Intervista ai New Model Army: “La nostra società è tormentata dal conflitto”

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Photo By Tina Korhonen, 2023. No Use Without Permission. Thank You.
Credits: Tina Korhonen

I New Model Army raccontano il nuovo album Unbroken, il potere delle parole e della musica e i mali della società contemporanea

RUMORE COVER FB NATALE 2023

di Paolo Bertazzoni

Attivi da oltre quarant’anni, i britannici New Model Army hanno costruito la loro carriera sul concetto di contaminazione, eclettismo, ricerca scevra da pregiudizi e vincoli, che li ha portati a toccare generi come punk, post punk, folk, space rock, soul, hard & heavy, classica e sinfonica. Un percorso all’interno del quale l’ibridazione, l’idea di porre elementi sonori più disparati, in costante dialogo fra loro, si è sposata con una forte irrequietezza creativa; una forma di evoluzione/mutazione continua, che li ha spinti ad intendere ogni album in termini di “azione/reazione”, come ci conferma Justin Sullivan, voce, chitarra, armonica e cuore pulsante della band. Un’energia debordante e febbrile da cui sono scaturiti, nel giro di pochi mesi, due lavori diversi in termini di sound, mood, intenzioni. Sinfonia (settembre 2023) documenta infatti l’incontro fra i brani storici dei NMA e la musica sinfonica, le cui nozze sono state celebrate nel luglio del 2022 con lo zampino dell’amica Shir-Ran Ynion (virtuosa del violino legata alla band dal 2014) e dell’Orchestra Sinfonica di Lipsia. Nato invece da tutt’altro tipo di spinta, Unbroken (gennaio 2024) inserisce la band in un solco molto più ruvido e vorticoso, nel quale folk, post punk e hard rock macinano tutto ciò che trovano, guidati dal sodalizio fra basso e poliritmia. Un lavoro forte, immediato, sincero, nel quale Sullivan e soci riflettono su temi legati all’economia, alla comunicazione, all’importanza del viaggio come momento di ricerca e riappropriazione identitaria. Uno spazio di riflessione nel quale si torna spesso sul significato e sul potere della parola, oltre che della musica, che parafrasando Wittengstein ancora oggi definiscono i confini ed i colori del mondo che costruiamo: talvolta armi potentissime con cui aprire varchi e sentieri, talvolta ultime colonne d’Ercole, argine allo straripante sciabordio del proliferare di tutto ciò che è ostile, di leggi di mercato inique, della disumanizzazione che avanza…

Sinfonia lo scorso settembre e Unbroken a fine gennaio: secondo le attuali logiche di mercato, la scelta di pubblicare due album in un lasso di tempo così breve indicherebbe coraggio, follia… o la voglia di creare un cortocircuito nel sistema. Quale delle tre? 

“Logiche di mercato (Justin sorride con aria sospesa fra il divertito ed il contrariato, nda): sono l’ultima cosa di cui ci preoccupiamo, anzi, direi che il concetto non entra nemmeno lontanamente nelle nostre teste! Gli ultimi anni sono stati intensi ed hanno visto sovrapporsi diversi progetti. Sinfonia è stato registrato durante il concerto che abbiamo tenuto al Tempodrom di Berlino, nel luglio di due anni fa. Non pensavamo ci sarebbero voluti quattordici mesi per fargli vedere la luce ma l’intero processo di realizzazione si è rivelato lungo e complesso. Il merito, in realtà, è stato di Shir-Ran (Ynion). È stata lei a dare la spinta propulsiva: ci ha sottoposto idee, ha discusso con noi di ciò che avremmo potuto fare e dal nostro scambio continuo è scaturito tutto. Nel frattempo stavamo comunque lavorando ai brani che poi sono diventati Unbroken… diciamo che si sono intrecciate molte cose negli ultimi tre/quattro anni: abbiamo finalmente iniziato il tour per festeggiare i nostri quarant’anni di attività insieme, che era stato fatto slittare, e ci siamo dedicati anima e corpo ad esso…ma Sinfonia non era ancora stato ultimato! Il mixing finale è stato realizzato da Eike Freese (Deep Purple, Gamma Ray, Stewart Copeland, Alice Cooper, nda) ad Amburgo: che dire di lui? Ha fatto un lavoro eccellente, anche in considerazione della difficoltà del processo. Il mio contributo, in questo senso, è stato marginale, perché non ho le sue competenze: considera che sul palco c’erano ottanta microfoni e la sala era molto rumorosa. Tutto era captato da ogni singolo microfono, cosa che ha reso il mixing molto difficile. Aggiungi a questo l’editing dei filmati ed avrai un’idea della monumentalità dell’impresa…”

Che relazione c’è fra il lavoro che avete fatto per Sinfonia e ciò che avete fatto in Unbroken?

