
All’ex caserma di Cocco di Pescara è andata in scena la ventesima edizione dell’IndieRocket Festival
di Andrea Pomini
Abbiate pazienza, ma c’è anche chi di fronte ai festival gigantisti che vanno per la maggiore e dei loro emuli si chiude a riccio, mentre nella bolla la gente esulta e prenota il giorno stesso, comparando le annate come si fa col vino o con le stagioni della squadra del cuore. Non è una questione di età, perché non ricordo di aver mai smaniato per quel genere di evento, neppure quando avevo meno anni, più entusiasmo e più resistenza fisica. Non è nemmeno paura di perdermi qualcosa di bello per accavallamenti e code, quello lo metterei pure in conto. È proprio l’idea stessa di festival del genere (molto contemporanea, peraltro) a disturbarmi, l’accumulo di nomi in una gara di misure apparentemente senza limiti, la noia mista a nausea che mi prende già prima della fine della lettura del programma, il marasma indistinto in cui anche il nome potenzialmente più atteso finisce per perdersi. Non ce l’ho mai fatta nemmeno con una cosa praticamente su misura come Le Guess Who?, creata evidentemente da gente che si è introdotta nottetempo nella stanza dove tengo i dischi e nelle cartelle del mio computer, figuriamoci.
Ora, non so se Paolo Visci e compagnia farebbero lo stesso se avessero dieci volte il budget che hanno. Magari pomperebbero l’IndieRocket a dismisura, e tutto quello che sto per dire non varrebbe nulla. Ma il loro festival, allo stato delle cose, è per chi scrive innanzitutto un esempio di vivibilità. Due palchi soltanto, una decina scarsa di nomi al giorno, accavallamenti pressoché inesistenti, prezzi più che popolari (15 euro per uno dei tre giorni, 30 euro l’abbonamento), una location perfetta come Pescara per combinare giornata al mare (a proposito: consigliamo l’area marina protetta di Torre del Cerrano, poco più a nord della città) e serata musicale.
Una sostenibilità innanzitutto fisica e umana che si riflette anche nel cartellone, mai monopolizzato da nomi eccessivamente grossi o trascinatori di folle, ma sempre quantomeno interessante, e capace di riservare sorprese e scoperte. Anche in edizioni come questa, nientemeno che la ventesima, andata in scena dal 23 al 25 giugno scorsi nel parco dell’ex caserma Di Cocco. Forse inferiore alla precedente, volendo proprio sommare voti, bonus e malus come al fantacalcio; ma il punto non è quello, come già spiegato. All’IndieRocket si va per stare bene e ascoltare musica fuori dalle rotte più battute, e non è poco.
Della prima giornata resta in mente soprattutto l’energia dei misteriosi statunitensi Daikaiju, dal 2000 una piccola leggenda nel giro surf: non si sa bene chi siano, suonano nascosti da maschere ispirate al teatro kabuki giapponese, si piazzano giù dal palco fra la gente e in pochi secondi alzano un polverone reale e ideale che va ben oltre i canoni del genere. Nella loro furia strumentale c’è spazio pure per parti di basso slappate, per dire, incongrue sulla carta ma a loro modo pertinenti in un tale delirio di potenza e sudore.
Tirano veloci, a tratti velocissimi, anche i canadesi Wine Lips: rumorosi e marginali, con capelli a mullet e voce sommersa nella ferraglia chitarristica, dediti a un suono e a un’estetica più che al songwriting propriamente detto, ma capaci anche di ballate acide e tempi medi. “In mancanza degli Oh Sees, vanno benissimo”: la citazione la lasciamo anonima, ma rende l’idea.
I favoriti del pubblico, che canta varie porzioni di testi e gradisce assai, sono invece senza dubbio i Gazebo Penguins. Tornati a fine 2022 con Quanto dopo una lunga pausa discografica, i quattro emiliani mostrano sicurezza e maturità, e un repertorio ormai profondo che prende le mosse da certo emo-rock classico di scuola nordamericana, complicandone le strutture e portandolo in Italia con i testi. Chi li conosce bene fra i presenti dice di averli visti più in palla altre volte; il sottoscritto era a digiuno, e apprezza riferimenti e carica.
