Editoriale 276: Che ci vado a fare a Londra?

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editorialegennaio2015

Buon anno a tutti. Abbiamo da poco concluso e condiviso i nostri festeggiamenti, fine e inizi. Con l’usura dei polpastrelli e qualche clic abbiamo sparso foto, commenti, letto notizie, ci siamo entusiasmati per tutto ciò che capita sul pianeta, nuotatori in Lapponia, capodanni in Nuova Zelanda, piatti tipici nella Mauritania. Del resto perché stupirsi? Viviamo nel grande villaggio globale, come teorizzò l’indimenticato Marshall McLuhan ormai più di mezzo secolo fa nel saggio La galassia Gutenberg. La sua previsione è realtà da ormai moltissimi anni. Basta un clic e possiamo sapere tutto di tutti in tutto il mondo. Quanto alla musica, poi, figurarsi. Si tratta di uno degli item più ricercati, quindi non sto qui certo a ripetere la facilità di reperibilità di nomi e dischi.

Certo, persistono ancora dei buchi. Bisogna documentarsi, ma rimane non agevolissimo scoprire tutto delle nuove tendenze, dei nuovi nomi caldi in giro per gli anfratti meno illuminati della terra. Noi nel nostro piccolo ci proviamo (per la verità ci prova più di tutti Andrea Pomini con la sua nobile rubrica chiamata “Globo”). Ma siccome nonostante tutto, nel mondo della musica, viviamo in una solida egemonia angloamericana, su quello non c’è problema. Quando viene fuori un talento puro lì, noi colonizzati ce ne accorgiamo al volo, anche solo per pigrizia. Ma facciamo degli esempi concreti, per capirci. Degli esempi riferiti all’anno appena concluso.

Ben Howard. Sul finire dell’anno passato ha pubblicato il suo secondo album I Forget Where We Were. Canzone d’autore plumbea e occasionalmente elettrica. Circa un’ora di ottima musica finita in cima alla classifica di vendita inglese, scozzese, belga, irlandese, australiana, olandese.

Nick Mulvey. Verso la metà dell’anno appena trascorso ha diffuso il suo esordio solista, First Mind, dopo aver suonato per un po’ di anni con una band (di culto) formidabile chiamata Portico Quartet. Anche in questo caso, top 10 inglese e scozzese. Il suo disco era fra i candidati al Mercury Prize, il più prestigioso premio assegnato dalla discografia britannica.

Kate Esther Calvert. In arte Kate Tempest. Nel 2014 ha stampato, tramite la Big Dada (etichetta molto vicina al nostro mondo sonoro), l’album dal titolo Everybody Down. Kate ha una storia da film. Lesbica dichiarata. Evidentemente sovrappeso. Nasce poetessa. Si appassiona al rap, comincia i suoi freestyle nei pub sotto casa. Vince nel 2013 il premio Ted Hughes per la poesia. Continua a fare musica, Dan Carey (una specie di superstar della produzione che ha lavorato con chiunque, da Bat For Lashes ai Franz Ferdinand) si accorge di lei. Il suo album è stato la vera rivelazione indipendente – nato letteralmente dal nulla – inglese del 2014. Candidato al Mercury Prize anch’esso, ha perso di un soffio (il premio come saprete è andato agli Young Fathers: incazzata gang hip-hop meticcia scozzese che fino al momento del premio aveva smerciato la bellezza di 2836 copie del proprio disco).

Quando si dice il coraggio. Nel nominare. Nel premiare. Nell’investire. Queste tre storie sono tre storie di solisti. Tutti e tre neanche trentenni. Giovani. Vendibili. Eppure qui da noi non hanno avuto alcun riverbero. Di vendita. E mediatico. Eppure per tradizione noi amiamo i solisti più delle band. Amiamo i cantautori. Damien Rice, per dire, è uno di casa più qui che oltre la Manica, anche se fa un disco ogni dieci anni. Eppure i tre suddetti stanno tutti a Londra. Dove si dettano i nostri consumi, costumi, tendenze. Ma hanno tutti un piccolo difetto. Si tratta di storie che qui sono state lavorate (ossia distribuite) in maniera quasi clandestina (Mulvey e Howard), se non del tutto ignorate (Tempest, incredibile). Skin era lesbica uguale, pure nera, cantava anche lei. Ma il disco d’esordio degli Skunk Anansie uscì per Virgin con comprensibile quanto giustificato dispiegamento di forze. Risultato: gli Skunk Anansie arrivarono ben presto al successo. The Streets era bruttino e rappava in modo incomprensibile alla maggioranza italiana. Ma la Warner ci credette e il suo esordio divenne un caso pure qui.

Tuttavia: nell’era dell’accesso totale, deve fare tutto la discografia o anche noi media – digitali e organici – dobbiamo svolgere la nostra parte? La seconda che hai detto. Per cui laddove non arriva la discografia (ossia il disco promozionale o il link nella casella postale) noi siamo chiamati a smarcarci dalla tipica accidia nazionale. Per togliere il velo a queste vicende. Per fortuna nella nostra squadra abbiamo gente così, da Giorgio Valletta a Claudio Sorge, da Barbara Santi a Manuel Graziani fino a tutti gli altri. Gente che si sbatte. Per passione. E per rendervi il giusto servizio giornalistico. Sbagliamo, toppiamo, ma ci proviamo. Per cui – dopo aver scoperto l’eccentrico Ben Seretan a dicembre – questo mese Kate Tempest siamo andati a vederla (per la verità ci è andato Paolone Ferrari) dal vivo in Francia. Che ci vado a fare a Londra? Sempre meglio andarci. Di persona, va.

Per il resto, nel riaugurarvi buon 2015, auspichiamo quanto segue: non perderci le storie musicali più forti che accadono in giro per l’Italia e per il mondo, anche le più buie. Quelle che – complice la qualità della musica – vale sempre la pena raccontare. Quelle senza le quali questo mestiere non avrebbe ragione di esistere.

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