“Penso che il nuovo album sia in parte una reazione a Sinfonia, che ha un sound magniloquente ed è il frutto di un progetto ambizioso. Unbroken ha un mood diverso, un po’ come dire: “Ok, dopo tutto questo, ora facciamo qualcosa di più semplice, immediato: in pratica il contrario!” Penso che questo sia un po’ il nostro trademark: quando finiamo un album, si innesca in noi una reazione spontanea che ci spinge a fare qualcosa di totalmente diverso, addirittura all’opposto. È un processo che ci descrive e ci rappresenta. Penso ad esempio a Winter, che fu registrato in uno studio a Leeds poco più grande di una stanza… e infatti suona come un disco claustrofobico. Una volta finito, abbiamo sentito l’esigenza di fare qualcosa di grande, così siamo andati in Norvegia, in questo studio enorme, strepitoso, su un’isola. Eravamo circondati da montagne stupende, di fronte all’oceano, con la neve sulla spiaggia. Una reazione a Winter, che ha portato a Sinfonia, al quale abbiamo reagito con il sound esplosivo e diretto di Unbroken“.

Focalizzandoci ora su Unbroken: la storia del disco inizia qualche anno fa. Cosa puoi dirci in merito?

“Abbiamo iniziato a lavorarci nell’estate del 2021. Ci abbiamo messo così tanto perché, come ti dicevo, nel frattempo abbiamo organizzato tutto l’impianto di Sinfonia e siamo stati in tour. Ciò che senti nasce dalle nostre demo. Abbiamo buttato giù delle idee, abbiamo scritto e riscritto moltissimo, principalmente per noi stessi e per il nostro personale piacere. Ad un certo punto ci siamo posti una domanda: a chi affidare il mixing? Abbiamo immediatamente pensato a Tchad Blake (Peter Gabriel, Fiona Apple, Elvis Costello, Pearl Jam, fra i tanti). Così lo abbiamo contattato e gli abbiamo fatto sentire le demo, di cui si è immediatamente innamorato! Riteneva fossero energia pura, che infondessero un senso di libertà e vigore. Le canzoni di Unbroken sono le dirette emanazioni di quelle demo e come tali hanno un carattere impulsivo, perché nascono da una particolare energia che qualche volta rischi di perdere nel processo di registrazione, quando provi a rifinire il tutto. Tchad era ipnotizzato dall’energia che le nostre canzoni sprigionavano, così le abbiamo finite e gliele abbiamo consegnate. Si è quindi occupato del mixing… e il resto lo puoi sentire con le tue orecchie”.

Cosa avete cercato di mettere in luce, con le vostre nuove canzoni?

“Moltissimo: il disco è molto eclettico, sia a livello testuale sia a livello sonoro. In parte perché è stato scritto e realizzato in un arco di tempo così lungo. Le idee, i concetti, sono molti e toccano diversi argomenti. Musicalmente anche. L’idea di base era di approdare ad una formula molto più semplice. Da un lato, come dicevo prima, per reazione a Sinfonia, da un altro anche perché dovevamo misurarci con la nuova line up a quattro elementi (dopo l’uscita di Marshall Gill, chitarre e percussioni, nda). Ci siamo chiesti: chi, cosa mettiamo in prima linea? Molte band mettono in prima linea le chitarre, altre la voce… per noi invece, e questo è un principio che ci guida sin dagli esordi, in prima linea devono esserci basso e batteria. In questo senso, Unbroken rappresenta anche un ritorno alle origini: basso, batteria, songwriting. Michael (Dean) è un batterista molto creativo e ne ha dato ampia dimostrazione nel disco. Ha creato dei groove pesanti ma allo stesso tempo coinvolgenti, ossessivi, convulsi e potentissimi”.

Parlando dei brani: perché avete scelto The First Summer After come opening single e anche come opening track?

“Perché l’amo con tutto me stesso. Penso sia una canzone interessante e che abbia tutti gli elementi per essere ‘perfetta’: la batteria sorregge tutto, le linee di basso sono in prima linea, le chitarre sono semplici, è una road trip song con tutti i sacri crismi, non solo perché parla di un viaggio ma perché ne incarna il mood, l’atmosfera. Ci è sembrata la canzone giusta con cui ‘partire'”.

Un’altra canzone che mi ha colpito molto è stata Language, perché mi ha riportato a Wittengstein: i confini del mio mondo sono determinati dai confini del mio linguaggio. Quanto il linguaggio influenza il nostro modo di percepire e costruire il mondo?