Sul tent stage, intanto, debutta il nutrito gruppetto ugandese targato Hakuna Kulala/Nyege Nyege in programma quest’anno, con il rapper Ecko Bazz accompagnato alle basi da uno dei suoi sodali italiani, il campano Talpah. Lo stile è incalzante e combina hip hop, grime e dancehall con gusto ormai riconoscibile, ma senza capire le parole (a maggior ragione trattandosi di un autore dichiaratamente conscious) diventa ripetitivo più velocemente del previsto.
Chiudono sul main stage i britannici Henge, ed è la prima vera insufficienza “sul mio personalissimo taccuino”. Si dichiarano extraterrestri in realtà, e si vestono sul palco come presunti tali, completi di mantelli ed elmi strani, ma è un espediente che mostra la corda e si fa macchietta in fretta. Vetusto e poco originale nei presupposti, e fino a qui la situazione sarebbe ancora salvabile, ma soprattutto confuso e banale musicalmente, con un misto di rock progressivo appunto spaziale ed elettronica/dance presa col piglio di chi comunque fa rock, privo di groove e di appigli almeno un po’ memorizzabili o coinvolgenti.
Di groove invece, e non solo per il nome, dovrebbe averne in quantità il Beirut Groove Collective, guidato dal supercollezionista e DJ Ernesto Chahoud, ma dei loro rarissimi 45 giri mediorientali, etiopici, sudanesi e quant’altro riusciamo a ballarne sotto la tenda giusto tre o quattro, prima che delle forze dell’ordine particolarmente zelanti dicano stop, sulla carta ben prima dell’orario previsto.

Si balla allora all’inizio della seconda giornata, più rilassati e tramontisti (secondo l’efficace definizione del duo di DJ locali Dannata Balera), con Polimnia e Migra prima e con Voz De La Frontera poi (meglio i primi), in rappresentanza della torinese Salgari Records e del suo intrigante percorso fra tropici, beat elettronici mai troppo veloci e jazz. Si balla ancora, sempre sotto la tenda, con i due veterani locali Pepi e Andrea Sestri e il loro nuovo progetto molto balearico Misteriseparli, un live con macchine, chitarra e voce piuttosto canonico se vogliamo, ma impeccabile, pulsante e sognante il giusto.
Sul main stage, a seguire, Montoya conferma le ottime impressioni suscitate dal suo recentissimo terzo album El Nido: non solo tocco ed eleganza, il produttore colombiano e veneto d’adozione spinge quando serve, ha numeri da pista per il tramonto (appunto) o l’alba, e pare ormai pronto per l’upgrade a un live con voci e musicisti in carne ed ossa.
Al contrario, delude l’impatto live di un nome parecchio atteso come HHY & The Kampala Unit: non male i ritmi da dancehall evoluta e ibridata tipici del giro Nyege Nyege approntati dal produttore portoghese Jonathan Saldanha, ma l’apporto della cantante/trombettista ugandese Florence Lugemwa, stasera, pare davvero poca cosa, e purtroppo sono assenti i due percussionisti che completano la formazione.
Da Kampala arriva pure Catu Diosis, di ritorno dopo l’ottimo DJ set dello scorso anno, stavolta come parte del soundsystem Dope Gal Magic insieme alla capoverdiana Oh Lorena. Buona e giusta l’idea di spingere suoni ad alta energia africani e affini – kuduro, baile funk, dancehall, tarraxinha, gqom – e di farlo calcando sulla partecipazione femminile sopra e sotto il palco, senza troppi freni. Show musicalmente abbastanza abbozzato, ma decisamente efficace e con effetti molto liberatori e festosi, e twerking libero.
Dei londinesi Warmduscher, nati come sfogo di un paio di membri della Fat White Family fra gli altri, ma presto diventati una band stabile con una discografia giunta nel 2022 al quarto album, è difficile dire. Nel bene e nel male. Il loro mix di aggressività punk/garage, sintetizzatori e sprazzi funk/disco suona come la colonna sonora di un party eccentrico e decisamente eccessivo, molto anni 2000 a dirla tutta. Quando la gag va bene, paiono una versione teatrale e sopra le righe degli LCD Soundsystem, e per alcuni potrebbe già bastare. Quando la gag va male paiono una versione teatrale e sopra le righe di se stessi, e senza poter capire le parole si fa dura. O forse è pure meglio così, chissà.
