Intervista: Olly Riva

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olly riva

di Luca Minutolo

Probabilmente ai più, il nesso tra rhythm ‘n’ blues e attitudine punk risulta del tutto sconosciuto. Senza scavalcare i nostri confini, la risposta più ovvia arriva da Oliviero Riva, meglio conosciuto come Olly, voce e frontman dei paladini ska punk Shandon che tennero alta la tensione nella scena italiana durante gli anni novanta. Passato negli anni duemila attraverso la band The Fire, oggi Olly è un insegnante di canto piuttosto atipico. Al bando le scale vertiginose e i boriosi pentagrammi, è tramite la passione e la schiettezza mutuata dal punk che il Nostro mette a servizio le proprie capacità vocali per tirare fuori dai suoi allievi la giusta attitudine, in modo da riuscire a reggere un palco senza intoppi. Oltre alla professione diversamente accademica, Olly oggi riscopre una vecchia passione infusa da suo padre in età infantile. Ovvero la sensibilità del rhythm ‘n’ blues e del soul di vecchia scuola. Dunque imbastisce il progetto Soulrockets, un combo di musicisti che ruotano attorno le capacità vocali di Olly, costruendo siparietti vintage dal gusto irresistibile. Dopo una svariata serie di date su e giù per lo stivale rodando la propria scrittura, il progetto arriva oggi a confezionare un vero e proprio disco dal gusto retrò mai troppo calligrafico. Mono2Stereo nasce da una passione sincera per la raffinatezza soul, invocando spettri mai sopiti di una tradizione immune dallo scorrere del tempo. Del progetto, di insegnamento lontano da congetture, della figura fondamentale di Little Tony come snodo per la tradizione della musica leggera italiana e di malsana competitività odierna tra band emergenti abbiamo discusso liberamente con Olly nell’intervista che trovate qui di seguito.

Non sei nuovo dell’ambiente soul e rhythm ‘n’ blues. In passato hai già realizzato alcuni dischi e brani con i Goodfellas, mentre con i Soulrockets sei arrivato solo adesso a pubblicare un vero e proprio disco, dopo svariati live e un piccolo 7″. Cosa ti ha spinto a formare a suo tempo i Soulrockets?

Con i Goodfellas ho realizzato un disco swing ispirato al periodo anni 40 e 50, ed era prevalentemente composto da cover arrangiate in una chiave vintage. Sono appassionato di musica d’altri tempi fin da quando ero bambino. Ho iniziato ad ascoltare prevalentemente Wilson Pickett, Spencer Davis Group, Etta James e via dicendo. Tutti questi erano gli autori dei dischi che mio padre aveva in casa quando ero piccolo. Poi negli anni mi sono appassionato allo swing e al rockabilly, però il rhythm ‘n’ blues è rimasto per me una sorta di mistico comune denominatore. Quando cresci poi ascolti altro. Ricordo che mia cugina mi fece ascoltare gli AC/DC quando avevo 12 anni e da lì poi si è disintegrato tutto il mio interesse per Tina Turner. (ride, nda)

Beh, quindi gli AC/DC hanno fatto a brandelli i tuoi ascolti.

Sì, da quel momento in poi sono cambiati i miei interessi musicali. Di conseguenza sono arrivati i Bad Religion e così via. Quattro anni fa mi è capitato di rispolverare i vecchi dischi di mio padre. Il primo pensiero che mi è saltato in mente è stato “Cazzo quanto è figa questa roba!”. Mi sono riscoperto amante di un genere all’apparenza lontano e soprattutto di avere ancora nel DNA quel linguaggio, come se mi fosse stato insegnato da qualcuno quando ero bambino. C’è chi cresce con Cristina D’Avena, io sono cresciuto con Wilson Pickett! (ride, nda). Questa storia ha davvero influenzato il progetto Soulrockets.

Quindi possiamo dire che si tratta di un progetto tutto tuo?

In realtà non si tratta di una vera e propria band con membri fissi. Ho trovato musicisti e amici che suonano già in altre band e sono venuti tutti a darmi una mano durante le registrazioni del disco. Poi di conseguenza molti hanno dato la loro disponibilità anche per suonare dal vivo in giro per l’Italia.  In realtà ci sono più di venti persone che ruotano attorno ai Soulrockets. Cinque batteristi, due bassisti, tre tastieristi, quattro fiati e così via. Una roba abbastanza incasinata da organizzare, ma che mi diverte tantissimo.

Fai tutto da solo anche per quanto riguarda la scrittura dei brani?

Sì, scrivo da solo e poi mi sono ritrovato a passare le parti da suonare ai musicisti o in alcuni casi lasciandomi consigliare al livello stilistico su quali direzioni far prendere ai brani. Suono molti strumenti, ma per fiati e tastiere mi sono lasciato consigliare dai miei compagni. Anche se col passare del tempo stiamo diventando sempre di più una vera e propria entità e alcuni musicisti hanno già cominciato a scrivere nuovi brani per la band. Ne sono felicissimo perché significa che il progetto non si è fermato alla mia sola visione, ma sta pian piano coinvolgendo attivamente tutti quelli che ne fanno parte. Sono davvero contento di questa evoluzione.