“Penso renda bene l’idea. Language è stata scritta nell’arco di due anni ed è per questo che si muove intorno a diverse aree tematiche e non solo. Nel 2021 ha preso forma il riff di basso e batteria che la sorregge: sono rimasto folgorato da quel groove ed ho iniziato a lavorare a testo e melodia. Abbiamo vissuto con la versione embrionale del brano per circa un anno ma avevamo sempre l’impressione che qualcosa non funzionasse. Voglio dire: ci sembrava buona ma avrebbe dovuto essere grandiosa, era questo che meritava di essere!  Avremmo dovuto scrivere qualcosa di più aggressivo e trainante, così l’abbiamo buttata via e abbiamo iniziato tutto da capo. Questa nuova versione si è trasformata, molto lentamente, in Language. Penso alle tre strofe iniziali del brano. Alla prima, che è piuttosto convenzionale, segue una seconda in spoken word, mentre la terza cambia chiave e si spinge in un posto completamente diverso, finché poi la canzone torna indietro, all’idea centrale. Ci è voluto un po’ per assemblarla ed alla fine credo si riveli un’altra road trip song, in un certo senso. Parlo di un viaggio attraverso le idee, al cui centro c’è una riflessione: il modo in cui parliamo, le parole che usiamo, influenzano le nostre azioni. Se usiamo il linguaggio della guerra, se nel nostro quotidiano scegliamo parole ostili, è facile capire dove ci porteranno e cosa ne otterremo”.

Come possiamo liberarci dal “linguaggio della guerra, della menzogna, della paura”?

“Diamo uno sguardo alla società contemporanea, che è molto centrata su ciò che accade in rete. Internet è gestita da algoritmi e ciò che li fa funzionare ‘al meglio’ è una sola cosa: il conflitto. Tutto viene continuamente ingrandito fino a che non si trasforma in scontro, ostilità e questo si riflette sul modo in cui la gente reagisce anche nel quotidiano. Parlare sui social la lingua della pace e della gentilezza, se ci fai caso, non innesca nelle persone una reazione così viscerale ed immediata, non invoglia ‘al click’ in tempi considerati ‘funzionali’ dall’algoritmo. Così l’algoritmo fa sparire parte della conversazione e la riporta all’inizio, alle risposte dalle quali emergono più chiaramente gli elementi di contrasto. Sempre, costantemente. Per questo non dobbiamo essere sorpresi dal fatto che la nostra società sia tormentata dal conflitto: la sua incidenza continua ad essere più significativa perché a conti fatti siamo noi che tendiamo ad enfatizzarla”.

Un altro brano, Reload ci porta nel cuore di una riflessione di tipo politico ed economico: come è possibile trovare una risposta alla rabbia di cui parlate nel testo, che non sia essa stessa una forma ancora più profonda e radicata di collera, se la logica dell’algoritmo ci porta a vedere solo quello?

“In mezzo a tante teorie cospirazioniste, tendiamo a non dare peso ad una cospirazione che è davanti ai nostri occhi da oltre quarant’anni. Parlo del massiccio spostamento di denaro e proprietà dal pubblico al privato. Tutti siamo stati derubati, negli ultimi quarant’anni, e questo trucchetto è alla base del trickle down: liberalizza il mercato, segui le sue leggi e tutti noi ne beneficeremo! Dopo quarant’anni di questa merda, credo sia ormai chiaro quanto questo sia una bugia. Non è vero che tutti ne beneficiamo, nemmeno di striscio! Questa ‘formula’ continua a perpetrarsi ogni giorno, perfino dopo la crisi finanziaria del 2008, quando si poteva pensare che l’aver scoperchiato il vaso di Pandora avrebbe cambiato le cose. Ma continua ad accadere ed è alla base di un sistema corrotto che va a beneficio esclusivo delle persone che hanno già tutto. Siamo in un sistema feudale in cui un’esigua quantità di persone possiede tutto e noi siamo “posseduti” dal sistema. Incredibile quante persone oggi credano ancora in cazzate come: “Libera il mercato, il mercato è il boss” ma il mercato non lo è. Pensa alle origini della democrazia: è nata affinché la gente potesse eleggere i suoi rappresentanti che la proteggessero dal potere. Così purtroppo non era, così, purtroppo, non è. Guardiamo all’Antica Grecia: dalla democrazia all’oligarchia, e dall’oligarchia alla dittatura. Arriva il punto in cui la rivoluzione diventa inevitabile ma poi i corsi e ricorsi storici ci rimettono nello stesso loop: si instaura una democrazia e si rientra nel circolo ‘oligarchia-dittatura-rivoluzione’. Abbiamo consentito alla democrazia di trasformarsi in oligarchia…e siamo sulla strada della dittatura. E i Governi, in tutto questo, dicono di non avere il potere di fermare le leggi di mercato! Cosa? Non ne hanno il potere? Cazzate!”

Un’altra canzone che mi ha colpito molto è If I’m Still Me: cosa puoi dirci a riguardo?

