Editoriale 345: sempre (ir)reperibile

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(Credit: Southern Studios)

Di Rossano Lo Mele

John Loder. Un nome così inglese e così anonimo da assomigliare a un Marco Rossi qualsiasi. John Loder: solo omonimo del celeberrimo attore britannico che imperversò tra cronaca e pellicole negli anni 30/40 del secolo scorso. Quella del “nostro” John Loder è invece tutta un’altra storia. Chi già lo conosce può agevolmente passare oltre. Gli altri invece, magari anagraficamente meno esperti, ci concedano qualche minuto. Morto 15 anni fa per un atroce tumore al cervello che se lo divorò nell’arco di un anno appena, Loder è stato un rivoluzionario del rock e della musica. Per certi versi, e per sommi capi, potremmo definirlo un Brian Eno del punk. 

Nato vicino a Plymouth nel 1946 e spostatosi a Londra per studiare ingegneria, Loder era un grande fan di Jimi Hendrix. Venticinquenne, decise di finanziarsi un innovativo (per l’epoca) sistema di registrazione multitraccia facendo per un po’ il tassista. Al principio degli anni 70 conobbe Jeremy Ratter, con cui fondò il gruppo d’avanguardia Exit. Durò solo due anni, ma fu sufficiente a gettare le basi per una carriera e una lunga amicizia. Ratter si ribattezzò Penny Rimbaud e di lì a poco avrebbe fondato i Crass assieme a Steve Ignorant, una delle leggende della storia del punk mondiale. Nel frattempo Loder aveva individuato un garage nella zona sud di Londra e aveva deciso di aprire lì i Southern Studios. Siamo a metà degli anni 70 e, nonostante il successo e l’ingrandimento del business che sarebbero poi arrivati, il fondatore decide che non sposterà mai da lì la sede delle sue operazioni come fonico e produttore. Già perché l’ondata punk iniziava a esondare e Loder divenne il principale fiancheggiatore dei Crass, il manager in pratica. La band decise di vendere il primo singolo sottocosto (45 penny!?) contro il volere proprio del manager: Loder temeva che così facendo i Crass avrebbero perso soldi (tre penny a copia per l’esattezza) invece di guadagnarne. Ma il successo della band su larga scala e gli ingaggi dal vivo diedero ragione a Penny Rimbaud. Proprio quest’ultimo, nel ricordo di Loder scritto per il “Guardian” subito dopo la sua morte, ricorda come il produttore fosse un uomo che – pur avendo un grande intuito commerciale – anteponeva sempre il bello al grande. Nel 1979 nacque la Crass Records e i Southern Studios divennero il punto di riferimento per tutti gli aspiranti musicisti formatisi col punk. I Crass vendevano un sacco di dischi e nel 1985 Loder inaugurò una catena distributiva per aiutare una serie di gruppi statunitensi in Europa. Mentre nel 1990, 30 anni fa, decise di aprire la filiale discografica dei suoi studi: nacque così la Southern Records. Operando una breve ricognizione dei nomi con cui ha lavorato c’è da rimanere ammutoliti. Chi solo a livello distributivo, chi produttivo, chi discografico, chi manageriale, dalle sua mani sono passati progetti come Shellac, Chumbawamba, Therapy?, Babes In Toyland, Minor Threat, Björk, Silverfish etc. Ma non solo: la Southern divenne il polo distributivo europeo di realtà editoriali come Touch&Go, Constellation, Ipecac, Dischord, Simple Machines, Wax Trax e via dicendo. Loder è stato il silenzioso artefice di un impero indipendente che non ha mai ceduto alle lusinghe del mercato, soprattutto multinazionale. E tutto questo quando non era più un ragazzino, ma un cinquantenne con una visione degna dei tecnocrati di cui sono piene le cronache. Anche la Southern divenne a suo modo una multinazionale, aprendo sedi in Francia e Stati Uniti. Ma la crisi degli anni Zero pian piano ha finito con l’asfissiare anche lei. Il ridimensionamento aziendale non ha però fatto in tempo a compiersi, giacché, come detto, a metà anni Zero Loder è scomparso.

Perché facciamo riemergere questa vicenda dagli archivi, e perché proprio oggi? Perché di recente un articolo del “Chicago Reader” si è soffermato su un pezzo di eredità della Southern Records. Rispondente al nome di Karate. La band che fu di Geoff Farina – amata con tutta probabilità in Italia come in nessun altro paese al mondo: ricordo un’esibizione proprio a Chicago di fronte a una dozzina di persone appena, negli anni d’oro – è come se non esistesse più. Anzi, è come se non fosse mai esistita. E stiamo parlando di un gruppo pionieristico nel mescolare jazz, post rock, emo e slowcore. Non solo non si trova traccia del loro archivio sulle piattaforme digitali (Apple Music a parte), ma i dischi non vengono ristampati da tempo immemore. Così, nell’era dell’accesso totale e della reperibilità h24, se non fosse per qualche fondamentalista su YouTube queste canzoni non avrebbero diritto di domicilio. Non tutta la musica del mondo è disponibile, falso storico. Tanta si perde, speso la migliore. Superfluo domandarsi: ma se Loder – che mise sotto contatto i Karate – fosse ancora vivo, questo decesso sonoro sarebbe accaduto? Non lo sapremo mai: ma resta il sospetto che la morte di chi ha amplificato quella musica si porti nella fossa anche la musica stessa.     

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