Sei conosciuto quasi da tutti come frontman degli Shandon e dei Fire. C’è secondo te un filo conduttore che unisce la velocità e schiettezza del punk con la raffinatezza e passione del rhythm ‘n’ blues? All’apparenza si tratta di due mondi musicali paralleli.

Credo che in realtà la differenza si possa trovare solamente nelle sonorità o nella storia che hanno avuto questi due filoni musicali. Quando una cosa parte da me, ovvero che rispecchia il mio timbro, il mio stile e il mio modo di fare, il campo comune ricade nelle mie pippe mentali sulla musica, su come si dovrebbe cantare. Tutto questo diventa il sound che esce fuori dalle mie produzioni, un denominatore stilistico. Ovviamente ci sono generi e regole musicali da rispettare. Vivendo la musica anche da produttore, entro sempre nel dettaglio per quanto riguarda l’arrangiamento e il suono. Quando un suono è brutto, mi piace. Quando invece è perfetto e pulito, spesso per me non ha nulla da trasmettere. Quindi sono alla continua ricerca di suoni particolari. Sia nel punk che nel rhythm ‘n’ blues la perfezione non è assolutamente amica della musica. Quindi le tendenze più affini alla mia indole musicale, così come in tutti i miei lavori, sono accomunate dal fatto di non essere plastiche o troppo pulite. Ecco, probabilmente un campo comune è proprio questo.

Essendo anche insegnante di canto, la tua è una visione musicale non proprio accademica.

Assolutamente. Infatti non mi sento per nulla un insegnante di canto. La mia premessa più grande è che non ho mai preso lezioni in tutta la mia vita.

Quindi sei un vero e proprio autodidatta.

Beh sì, a parte la scuola dell’obbligo, tutto il resto l’ho imparato da solo (ride, nda). Giocare con la musica è nella mia indole, scoprendo pian piano ingredienti nuovi per potermi sentire continuamente entusiasta e motivato. Chi studia uno strumento fino a diventarne esperto, purtroppo o per fortuna, deve per forza fare i conti con quel mondo didattico che appartiene ad un’altra maniera di approcciarsi alla materia musicale. Scale, minori, maggiori, bemolle. Io ho sempre visto la musica a colori e non a pallini su un pentagramma. Quello che mi piace davvero è che quando qualcuno prende lezioni da me, non viene per studiare le scale o imparare a cantare. Chi studia con me, lo fa per diventare un cantante, che è ben diverso. Non mi interessa che un cantante sia intonato. Mi interessa che un cantante abbia qualcosa da dare e da trasmettere. Il mio insegnamento è più legato alle esperienze personali piuttosto che ad uno studio approfondito della teoria. Ad esempio durante i tour in cui ho sfasciato di più le mie corde vocali, ho dovuto imparare a dosare bene le forze per arrivare a completare tutte le date senza perdere la voce. Oppure se si vuole registrare in studio, insegno la giusta respirazione o fornisco i mezzi per non disperdere tutta l’emotività vocale all’interno di uno studio. È tutta una questione psicologica e chimica, al contrario di una visione didascalica e classica. Per me il canto è all’80% psicologico e 20% tecnico. Diciamo che non me ne frega un cazzo di insegnare come si tiene una nota, ecco. Sono un insegnante punk, per farla breve.

Per quanto riguarda le due cover presenti su Mono2Stereo, come è ricaduta la scelta su Quando vedrai la mia ragazza di Little Tony e It’s Your Voodoo Working di Charles Sheffield?

Sono dell’idea che se si suona in una cover band, è giusto fare tutte le pillole più famose per un pubblico che non ne sa nulla e vuole semplicemente sentire i successi più grandi di un determinato genere. Invece nei Soulrockets ci sono musicisti soul e rhythm n’ blues che gravitano nella scena da vent’anni. I nostri gusti si sono uniformati, e credo che nella musica bisogna essere molto personali e scrivere solamente se si ha qualcosa da dire. Poi se scegli di realizzare una cover, deve sposarsi con ciò che suoni e con gli altri brani all’interno di un disco o del genere che segui. Charlie Sheffield non è assolutamente un cantante famoso. Ha realizzato una manciata di canzoni uscite col buco, tra cui questa It’s Your Voodoo Working per poi sparire nel nulla. Se si cerca qualcosa su di lui in rete si trovano pochissime infoprmazioni. Fin dalla prima volta in cui ho ascoltato questa canzone, l’ho avvertita subito come se fosse mia. Sia vocalmente che dal punto di vista del sound. Invece Little Tony è stato scelto per puro caso. Sono un grande appassionato del beat italiano e della storia della musica leggera italiana degli anni ’50 e ’60. Quando vedrai la mia ragazza non è sicuramente tra le sue hit più famose di Little Tony, ma ascoltandola casualmente, me ne sono innamorato subito perché ricordavo di conoscerla, ma non sapevo fosse sua. Quest’uomo ha fatto delle robe assolutamente grandiose rispetto alla tradizione più blasonata del nostro paese, ma viene ricordato quasi sempre per Cuore matto. Lui era famosissimo in Inghilterra sul finire degli anni ’50 come cantante rockabilly. Partecipava anche a trasmissioni televisive cantando in inglese, pur conoscendo pochissimo la lingua. A quei tempi aveva un trio con i suoi fratelli, che diventò famoso solo dopo essersi trasferiti in Inghilterra. Poi in Italia si accorsero che questo ragazzo stava facendo successo e allora cercarono di riportarlo in Italia, adattandolo alla musica leggera nostrana. Gli stava un po’ stretta l’icona del bel canto italiano. Uno dei suoi primi esperimenti in italiano furono canzoni come quella che ho scelto. Una persona assolutamente da omaggiare, che ha fatto scelte coraggiose ancor prima di Celentano o Bobby Solo. Ai miei occhi è assolutamente un personaggio da celebrare e non da ridicolizzare, come invece molti fanno.

