Al suo uso e consumo. Ma poi ogni volta si riparte da capo. Qualcuno fa sì sì con la testa. Ma non è convinto. O forse non sono abbastanza convincente io. Mi distraggo un attimo e c’è già qualcun altro – sempre! – che parla di Retromania e di Simon Reynolds. Che, a mio umile parere, è diventato l’autore più citato, ma meno letto al mondo. Per cui spesso ascolto di tutto, tranne quello che davvero Simon intendeva dire in quel suo saggio. Allora mi vengono in mente queste parole qui sotto:

“La musica indipendente è divisa tra una sorta di astinenza costruttiva (che il pop muoia sulla pista da ballo!) e la convinzione che si tratti semplicemente di un problema d’accesso (trovare spazio per la ‘vera musica’). Poche formazioni indie riescono a voltare completamente le spalle al pop; gran parte della loro energia viene investita nel distanziarsi timidamente da un sound da classifica. La nostra percezione è prigioniera di una serie di opposizioni; la stessa capacità di ascoltare e comprendere questi gruppi è vincolata a ciò che non sono: non ‘piatti’, ‘fiacchi’ e ‘vuoti’, ma ‘ruvidi’, ‘forti’, ‘potenti’ e pertanto ‘reali’ e ‘onesti’. Questi termini non sono valori musicali eterni, bensì un modo per mettere disco e ascoltatore l’uno di fronte all’altro: il disco viene letto, in altre parole, per capire come collocarlo nella ‘lotta’. Questi gruppi – Membranes, Jesus And Mary Chain, Yeah Yeah Noh, New Model Army, Red Lorry Yellow Lorry – si considerano un flusso costante di resistenza – i Big Flame parlano di ‘brutte sottocorrenti noise… un lifting… un nuovo metodo per lavarsi i denti’ – e nient’altro: musica come forza violentemente abrasiva, agente depurativo (dal ‘lusso’, dal sound hi-tech), una guerra d’attrito. Per dirla coi Jesus And Mary Chain: ‘sfasciare lo stato del pop’. Il problema è che quasi tutti questi gruppi non hanno nulla da esprimere salvo un’ipocrita dichiarazione di non complicità con lo stato del pop. Vincolandosi al ruolo di oppositori, non riescono a dotarsi di un senso. L’alternativa che propugnano – l’abrasività, la produzione grezza – è quanto di più consueto e finisce per fondersi in una parete grigia, eludendo la coscienza dell’ascoltatore. È solo un genere diverso di PIATTEZZA: per quanto mi riguarda, c’è molta più forza dirompente in un falsetto di Morrissey. Queste pietre miliari dell’indie sound, copia carbone di una manciata di gruppi davvero innovativi (Siouxsie, Fall, Joy Division, Birthday Party), interpretano alla lettera gli elementi chiave del progressive rock (tecnica, assoli, durata dei brani, mix radiofonici): segni non convenzionali a uso e consumo dei devoti, per dimostrarsi superiori e contrapposti al glam preadolescenziale. Non ci offrono altro che conferme: dov’è il ‘rischio'”?

Sono parole scritte da Simon Reynolds per il “periodico pop” chiamato “Monitor”. E stanno in apertura di Bring the Noise (qui da noi tradotto come Hip-Hop Rock, ISBN, euro 29), dentro un capitolo dal titolo “Che cosa manca?” Uno dei suoi libri migliori e più istruttivi, a parere di chi scrive. Sono parole del 1985. Pausa. Scritte 30 anni fa. Pausa. Che cosa manca? Dov’è il rischio? E che cosa è cambiato?

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