Live Report: FuoriLuogo Festival @ San Damiano d’Asti, 14-15/06/2014

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 di Nicholas David Altea – foto di Patrizia Chiarello

Partire dalla musica, dalla letteratura e dal territorio per rivalorizzare i borghi medievali italiani è, oltre che una scelta intelligente, anche una possibilità imperdibile. Chi ne fruisce può infatti ampliare le proprie vedute, i propri gusti e soprattutto le proprie conoscenze – siano queste musicali, letterarie o gastronomiche. Tutto questo si traduce nel festival culturale FuoriLuogo, svoltosi a San Damiano d’Asti, dal 13 al 15 giugno, organizzato dall’Associazione Culturale Officine Carabà e giunto alla terza edizione. Più semplicemente: le piazze e i cortili si sono trasformati in palcoscenici naturali dal pomeriggio fino alla notte con incontri, presentazioni, dibattiti e concerti. Potrebbe essere un “Collisioni” in miniatura, meno caotico e con una direzione artistica – soprattutto musicale – ardita e di gusto. Una programmazione non facile, che è stata capace di cogliere anche l’ascoltatore meno attento, andando a colpire sul fattore emotivo. Semplicemente quello che un live dovrebbe sempre trasmettere: emozioni.

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Green Like July

La prima giornata è stata scandita da ritmi cosmopoliti e ha visto sul palco, prima del set di chiusura di DJ Aladyn, la giovane Y’akoto e i torinesi Foxhound. La seconda serata è stata caratterizzata, oltre che dal tempo incerto, anche dal sottile filo a stelle e strisce che unisce Green Like July e The Veils. La cura e la minuziosità del songwriting delle due band vira verso quegli Stati Uniti visti un po’ come meta di arrivo, un po’ come punto di partenza. Un po’ viaggio, un po’ sogno. E gli italiani Green Like July dagli U.S.A. ci sono ripartiti ben due volte, poiché i loro ultimi due album – Four-Legged Fortune (2011) e Build a Fire (2013) – nascono proprio lì, registrati negli studi di Omaha, in Nebraska. Dal vivo, riescono ogni volta a concentrare l’attenzione su di loro, ligi e precisi nell’esecuzione dei loro pezzi, che acquisiscono dal vivo un’aurea di regalità d’altri tempi. A Better Man, ridotta ai minimi termini, solo voce e chitarra, mantiene inalterata la propria intensità mentre la calorosa Jackson e la nostalgica Agatha of Sicily trasmettono il vero senso del folk-pop d’autore: eleganza e sensibilità. Borrowed Time e Moving To the City scaldano il pubblico in un giugno che di quasi estivo ha solo il nome.

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 The Veils

I Veils, invece, capitanati dal neozelandese Finn Andrews, figlio dell’ex- tastierista degli XTC Barry Andrews, hanno ormai preso dimora a Londra da un po’ di anni e con gli Stati Uniti il rapporto è apparentemente sottile. Ma il frontman vi è legato più che mai nella sua scrittura: era infatti spesso avvicinato dalla critica, durante i suoi esordi, ad un intoccabile come Jeff Buckley. Quando salgono sul palco sembrano – quasi tutti – una band di modelli uscita da una pubblicità di Calvin Klein in bianco e nero. Vien da sperare, con un po’ di invidia, che almeno non sappiano suonare e che tanta bellezza sia l’unica dote del quintetto. Naturalmente smentiti: sul palco sono eleganti, ma altrettanto incisivi. Train With No Name è l’apertura del loro live, estratto dal loro ultimo lavoro Time Stays, We Go (2013), seguita da Calliope!, estratta dal più sofferente e cupo Nux Vomica (2006). Oltre a qualche tocco baroque-pop, raffinato e garbato ma mai scarico e soporifero, è piacevole ritrovare nelle loro sonorità anche quelle derive pop britanniche che band come Travis e Starsailor riuscivano a rendere sobrie e cristalline. E ancora avanti con Not Yet, Turn from the Rain, fino alla poderosa Out From The Valley. Non manca nella scaletta nemmeno Nux Vomica, traccia utilizzata anche nella colonna sonore de Il Divo (2008), film di Paolo Sorrentino. I Veils, pur non essendo sulla cresta dell’onda, sono uno di quei piaceri musicali affascinanti che mantengono un loro rigore senza doversi affiancare a mode o superficiali correnti musicali transitorie.

Alla fine del concerto non ci si fa mancare nulla: si guarda in una piazzetta del paese la partita del mondiale brasiliano tra Italia e Inghilterra insieme ai Veils, ai nostri Green Like July e a buona parte del pubblico del festival. Spunta un tricolore sul gol della vittoria di Mario Balotelli: è del forestiero del quintetto anglo-neozelandese, il tastierista Hubert Rapisardi, che non trattiene la gioia di essere ricapitato in Italia in un giorno così particolare.

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Wallis Bird

Alzando gli occhi al cielo, il giorno seguente, durante l’ultima giornata di festival, le nuvole non predicono nulla di buono. In effetti, non lasciano nemmeno troppo guardare il cielo che è già tempo di tirar fuori ombrello e k-way. L’acqua che il giorno precedente si era fatta solo timidamente sentire ce la ritroviamo copiosa e abbondante, compresi gli interessi. Fortunatamente non dura molto e anche il live di Wallis Bird può svolgersi senza problemi. Il folletto irlandese ha pubblicato quest’anno il suo quarto album, Architect, spostandosi verso nuove sonorità maggiormente elettroniche senza però abbandonare il suo alt-folk furente. Sul palco è accompagnata dal polistrumentista che la segue sempre, sia in duo che con la band. Wallis, classe ’82, è incontenibile, parte con Take Me Home, brano del suo penultimo album omonimo. Con Daze si scatena, e poi ancora I’m So Tired, fino a rompere 9 corde in tutta l’esibizione. Quello che ha lo trasmette alla chitarra, che suona in maniera particolare, figlia dell’incidente in giovane età che avrebbe potuto impedirle per sempre di comporre quello che oggi possiamo sentire. Ed è la forza di volontà che ha vinto, quella che traspare dagli occhi sempre felici e il sorriso stampato sul suo viso roseo. Si ritorna anche a Spoon, il disco d’esordio del 2007, con il brano Blossoms in the Street. È impossibile non essere coinvolti da una musicista del genere e il pubblico non se lo fa dire due volte. Hardly Hardly, singolo dell’ultimo lavoro è inarrestabile. Il terremoto Bird lascia segni indelebili anche nell’astigiano.

Il FuoriLuogo Festival si conferma attento e coraggioso nella scelta musicale: dall’impatto non immediato ma dalla resa qualitativa altissima. Avanti così.

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