Intervista: Three Trapped Tigers

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three trapped tigers

di Elia Alovisi

Adam Betts, il batterista dei Three Trapped Tigers (al centro della foto), fa il professore al BIMM, una scuola di musica a Fulham Broadway, a Londra. È la prima cosa di cui gli chiedo, dato che caso vuole che conosca un suo allievo. A brevissima distanza, Betts sorride e tira un mezzo sospiro: il primo è dato, presumo, dal collegamento che si è creato tra di noi (il che gli permette di rendere tutto molto più informale, dato che tutto questo si svolge a casa sua). Il secondo, a quanto traspare da quello che mi dice, viene dalle frustrazioni dategli dal suo ruolo di insegnante. “Sai, [al BIMM] vogliono fare tutti neo-soul. Si sognano tutti Frank Ocean, ma non sono hanno il minimo interesse a produrre, ad approfondire. Cantano benissimo, ma tutto lì. Pochi miei allievi sono davvero appassionati di un genere”. Nel suo caso, per semplificare, diciamo che stiamo parlando di math rock.

Quello dei TTT è particolarmente psicotico, e prendeva inizialmente a piene mani dalle lezioni noise dei Lightning Bolt così come dalle operazioni a cuore aperto musicali degli ultimi Battles. Guardateli suonare live nel video qua sotto per farvi un’idea. Il loro è un caso emblematico all’interno della scena DIY londinese: adorati in patria ed acclamati per il loro esordio Route One or Die, uscito nel 2011, ci sono stati quattro anni di silenzio. Che sono bastati per far sclerare chiunque apprezzasse un tempo in sette ottavi e un bel po’ di tastiere e distorsioni nella capitale inglese, a quanto è parso dalla quantità di persone che ha riempito il loro concerto di ritorno lo scorso dicembre – a cui è seguito l’annuncio di Silent Earthling, il loro secondo LP, di cui siamo qua a parlare oggi con Betts.

La novità principale è un certo ammorbidimento del suono, anche se solo a tratti – anche se, a quanto potete leggere qua sotto, il loro lavoro con Brian Eno e Karl Hyde degli Underworld non ne è probabilmente la causa. Abbiamo cercato di trovarla assieme, passando per Aphex Twin e Squarepusher, il valore dello studiare musica, il presente e il futuro del metal, e che cosa significhi veramente suonare “pesanti” nel 2016.

Suonerete in Italia con i Deftones a breve, immagino debba essere una bella soddisfazione.

In realtà ci abbiamo già suonato diverse volte assieme! Chino è praticamente un nostro fan. È una persona fantastica, considerato quanto cazzo sia famoso. Non è una persona che ha bisogno di cercare musica nuova da ascoltare. E quanti anni ha, va per i cinquanta? Potrebbe tranquillamente fregarsene, e invece no. Continua a cercare nuovi gruppi, e ha trovato noi su Spotify. Ci ha scritto, dicendoci che gli piacevamo. Noi ci siamo rimasti, ovviamente! Quando poi i Deftones sono venuti nel Regno Unito, quattro anni fa, abbiamo suonato assieme a loro, e poi siamo partiti assieme per un tour europeo. Potenzialmente, esiste anche una versione di una canzone del nuovo album con una linea vocale di Chino. Era molto entusiasta, ma poi non ha fatto a tempo a rimandarci nulla prima che l’album dovesse essere pronto per essere pubblicato. E probabilmente non cambierà niente, per quanto Chino sia una persona affascinante, è anche un po’ un fattone! È una cosa piuttosto ufficiale, ma finché non avrò l’mp3 di fronte non voglio metterci la mano sul fuoco.

Correggimi se sbaglio, ma sul comunicato stampa legato a Silent Earthling c’è scritto che avete collaborato con Brian Eno.

Sì, ma non sull’album! Nel 2012, mentre stavamo ancora scrivendo l’album e avevamo appena pubblicato i Numbers EP come compilation, Tom [Rogerson, tastierista] lo incontrò ad un concerto. Si misero a parlare, Tom gli mandò qualche nostro pezzo, lui venne a vederci dal vivo al Village Underground e lì si presentò a tutti e tre. Appena dopo ci invitò al Punkt Festival in Norvegia. E poi finimmo a fare una jam con lui e Karl Hyde degli Underworld. E fu… figo! [ride]

Direi! Ma la domanda è: tu, comune mortale, come cacchio fai a jammare con Eno e Hyde? 

