Non solo indie: il ritorno dell’IndieRocket Festival

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Andrea Pomini ci racconta l’IndieRocket Festival di Pescara, tornato dopo due anni con la diciannovesima edizione

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di Andrea Pomini

Chissà se, fra qualche tempo, ricorderemo l’estate del 2022 come quella dei festival. O se questa improvvisa e velocissima moltiplicazione di eventi musicali (e non), questa esplosione di voglie accumulate e fondi necessari per soddisfarle, sia solo percepita e non reale. Un’impressione comprensibile, dopo due anni di pausa quasi totale.
Fra tante novità, in ogni caso, è bello ritrovare al suo posto con lo spirito di sempre un caposaldo del panorama nazionale come Indie Rocket, giunto quest’anno dal 24 al 26 giugno alla diciannovesima edizione e già pronto – stando alle dichiarazioni ufficiali rilasciate quando ancora nelle orecchie rimbombava l’eccellente live di Go Dugong, ultimo nome in scaletta – per la ventesima. Vent’anni in cui moltissimo è cambiato, e in cui ben presto il nome scelto per la manifestazione pescarese si è dimostrato riduttivo, per come rischia di restringerla a un campo dal quale sì proviene il fondatore e direttore artistico Paolo Visci, ma che i cartelloni messi insieme fin qui smentiscono. Non solo indie rock propriamente detto si è visto e ascoltato al parco dell’ex caserma Di Cocco, insomma. Anzi, se ne è ascoltato proprio poco, giusto in apertura di festival con gli statunitensi Crocodiles. A conti fatti, forse l’esibizione meno interessante di tutte: il loro suono spedito e distorto, con voce sommersa fra le chitarre e linee di basso new wave, non è affatto male in linea di massima, ma al terzo o quarto pezzo uguale ai precedenti mostra la corda. Chi invece tiene incollati sotto il palco è King Khan con i fidi Shrines, banda di navigati filibustieri berlinesi del rock’n’roll che accompagna lo showman canadese/indiano come meglio non si potrebbe. Lui fa il resto, mezzo nudo e senza freni sul solido garage/soul psichedelico della band, scaldando il pubblico a dovere. Con i Ghetto Kumbé, che seguono, si passa decisamente al ballo. Nascosti da maschere di trecce fluorescenti, i colombiani (due percussionisti, un terzo all’elettronica, tutti cantanti) suonano quasi più angolani che colombiani, sistemando la loro house su incalzanti ritmi che sanno di kuduro (e non solo), e impressionando per la compattezza da veterani.

In Africa per davvero ci si va la sera seguente: dopo l’apertura della promettente detroitiana Tammy Lakkis, che canta con piglio r&b su originali costruzioni house underground, tocca infatti ai congolesi Fulu Miziki, fra i trionfatori del festival. Alle prese, come noto, solo con strumenti autocostruiti partendo da materiale recuperato nella spazzatura, e in costumi da Mad Max all’Equatore anch’essi della medesima provenienza, i sei di Kinshasa sono uno spettacolo anche solo da guardare. Poi attaccano, e fra tubi, barattoli, taniche, una batteria che spinge come fosse vera, un basso e una chitarra che fanno altrettanto, ruoli che si scambiano quasi a ogni canzone e le voci di tutti a cantare, esplodono con una versione frenetica e punk – e davvero afro-futurista, qui si può dire – della rumba congolese classica.
Proseguire sarebbe duro per chiunque, e lo è ancora di più per l’altro detroitiano Shigeto, che si presenta sul palco da solo ma in grado di destreggiarsi come un polipo fra macchine e batteria. Peccato che, forse per il passaggio brusco o forse per limiti intrinsechi, la sua fusione di beat spezzati, echi hip hop strumentali, attitudine jazz e melodie elettroniche suoni un po’ troppo fusion e dispersiva nonostante i presupposti e l’abilità innegabile dell’artista. Dritti e veloci viaggiano invece gli Elektro Guzzi, unica band nella storia di Indie Rocket a suonare due volte al festival. I tre viennesi hanno avuto nel 2010 un’idea di quelle che appaiono semplici e quasi ovvie solo quando altri ci arrivano prima di te: suonare techno con chitarra, basso e batteria. Perché amano il genere, ma non sanno usare gli strumenti elettronici coi quali normalmente lo si produce. L’effetto è incredibile, e insieme del tutto credibile: precisione metronomica, orecchio da clubber, potenza da peak time. Un pizzico di metti/togli in più non guasterebbe, per rendere più dinamico un suono quasi sempre molto denso, ma sono dettagli.
La terza e ultima giornata si apre con i torinesi Indianizer, e con la lora ardita commistione di suoni cosmici di varia provenienza, dal rock progressivo alle pulsazioni house, dai poliritmi percussivi al pop più eccentrico, con testi freak/visionari in italiano. Nei brani dell’ultimo album Radio Totem – la conclusiva, epica e lunghissima Tocca a noi ad esempio – l’equilibrio raggiunto è perfetto, un po’ meno nel repertorio inedito, ancora più avventuroso in questo senso e forse bisognoso di ulteriore rodaggio.

Che dire invece dei Crimi, attesissimi dal sottoscritto dopo aver firmato uno dei migliori album del 2021 con Luci e guai? Nonostante l’assenza del chitarrista titolare Cyril Moulas, sostituito per l’occasione dal più spigoloso Maxime Delpierre dei Limousine, l’impatto del quartetto francese è quello che ci si immaginava. Con il carisma e i testi in siciliano (!) del cantante e sassofonista Julien Lesuisse a guidare un’inedita miscela di canzone popolare del sud Italia, raï algerino, funk globale e dub. Assist perfetto per i Tamikrest, fra i primi e più interessanti ad aver affiancato i pionieri Tinariwen nella definizione del cosiddetto desert blues. Genere al quale Ousmane Ag Mossa e soci (a Pescara in formazione a quattro, mezza tuareg e mezza francese) contribuiscono con attitudine più marcatamente elettrica e rock, tanto nella formazione quanto nelle strutture e nei suoni. Sono loro a chiudere il main stage, istantanea perfetta per la vocazione ormai apertamente globale del festival.

La festa continua però sul “Tent stage”, con il citato set di un Go Dugong che pare aver trovato la sua strada più definita ed efficace nelle sonorità dell’ultimo album Meridies, esplorazione elettronica tanto sperimentale quanto coinvolgente di pizzica e tarantella pugliesi, proposta dal vivo con l’aggiunta dei tamburi dello specialista Lorenzo D’Erasmo. Proprio sotto la tenda si sono sentite alcune delle cose più interessanti dei tre giorni, collegate fra loro dalle selezioni dei padroni di casa di Dannata Balera e dei loro ospiti Billy Bogus e Globster. La rappresentanza ugandese della Nyege Nyege, innanzitutto, con il DJ set di Catu Diosis e il caldissimo live di MC Yallah & Debmaster, con le basi taglienti e immediate del secondo a spingere a dovere le rime della prima, flow torrenziale e presenza scenica all’altezza. Oppure il live set di Eva Geist, apprezzata di recente insieme a Donato Dozzy nel progetto Il Quadro Di Troisi, e qui alle prese con un repertorio solista affascinante per come unisce atmosfere e melodie oniriche a pulsazioni synthwave ballabili.
Attendiamo la ventesima edizione dunque, con aspettative adeguate.

Redazione Rumore
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