Intervista: Tricky

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Adrian Thaws Press 01 [LEAD IMAGE]

di Luca Minutolo

Artista controverso e snodo fondamentale per la musica degli anni ’90, e non solo, Tricky non necessita certamente di particolari presentazioni o preamboli.

Abbiamo colto la palla al balzo della recente pubblicazione di Adrian Thaws, dodicesimo disco solista del “ragazzo di Knowle West” che porta il suo nome di battesimo (ma per favore, “chiamatemi Tricky” come chiosa dall’altro capo del telefono), per scoprire cosa si cela dietro la sua ultima fatica discografica, e non solo.

Il tuo ultimo disco Adrian Thaws prende il titolo dal tuo vero nome. Probabilmente perché si tratta di una sorta di ritorno alle tue origini, oppure c’è dell’altro dietro questa scelta?

Si assolutamente, ho scelto il mio nome come titolo del mio ultimo disco proprio perché lo considero come una sorta di ritorno alle origini, o meglio, come una dichiarazione d’intenti senza orpelli o maschere, del tipo “questo sono io, Adrian Thaws, una ragazzo di Knowle West che fa musica e si fa chiamare Tricky”.

Anche il mio primo disco Maxinquaye porta il nome di mia madre, e musicalmente è stato uno dei miei dischi più felici e rilassati. Ho sempre infuso nella mia musica ogni mia esperienza di vita, quindi ho scelto il mio nome come titolo perché lo considero come la quadratura di un cerchio che parte da mia madre e si ricongiunge al mio nome. Idealmente, è come se stessi cominciando di nuovo il mio percorso, e questo mi eccita molto.

Si tratta anche del secondo disco che pubblico in maniera del tutto indipendente tramite la mia etichetta False Idols, quindi c’è davvero tutto me stesso.

Così come in tutta la tua carriera, anche per Adrian Thaws le collaborazioni sono una parte fondamentale nella realizzazione del disco. Come le hai scelte in questo caso e cosa ti lega a Francesca Belmonte da due dischi a questa parte?

Per quanto riguarda Francesca (Belmonte, ndr) l’ho scelta per la sua naturalezza. È un’artista vera e non le importa diventare famosa o altre cazzate del genere. Per la sua giovane età è del tutto atipica, perché i suoi coetanei puntano a diventare popstars anche per uno stupido giorno, mentre lei vuole solamente cantare. Lavorare con lei è semplice, c’è un’alchimia che ci lega come se fossimo amici da una vita intera. Potrebbe cantare in un bar sfigato o di fronte a migliaia di persone, lei darebbe sempre il massimo con una naturalezza che mi rapisce. È old school, ama solamente la musica, e basta.

Tornando alla tua etichetta False Idols (nata come costola della K7!), cosa hai imparato gestendo in prima persona ogni aspetto della tua vita artistica?

Da quando ho lasciato la Domino tutti quanti pensano che io abbia un idea negativa verso di loro, oppure una sorta di rancore rivolto alle major in generale.

I miei primi quattro dischi sono stati pubblicati dalla Island insieme a Chris Blackwell, così come la Domino mi ha accompagnato per alcuni anni durante il mio percorso.

Avevo semplicemente bisogno di nuovi stimoli, e da quando ho aperto una mia etichetta personale, ho riacquistato l’energia e l’ispirazione che mi mancava da tempo. Anche le persone più vicine a me e il pubblico percepiscono questa nuova spinta che ho trovato mollando tutti e mettendomi in proprio.

Non ho bisogno di trovarmi incasellato nelle classifiche oppure di preoccuparmi come suonerà il mio prossimo disco. Seguo il mio istinto, sono molto più sereno, e credo che questo esca fuori chiaramente dai miei ultimi due dischi. Non sento più la pressione, devo solamente comporre musica e occuparmi delle mie cose. Tutto ciò, ovviamente, porta via del tempo, devo fermarmi e prendere decisioni che prima delegavo ad altri, ma dona senza dubbio maggiore tranquillità e rilassatezza al mio lavoro.

Hai in previsione di produrre altri artisti tramite la tua etichetta?

Per ora sto supportando solamente il prossimo disco di Francesca Belmonte che uscirà il prossimo gennaio. In questo momento sono molto impegnato. Ci sono molti progetti interessanti che vorrei produrre, ma per adesso non riesco ad occuparmi di altro.

Dal punto di vista della tua carriera ed esperienza, cosa ne pensi della scena musicale odierna?

Non ho mai fatto distinzioni di genere. Non esiste il rock, l’hip hop o l’elettronica. Esiste l’essere individuali, inteso come unici. Ad esempio i Kurt Cobain era un grande artista e i  Nirvana erano una grande band, ma non perché fossero grunge oppure inclini ad un trend musicale di moda al proprio tempo, ma semplicemente perché erano speciali. Hanno creato qualcosa di nuovo ed unico. Qualcosa di “individuale”.

Oggi ci sono band e artisti validi che escono fuori all’ordine del giorno. Grazie alla tecnologia tutti possono essere musicisti, producer, dj, rapper, cantanti. Ma tra tutti questi aspiranti artisti, pochissimi trovano una propria strada da percorrere in maniera autonoma e personale. Come dicevo prima, individuale.

Adrian Thaws Press 13

E secondo te c’è qualcuno di così “individuale” oggi?

Il problema vero è che nessuno fa più dei buoni album. Ci sono moltissimi singoli ottimi, alcuni davvero fantastici, ma da tempo non trovo nessuno che sia riuscito a creare un buon disco nella sua interezza. Per me scrivere e creare musica è un esperienza sulla lunga distanza. Non mi concentro a creare buoni singoli, ma lavoro su un disco nella sua totalità. Ci sono alcuni artisti davvero bravi a creare ottimi brani, oppure pezzi da club orecchiabili e che centrano subito l’obiettivo, ma nessuno è davvero capace a realizzare un disco solido.

Probabilmente perché la strada del singolo è ad uso e consumo fugace e impalpabile come il mezzo che utilizza, e poi è molto più semplice e veloce da realizzare.

Esattamente. Puoi avere un grande singolo, ma allo stesso tempo l’album che lo contiene è una merda. Si tratta pur sempre di business, e un singolo efficace rende sempre di più di un album ben realizzato.

In parole povere, questa è la direzione che l’hip hop mainstream ha intrapreso da qualche anno a questa parte.

Molta della musica hip hop è tramutata in pop per macinare le classifiche. Per un genere che non ha mai avuto nulla di popolare, inteso come leggero e privo di significato, questa è una strada del tutto nuova e in parte sbagliata. L’hip hop è una forma di blues, è uno scontro fatto in musica. In origine non è nato per vendere dischi, ma per trasmettere un messaggio di lotta e sofferenza. Oggi è commerciale, incentrato sul successo e soldi facili. Tutto questo è quanto mai distante dalla vita di strada.

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