Esattamente. A livello musicale, non siamo riusciti a fare esattamente quello che avevamo in mente. Quella giornata è andata bene, in fondo. Abbiamo registrato il tutto come demo e ogni tanto lo riascoltiamo, e c’è della roba che potrebbe venire fuori molto, molto bene e potrebbe diventare parte del nostro prossimo album. mette su un brano dal suo pc, e lo lascia suonare durante l’intervista) Ma in fondo sono solo jam. Poi Tom si è messo a lavorare ad un album solista assieme a Brian, che uscirà quest’anno. Quindi non abbiamo collaborato con lui propriamente, è che quando abbiamo dovuto spiegare che cosa ci siamo messi a fare nei cinque anni passati dall’ultimo album all’etichetta la cosa è venuta fuori, e il risultato è “DIO, UN ALBUM DEI TTT CON BRIAN ENO!” (ride).

Avete anche usato le sue oblique strategies, a quanto ho letto.

Sì, ma solo in quell’occasione. E ad ogni modo, siamo persone particolari. Ci sentiamo un po’ più dei lavoratori del suono che degli artisti del suono, sai?

Ci sta! Quindi a livello di composizione non vi basate molto sulle improvvisazioni? 

Quando abbiamo iniziato a suonare assieme, eravamo i Three Trapped Tigers di Tom Rogerson. E anche oggi è lui probabilmente la forza che porta avanti il gruppo, ma all’inizio scriveva proprio tutto lui. Ci insegnava i pezzi, e noi li interpretavamo con i nostri strumenti. Poi, attorno al nostro secondo EP, ci siamo messi a collaborare un po’ di più. Arrivati al terzo, Matt ha iniziato a scrivere più di noi altri due. E lo stesso vale per Route One Or Die. Da allora, nessuna delle nostre canzoni è solo di uno di noi. Jammiamo molto. Proviamo riff, ci rendiamo conto di cosa funziona e cosa no, lo registriamo, lo mettiamo su Ableton e da lì ci rendiamo conto dei momenti migliori di quello che abbiamo suonato. E allora Matt e Tom si mettono lì per settimane a litigare su quali note suonare (ride).

La cosa particolare del vostro suono è il fatto che tutti e tre, oltre a suonare uno strumento, usate in qualche forma l’elettronica – su disco come dal vivo.

Io sono sottissimo di elettronica! Probabilmente gli artisti su cui ci siamo trovati tutti e tre sono stati Aphex Twin e Squarepusher. Tom non ascolta rock, in fondo. Gli piace l’energia, gli piace la musica pesante. Apprezza il classic rock, ma parlando solo di forma-canzone. Io sono cresciuto ascoltando metal, e anche Matt. E a metterci insieme sono stati Aphex e Squarepusher, quando li ascoltai per la prima volta a 16 anni cambiò qualcosa. Fu poi un batterista norvegese che conobbi a scuola, Thomas Strønen dei Food, a introdurmi all’elettronica suonata dal vivo assieme alla batteria. Uso un paio di microfoni per la batteria collegati ad Ableton, da cui poi escono i vari effetti, e ho dei pad dedicati.

In un certo senso Aphex Twin ha senso come introduzione all’elettronica per un metallaro, dato che fa musica decisamente strana, e caotica.

Esattamente. Fu Come to Daddy, la canzone, ad aprirmi gli occhi. Che è davvero metal, cazzo. Ma meglio! (ride) Un altro che ora sta facendo cose incredibili è Oneohtrix Point Never.

Essendo voi una band strumentale, ci sono due possibilità: o i titoli delle vostre canzoni sono molto importanti, o non ve ne frega niente.

Andrei con la seconda! Su questo album, soprattutto. L’unico titolo che ha davvero senso è Rainbow Road, dato che suona davvero come Mario Kart. Sai, abbiamo fatto i Numbers EP chiamando le canzoni con un semplice numero perché non volevamo trovarci in situazioni tipo, “Il prossimo pezzo si intitola… A Sad Walk.” O, “Questa è… Quiet in the Graveyard!” Non vogliamo preparare una scena per i nostri pezzi, non ha senso se si parla di musica strumentale.