Anche tu hai quasi sempre preferito scrivere e cantare in inglese i tuoi brani. Solita boriosa questione, ma quali benefici hai tratto dall’utilizzo della lingua inglese?

Sarà una cosa stupida, ma si tratta semplicemente di una questione fonetica. In italiano ci sono un sacco di limiti stilistici dovuti alle vocali aperte, mediose, che in pentatonica e in scale soul e blues tutto si riduce ad un linguaggio che sembra stupido e vuoto. Mentre in inglese diventa tutto magicamente più profondo. In italiano ho provato molte volte. Alcune cose sono uscite bene, altre meno. Ci sono stati secondo me alcuni cantanti che in italiano sono riusciti a combinare questi due aspetti, come ad esempio Fred Buscaglione e Carosone. Due maestri che sono riusciti a rendere alla perfezione il jazz e il blues in lingua italiana. Tutti gli altri hanno fatto gran fatica. Moltissimi l’hanno buttata sul cantautorato perché l’italiano vuole contenuti e frasi ad effetto. Per me invece è fondamentale la musicalità del linguaggio. So che si tratta di un limite, ma non posso farne a meno. Volendo fare un paragone pratico, è come scegliere tra il fare l’amore con una donna bella oppure una brutta. Io preferisco fare l’amore con una donna bella, piuttosto che scegliere la brutta perché è più facile da vendere. Mi prendo una donna bella per goderne da solo (ride, nda).

Cambiando argomento, la tua carriera viaggia sempre di pari passo con l’Ammonia Records. Come si è sviluppata l’etichetta in tutti questi anni?

Abbiamo aperto la Ammonia Records io e Kappa come pretesto per far uscire i dischi degli Shandon, facendo finta che ci fosse un etichetta alle nostre spalle. My Ammonia era infatti una canzone degli Shandon. Col tempo Kappa l’ha portata a diventare una vera e propria etichetta da solo, perché io non riuscivo più a trovare il tempo per lavorarci su. Lui ha voluto portare comunque avanti l’etichetta, e quindi è del tutto naturale che le mie produzioni escano con la Ammonia.

In sostanza graviti nella scena italiana da più di 20 anni. Una lunga esperienza che attraversa alti e bassi di un mondo sempre più frammentato e confuso. Cosa è cambiato dal tuo punto di vista in tutti questi anni e in quale situazione ci troviamo adesso?

Non voglio fare il demagogo di sto cazzo, perché non lo sono. Credo l’aridità di questo momento sia dovuta dall’invasione di internet. La rete ha allo stesso tempo dato e tolto tantissimo all’esperienza musicale, in tutti i suoi aspetti. Ha fornito l’opportunità a chiunque di trovare quello che voleva, come la figura dell’appassionato di dischi che passava mesi all’interno dei negozi o sui cataloghi per scovare le chicche migliori. Questo ad esempio è stato totalmente demolito dalla velocità della rete, abbattendo il bello dell’attesa e della curiosità. Tutto il romanticismo che ruota attorno alla musica, agli artisti e ai personaggi è finito in un calderone da cui puoi attingere qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Paradossalmente, di fronte a tutto questo si arriva ad un punto in cui non sai più cosa mangiare. È un tavolo con tutti i sapori del mondo in cui non sai più cosa scegliere. La gente non si affeziona più alla musica, agli artisti e alle canzoni. Gli piace tutto e niente. Si è tutto assestato ad una normalità paurosa. Questa aridità porta la gente a non andare più ai concerti. Non c’è più collaborazione tra i musicisti oppure un circuito in cui ci si spalleggia tra colleghi. Ad esempio c’è Pino Scotto, di cui produco i dischi e a cui sono legato da una grande amicizia, che a sessantasei anni mi chiama ancora per sapere come sto, oppure per dirmi “Cazzo ho suonato in un locale, una situazione bellissima. Tieni, ecco il numero di telefono”. Questo non succede più altrove. Mi sembra quasi un atteggiamento d’altri tempi. Quello che manca adesso è un senso di appartenenza tra musicisti, perché tutti pensano al proprio orticello, al loro profilo Facebook, alla propria carriera, cercando sempre di sputare nel piatto di chi si trovano al proprio fianco. Una sorta di “morte tua, vita mia” che ci sta allontanando dall’umanità della musica.

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