“È un brano autobiografico nel quale rifletto sul fatto che tutti cercano di essere sé stessi ma devono misurarsi con l’idea di compromesso. Alla fine, se ci pensi, siamo scimmie che rispondono a logiche tribali. Ma quanto siamo disposti al compromesso? Cosa siamo disposti a fare per andare d’accordo con gli altri, essere parte di un gruppo, di una società? Musicalmente, anche questo brano deve molto alla batteria di Michael, la melodia è nata in seguito. Ci siamo mossi dapprima sui sentieri del raggae e poi ci siamo catapultati in quella specie di paura tribale incarnata dal ritmo del basso distorto di Ceri (Monger, basso, nda) e siamo approdati a ciò che è la canzone nella sua forma finale. Mi piace molto anche il contributo che apporta il mellotron, che le imprime un’aria da fiera di paese…”

Idumea introduce nel disco una dimensione liturgica, corale, nella quale il ritmo mantiene comunque un ruolo fondamentale. Come siete arrivati a questo connubio?

Idumea è legata alla tradizione del Sacred Harp singing, una forma di musica corale sacra tradizionale che è nata nelle chiese del New England circa duecento anni fa. Ci sono molti testi che contengono antichi inni che si basano sulle armonizzazioni di tre, quattro voci. La gente si riunisce per condividere e cantare questi inni insieme: a volte per motivi religiosi, a volte semplicemente perché ama farlo e spesso anche per un mix di entrambe le cose. Sono stato ad alcuni di questi raduni ed in effetti vi ho incontrato molte persone attratte principalmente dall’aspetto musicale che li caratterizza in quanto eventi. La cosa bella è la natura spontanea, quasi casuale di queste performance collettive, perché spesso i pezzi vengono scelti al momento. Come a dire: “Charlie, quale inno cantiamo oggi? Il 57? Ok!” (ride). Allora tutti aprono il libro a quel particolare inno, intonano una nota comune,  scelgono qualsiasi armonia li faccia sentire a loro agio e cantano con tutto ciò che hanno. Il punto non è essere bravi, non è fare un’esecuzione perfetta, persino non essere necessariamente intonati. Il punto è semplicemente cantare con tutto il cuore che si ha! Tutto ciò dà una vibrazione straordinaria al suono che viene prodotto. Non è la ricerca di una forma elegante, tutt’altro…è molto più simile al punk rock. È puro spirito, veramente: qualcosa di forte, rumoroso! Una volta sono stato ad un raduno a cui era presente una quarantina di persone e sono rimasto semplicemente stupefatto dall’emotività di quel sound! Si articolava su tre diverse armonizzazioni ed era eccezionale. Tornando al brano: avevamo un riff, in realtà un vecchio riff di James Brown al quale Michael ha aggiunto una ritmica folle. Anche Ceri si è messo alla batteria ed ha in seguito aggiunto un contributo alla chitarra acustica e ho pensato: “Forse è questa la canzone giusta!”. Mentre vi stavamo lavorando, una notte, mi sono imbattuto in un inno, su Youtube, che mi ha folgorato. L’ho estrapolato e l’ho inserito nella canzone, giusto per sentire come suonasse. Ho quindi chiesto agli altri cosa ne pensassero e si sono rivelati tutti entusiasti. Abbiamo allora iniziato a pensare in che modo ricrearlo, a partire anche da una riscrittura del testo. Le ipotesi erano tante: abbiamo perfino pensato di togliere il cantato ad un certo punto… ma ci siamo innamorati tutti dell’idea, del connubio fra voci e strumenti, di come la canzone stesse prendendo forma. Così ho scritto alla Second Irish Sacred Heart Convention e ho chiesto loro se potevamo usare l’inno e la risposta è stata: ‘Si, certamente!’. Inutile dire che il pezzo ha guadagnato quella particolare, fortissima vibrazione di cui ti parlavo prima”.

Una vibrazione che unisce musica e senso del sacro in che modo riesce ad agire sul cuore e sul benessere delle persone?

“La musica è sempre esistita ed è linfa per le nostre anime. È terribilmente importante! Come usi la musica per cambiare le cose? Riempiendo l’anima della gente. Questo è parte del cambiamento. Non credo che una canzone di protesta, come ad esempio Reload, che critica la struttura finanziaria che governa il mondo, spinga le persone ad agire nel concreto. Voglio dire: non credo la gente, dopo averla ascoltata, senta l’impulso di riversarsi in massa nelle piazze per poi marciare verso Wall Street. Penso però che possa dare una voce alle persone, che consenta a loro di dire: ‘Ehi, anche io la penso così, anche io mi sento così!’. Tutta questa gente, che condivide pensieri e sentimenti, è la stessa che poi si ritrova magari allo stesso concerto, in compagnia di altrettante persone, con le quali entrano in risonanza profonda, facendo esperienza di una potentissima forma di rinforzo collettivo. Questo è il senso profondo di ciò che può fare la musica”.

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