Penso che il tuo ragionamento si applichi molto bene al post-rock. Ormai certi titoli, certe parole sono davvero trite e ritrite.

Sì! Tipo, First Breath After Coma è un titolo fantastico. Però, insomma. Adoro tutta quella roba, ma se devi fondare un gruppo post-rock cerca di fare qualcosa di diverso. Ad ogni modo, i nostri titoli sono astratti, li scegliamo praticamente solo per il suono delle parole che li compongono. La stessa cosa vale per Aphex, molti dei suoi titoli sono solo lettere a caso, impronunciabili. Ed è figa come cosa, ma poi diventa un po’ difficile identificare i pezzi. “Come si chiama quella?” “Bdbeyufw” (ride). Ma in fondo faremmo benissimo a meno dei titoli, se potessimo. Avevamo discusso abbastanza per Route One Or Die, c’era a chi piaceva e a chi no. Ma poi ci siamo resi conto che non importava nulla che significato avesse. Un titolo è solo un distintivo. E la gente non ci pensa poi molto. Sai, non mi sono chiesto che cosa volesse dire Vulgar Display of Power [dei Pantera, nda] per un sacco di anni! “Hey, che album!”, pensi, e poi all’improvviso ti chiedi, “Ma non suona un po’ razzista?” (ride).

Penso che per suonare in una band math rock strumentale sia fondamentale essere molto aperti in fatto ad ascolti, no? Per evitare di chiudersi in una nicchia e restarci.

Le canzoni sono la nostra musica preferita. Anche se siamo una band strumentale, quello che ci piace è mantenere una forma-canzone. Perché è forse il solo aspetto che non ha nulla a che fare con la tecnica. È solo questione di espressione. E vado molto orgoglioso di come siamo riusciti a scrivere canzoni su Silent Earthling, per quanto astratte siano.

Ho notato che tutte le canzoni del disco sono attorno ai cinque minuti. È il minutaggio con cui vi trovate meglio, o è stato un caso?

Probabilmente è il minimo a cui riusciamo ad arrivare quando accorciamo i nostri pezzi! Tom ha sempre provato a tagliare via parti ed accorciare il più possibile, ha sempre il sogno della canzone-da-tre-minuti. Mentre Matt vorrebbe far andare avanti i loop per sempre. E questo crea una tensione molto divertente. Chessò, i Battles sono molto bravi a prendere un’idea e allungarla il più possibile, il che è un approccio molto comune anche nel post-rock. Oppure, pensa al primo M83: ascolti un pezzo, e poi ecco una sequenza di accordi da quindici minuti! Quando ascolti una cosa simile da giovane lo consideri un gesto audace, ma invecchiando ti viene da pensare che forse sia solo la scelta più facile. Ti devi guadagnare la possibilità di farlo. Se vuoi davvero ripetere e ripetere un loop, devi potertelo permettere avendo scritto bene quello che viene prima e quello che viene dopo. Io sono il primo che si prende bene a suonare un loop magnifico. Tipo alla fine di Hemisphere, la melodia tutta gloriosa con cui si conclude: potrei suonarla per ore, e quando la proviamo la ripetiamo anche per un quarto d’ora. Ma su disco è un’altra cosa.

Rispondimi da insegnante di batteria: pensi che le scuole di musica abbiano un ruolo nel formare musicisti e scene DIY? 

Penso che le scuole di musica siano fantastiche per incontrare altri musicisti. Ora, qualsiasi genere suoni, tra queste quelle con cui ti troverai davvero bene a suonare sono circa il 10%, anche il 5%, il 3%. Almeno, la mia esperienza è stata questa, e se non fossi andato a una scuola di musica trasferendomi a Londra sarebbe stato molto più difficile far partire un gruppo. Ho incontrato Matt all’università, e Tom tramite amici che facevano comunque la mia università. Il BIMM ha 1000 studenti, magari 30 saranno presi bene con il math rock, 100 saranno metallari e 900 fanno… neo-soul! E tutti e 1000 sono presi bene con i Toto! (ride) Il che è un rischio, certe band del passato dovrebbero essere ricordate e onorate per quello che hanno fatto e per le loro capacità musicali. Jeff Porcaro è uno dei batteristi migliori della storia, ma se lo metti su un piedistallo più alto rispetto a qualsiasi cosa stia accadendo oggi… è pericoloso. È vero, ti rendi conto dell’impatto di un musicista solo con il passare del tempo. Ma se studi musica è facile guardarsi solo indietro, e diventare molto conservatori, e molto velocemente.

