Londra: We Have An Anchor, o, Guy Picciotto e i GY!BE e i Dirty Three sullo stesso palco

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we have an anchor

 

di Elia Alovisi

La sera del 31 marzo, al Barbican Centre, è successa una cosa abbastanza unica. Sullo stesso palco, per un’ora e mezza, ci sono stati Guy Picciotto (che non ha bisogno di presentazioni, ma insomma: Rites of Spring e Fugazi), Efrim Menuck e Sophie Trudeau dei Godspeed You! Black Emperor/A Silver Mt. Zion e Jim White (batterista dei Dirty Three, tra le tante cose). Assieme a loro, la violinista Jessica Moss (degli A Silver Mt. Zion), T. Griffin dei Quavers e Mira Billotte (in arte White Magic). Questo per eseguire dal vivo la colonna sonora di We Have An Anchor, il nuovo film del prolifico regista Jem Cohen (qua una sua bellissima intervista con il Guardian). Cohen ha vissuto a Kabul, a Washington D.C., e ora si è stabilito a NYC. Il periodo passato a DC gli permise di conoscerne la scena punk, e quindi di entrare in contatto con Picciotto e i Fugazi. Su di loro, Cohen ha girato un documentario: Instrument, girato in 11 anni e pubblicato nel 1999.

We Have An Anchor, il suo nuovo film, parla di Cape Breton – un’isola della Nova Scotia, nel Canada del nord. “Durante gli ultimi dieci anni sono andato in Nova Scotia registrando frammenti di filmati, suoni e, con il passare del tempo, immagini digitali. Spesso lavoro partendo da un archivio ampio, raccogliendo materiale senza nemmeno sapere se ho un progetto in testa o quale forma potrà eventualmente prendere”. Cohen descrive Cape Breton come “una rivelazione”, “pieno di paradossi”, un luogo “elusivo e problematico”. La sua vuole essere “un’indagine senza risposte”, in cui “nulla è definitivo”. L’immagine che esce dal film è coerente con le sue parole. Lunghe sequenze paesaggistiche si alternano a immagini di vita naturale – gli uccelli i principali protagonisti, appollaiati su linee telefoniche o a giocare in uno stormo, filmato in modo tale da renderlo quasi uno sciame d’insetti. Le parole sono pochissime, soprattutto quelle pronunciate. Qualche breve intervista con gente del luogo dà un tono semplice ma tormentato allo spirito di Cape Breton. Un ragazzo parla di alcuni incidenti di pesca che l’hanno quasi ucciso. Un uomo che ha deciso di andarsene discute il modo in cui gli abitanti di Cape Breton non considereranno mai una persona che si trasferisce nella loro terra uno di loro. Un anziano parla di un cane, conosciuto per caso durante una notte all’addiaccio, che è dovuto poi essere ucciso dopo che il padrone decise di trasferirsi e non fidarsi ad affidarlo a nessuno. “This is the end of the story”, dice, semplicemente. Questi interventi non possono non ricordare i toccanti monologhi che i GY!BE hanno inserito nei loro album – la spiaggia di Coney Island su cui più nessuno dorme di Sleep, il mondo arancione e post-apocalittico di The Dead Flag Blues. Frammenti che prendono significato all’interno di un contesto musicale (e, in questo caso, visivo) che li ingloba e gli dà potenza comunicativa.

Sono diverse, invece, le parole scritte: all’interno del film compaiono frammenti di libri e poesie scritti da gente del luogo. Il poeta Don Domanski è presente con due brani, tratti da Fata Morgana e Before the Plague and the Breaking of Fingers (qua sotto, tradotta). Le sue sono parole interne, un ragionamento sentimentale su come Cape Breton renda un individuo:

Prima della peste e delle dita spezzate

…Tu sei come me
E vuoi una linea retta
Che attraversi ogni cosa
Ma qua non ce ne sono
Non c’è alcun sentiero che porti da A a B
Non ci sono né A né B

Non ti sei perso
Questa è la terra
Non sei un essere umano
Ma una volpe, o un coniglio

La tua vita dietro a una scrivania
Era un’illusione
La città splendente, una pazzia
Causata dalla fatica

La poesia di Elizabeth Bishop, invece, si concentra sulla natura – ugualmente ostile e annullante. Dalla sua Cape Breton:

La strada sembra essere abbandonata.
Qualsiasi significato avesse il paesaggio, è come se fosse stato abbandonato
A meno che la strada non lo stia trattenendo, all’interno,
Lì dove non possiamo vedere,
Dove si dice ci siano laghi profondi,
E sentieri in disuso e montagne di pietra
E miglia di foresta bruciata, in piedi tra grigi graffi
Come le ammirabili scritture incise da pietre su altre pietre–
E quest regioni hanno poco da dire di sé stesse
Se non in migliaia di leggere canzoni di passero che fluttuano verso l’alto
Liberamente, spassionatamente, attraverso la foschia, e rendendosi maglia
In sottili reti da pesca strappate, rese marroni dall’umido.

La colonna sonora riprende i toni descritti dalle immagini, l’alternanza tra una natura soverchiante e splendida e zone industriali in disuso – un’industria del carbone ormai inutile, una pesca solo l’ombra di quello che era un tempo. Parcheggi di fast food e cemento a contrastare con infinite distese d’acqua e arbusti sferzati dal vento. La batteria è molto spesso un tappeto di suono più che un ritmo, su cui le chitarre di Menuck e Picciotto vagano libere, così come i violini della Trudeau e della Moss. A tratti, però, una figura di percussioni appare all’improvviso portandosi dietro tutti gli altri strumenti, crescendo in intensità e violenza. A metà tra sublime e terreno, un po’ paradisiaci un po’ infernali – così come Cape Breton.

Jem Cohen: We Have An Anchor from EMPAC @ Rensselaer on Vimeo.

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