Per fortuna ci pensa Bawrut, in insolita veste live AV con luci dedicate, lui che quando gira lo fa soprattutto come sempre più richiesto e apprezzato DJ. L’occasione è ghiotta dunque, soprattutto per ascoltare il materiale del suo album di debutto In The Middle, del 2022, un concept sul Mediterraneo e su tutto quello che per le sue rotte succede, pensato per l’ascolto più che per la pista. Ma si balla, eccome, lungo quello che è un grande live dance in tutto e per tutto: dinamiche ed esperienza da DJ ma senso del concerto molto presente, accessibilità e coinvolgimento senza scendere mai di livello, e due o tre voci inconfondibili richiamate dagli hard disk: Liberato, Cosmo, Enzo Avitabile nella sempre devastante Pregamell.

L’ultima serata parte come meglio non si potrebbe: la Rhabdomantic Orchestra è ormai una certezza, e prende possesso di un grosso palco all’aperto come fosse quello di un piccolo club. La combinazione di funk, afrobeat, cumbia e psichedelia dei dieci torinesi è tanto elegante quanto fisica e tirata, la cantante colombiana Maria Mallol è del tutto a suo agio nel ruolo di trascinatrice, e tutto gira a puntino. L’unione di stile e movimento caratterizza anche il concerto dei londinesi di origine iraniana e cubana Ariwo, qui senza un percussionista ma capaci di creare comunque con tromba, batteria ed elettronica un’atmosfera di grande fascino, ipnotica e profonda, fra downtempo jazzato e dub. Forse un po’ monotona man mano che il tempo passa, ma senza dubbio interessante.
Sul tent stage, invece, a mettersi tutti quanti alle spalle è l’ugandese Brian Bamanya in arte Afrorack, proprio come il suo ormai semi-leggendario sintetizzatore modulare autocostruito, messo insieme in sei mesi di lavoro utilizzando materiale sia nuovo, trovato nei negozi di componenti informatiche di Kampala, sia riciclato e modificato. “Il primo del continente africano”, dicono i comunicati stampa: se anche non fosse, la sua esibizione pescarese è comunque straordinaria per intensità, creatività ed euforia. Tutti ballano, anche se il ballo non è la mission principale di Bamanya, ma la sua energia è contagiosa, e i suoi pezzi sempre in movimento filano come treni, e come una storia alternativa della acid house e di certa IDM con Kampala sullo sfondo invece di Londra o Chicago. Il dominatore del festival è lui.
Sempre in tenda, l’attesa è tanta per la gloria locale Dsastro, e il Dj e co-produttore dei primi due album di Lou X, capolavori conclamati del rap italiano, non tradisce: il suo è un set house molto tribale e coinvolgente, la mano è quella di sempre, i Liquid Liquid in chiusura la ciliegina sulla torta.
A chiudere il festival sul main stage sono infine i Lalalar, trio di Istanbul giunto al debutto di recente (nel 2022 per la svizzera Bongo Joe), ma composto da musicisti di grande esperienza: il DJ e produttore Kaan Duzarat, il cantante/bassista Ali Güçlü Şimşek e il chitarrista Barlas Tan Özemek, gli ultimi due al lavoro anche sull’ultimo album di Gaye Su Akyol, per restare in tema di musica turca contemporanea e molto originale. Di suono anatolico, tanto per cominciare, ce n’è il giusto e spesso anche meno. Il resto è tiro electro e post-punk molto più berlinese o newyorkese, con Şimşek che va di diritto fra i migliori frontman in giro al momento, punta di diamante maudit di un trio altrimenti esteticamente abbastanza improbabile (un nerd, un culturista e, appunto, un indiavolato Nick Cave in minore).
La chiusura definitiva sotto la tenda, invece, è quella ai piatti dei due DJ di Napoli Segreta, fra i pilastri del boom partenopeo degli ultimi anni con la loro infaticabile opera da diggers. Pompa funk assurda come da previsioni, e a prova di Shazam.