Il che però si può applicare anche al math rock – ci sono band che hanno sviluppato un suono definito, come magari i TTNG o voi, e molte band più giovani che davvero ci assomigliano molto.

Non c’è niente di malizioso dietro, ma è sicuramente un peccato. Ci sono due tipi di capacità: una, quella che noi abbiamo imparato all’università, sta nel saper analizzare quello che stai suonando. Io non sono un batterista jazz, ma se studi jazz ti puoi dire, “quali tòpoi sto suonando e mi fanno sembrare innaturale?” Altrimenti prendi in mano una chitarra, fai due accordi e ti dici, “Wow, spacco!” (ride).

In fondo è solo questione di decostruirli, questi tòpoi, no? 

Assolutamente. Ed è anche questione di scegliere i tuoi preferiti. Non penso ci siano molti gruppi che assomigliano a noi, ma suoniamo alcune cose che puoi risentire da altre parti. Senza però esserne definiti. Tipo, adoriamo i Meshuggah. E ci sono diversi loro elementi in quello che facciamo, per quanto mi riguarda il modo in cui uso il crash. Ma se gli rendi omaggio con parsimonia, cambiando di brano in brano… e può essere molto utile, quando ti trovi a scrivere un brano. “Come proseguiamo ora?” “Perché non facciamo una parte alla Meshuggah?” E via! Un altro che nominiamo spessissimo quando componiamo è, ancora, Squarepusher.

Che cosa ne pensi di Damogen Furies [il suo ultimo album, nda]?

Sì! Ho pensato fosse molto bello, ma poi… sai, ho appena iniziato a suonare nella sua band. Siamo solo all’inizio, ed è fantastico, non avrei mai pensato di trovarmi in una situazione simile. Ma stiamo preparando e provando diversi suoi brani vecchi, più che altro da Do You Know Squarepusher?, e sarà che erano gli album che ascoltavo quando avevo 18 anni, e… CAZZO! NON CREDEVO LA MUSICA POTESSE ESSERE COSÌ FIGA! E strana. E perfetta. Resta che il processo che ha usato per Damogen Furies è assurdo, è tutto registrato in una volta sola. La batteria è programmata, ma tutto il resto è suonato dal vivo. Il che è importantissimo, un passo in avanti colossale.

Parlando di innovazione, e dati i tuoi ascolti passati: quale pensi sarà il futuro del metal? 

Il metal è in uno stato più conservativo che mai. E la cosa mi manda in bestia. Cercano tutti di essere sempre più pesanti, ma cosa c’è di davvero pesante in qualcosa che suona totalmente ortodosso? La maggior parte del metal non è “pesante”. Non puzza. C’è chi ci riesce, tipo i Pig Destroyer. I Lightning Bolt non fanno metal, ma sono più pesanti di chiunque altro. I Liturgy stanno facendo qualcosa di fantastico, innovativo e audace. E ci sono un bel po’ di band fighe in giro, ma com’è possibile che Far Beyond Driven [dei Pantera, nda] sia ancora uno dei migliori album metal di sempre quando è uscito 22 anni fa? Ragazzi, cazzo! Dai! Ho organizzato una jam metal in università, ho messo su un pezzo dei Pig Destroyer, e tra i commenti che mi sono arrivati c’è stato, “È un po’ inquietante.” Che cosa pensate la gente pensò quando sentì per la prima volta i Black Sabbath negli anni 70? Era terrificante, cazzo! Deve esserlo! Devi sentirti genuinamente innervosito ascoltando qualcosa del genere. E non farmi parlare del djent. C’è un elemento di orrore nel modo in cui suonano i Meshuggah. È musica deformante. È espressione. Proseguendo su quella scia, però, ti trovi a usare determinate note non per esprimere un’emozione, ma per scimmiottare il loro suono.

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