In anteprima un estratto dal libro Non Ti Divertire Troppo dedicato ai Lungfish

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non ti divertire

Non Ti Divertire Troppo è il primo libro edito da Flying Kids Records, copertina firmata da ZeroCalcare, e ve ne avevamo parlato qui.  Il progetto “racconta storie collegate, collegabili, a volte del tutto collaterali ai gruppi che danno il titolo ai racconti” – una band per capitolo. 

Qui sotto trovate – in anteprima per Rumore – un estratto del capitolo firmato da Daniele Ferriero sui Lungfish. Buona lettura.

Il negozio è un bugigattolo scuro, polveroso e sgangherato. Ci metto piede come stessi entrando nella Cappella Sistina, nell’Apollo Theather mentre ci suona James Brown, nel bel mezzo dell’incontro tra Bruce Lee e Wong Jack Man: è un solo, unico, eterno e mitologico luogo. Qui dentro è racchiusa ogni arte sia mai stata immaginata o delineata. Dall’imbarazzo del trovarmici dentro sto sudando, copioso, con estrema e maleducata scortesia. L’età è quella di chi è troppo occupato dai brufoli e da un’insistente tensione ormonale onanista per potersi dedicare anima e corpo a quelle che altri definirebbero attività salutari. Peraltro vorrei, davvero vorrei!, ma purtroppo non ho il tempo né l’inclinazione per conoscere le mie coetanee. Sto rapidamente sviluppando un’ossessione malcelata per la musica – una malattia odiosa e pervicace, a dirla tutta. Sono fottuto, insomma. In quei giorni, giustamente dimenticati, sento che l’infame invasione stile Palmer Eldricht s’inoltra tra le cellule del mio organismo per fare di me qualcosa di diverso, una deviazione odiosa in grado di amplificare le adolescenziali fisime antisociali che mi porto appresso. Tale sindrome mi spinge dunque a entrare in quelle sale a forza di grugniti, tachicardia, aritmia e piccoli fenomeni localizzati di natura epilettica. L’uomo che abita quelle stanze, mezzo nascosto dall’ombra di oggetti che non vedo né percepisco, tenta probabilmente di interpretare i miei geroglifici vocali, decidendo piuttosto in fretta che non ha alcun interesse o vantaggio nel farlo; mugugna qualcosa di probabilmente offensivo e lascia fare. Lascio fare anch’io. Nell’imbarazzo ormai terminale che è la mia persona passa solo il messaggio della missione che sono venuto a compiere, immolando me stesso sull’altare di Mammona e Pan: sono.qui.per.comprare.dischi. STOP.

Non dischi qualunque, certo. Sono fresco di una militanza mai così bene immaginata quanto in quei giorni. Dopo decenni, lustri, anni (ok: una manciata di mesi) spesi ad ascoltare metal in quantità e qualità folli (dopo una sbandata iniziale a base di classici e power passo molto rapidamente tra le fila di thrash, death, black, grind e dintorni metallari mattarelli) m’esplode in faccia un universo di possibilità altre. Scopro che l’ascolto di quelle urla, quelle chitarre spesse condite da voci urticanti, le prese di posizione e le tematiche ambigue, mi hanno reso più o meno in grado di ascoltare qualsiasi merdata senza colpo ferire. Quasi nulla è in grado di nausearmi o causarmi mal di testa fulminanti, ogni hertz sulla faccia della terra può violentarmi l’orecchio e lasciarmi tranquillo e sorridente come prima. È una – falsa – rivelazione che continua ancora oggi. In quell’ora e in quel giorno, tuttavia, il mio organismo splende come un sole all’apice della forma: ho scoperto, da qualche parte lungo il percorso, che il punk non rima solo con quegli spiacevoli gruppi leziosi che si fregiano dei videoclip su Mtv e dell’appellativo “pop” come se fossero attestati di merito, e non buoni motivi per scatenare infernali fatwā contro di loro. Ho scoperto, con gioia e interesse crescenti, che esistono un’infinità di bipedi intelligenti, coscienziosi, pieni di interessi variegati e umanamente ammirevoli, e che inoltre alcuni di loro sono in grado di suonare alcune delle musiche più giuste e meglio motivate di sempre, e che molti di questi figuri stanno sulla per me ancora misconosciuta Dischord, o si limitano a gravitare in uno spazio liminale preso tra il punk e l’HC che fu e la voglia di andare avanti verso l’illuminazione musicale ed esistenziale a venire. Sono fottuto di nuovo, per sempre: non mi sono mai sentito così.

Tra le mani sudate e grassocce faccio scorrere gli espositori laterali in grado di scatenarmi odio atavico per l’impossibilità dell’esame e del furto – non l’avrei comunque commesso, tremulo qual ero; ma tant’è – e commozione sparsa per la possibilità di vedere sia la copertina che il retro del disco. Purtroppo non c’è molto da vedere. In quel momento, già allora, quell’innominato luogo di meneghino piacere discografico non se la passa al meglio. Gli espositori sono spesso vuoti, molti polverosi, altri logori e trasandati in maniera quasi imbarazzante. Importa poco, è ovvio. Gli occhi sbavanti desiderio e necessità puntano febbrili ogni disco spunti fuori. Tra i molti, i troppi, di quel giorno, ne punto due e scelgo uno: il prescelto è Sound in Time, il gruppo quello dei Lungfish, l’illuminazione che segue è lenta e straniante. Fresco di convinzione sulla mia ritrovata e illimitata capacità di ascolto, frugo nella testa e tra le orecchie, una volta tornato a casa: non trovo assolutamente nulla che me lo ricordi. Non avevo – e non ho – ancora capito un cazzo.

Su disco, rimirata la copertina spoglia, ridotta la mia aspettativa al cratere che campeggia come immagine, i ragazzi sciorinano una serie di nenie ipnotiche che mi buttano in un universo di possibilità altre, che non posso concepire o apprezzare veramente ma mi limito ad assorbire, tipo micropunte. Da qualche parte dentro di me suona come un’inaccessibile rottura di coglioni, ma mi piace, mi anestetizza positivamente, è una rivelazione: non mollo un millimetro anche se non ne capisco una virgola e non mi spiego che senso abbia questa musica. Di lì a poco il disco in realtà finisce sepolto in favore di cose come Double Nickels on the Dime o qualsiasi disco dei Fugazi su cui potessi mettere le mani sopra (non c’era Internet e blabla). Tuttavia l’epifania rimane e raddoppia, spingendomi a riflettere sul fatto che posso andare oltre i miei gusti spiccioli; ed anzi, in realtà il mio concetto di gusto è totalmente nelle mie mani, posso astrarlo, manipolarlo, lasciare che torni nel basso ventre o farlo rimare con qualsiasi paturnia politica o filosofica passi per la testa mia o di chi ha inciso quelle note. Finisco dunque per stracciarmi le mutande e gettarmi con rinnovata ossessione nel turbinio di questa scoperta.

Redazione Rumore
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