Intervista: Gary Numan

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di Lorenzo Cibrario

Mi arriva una mail del mio laconico direttore:

Ciao. Sabato. Ore cinque. Camden. Intervisti Gary Numan. Mi raccomando!

Un vero e proprio fax. Comunque, mi sono detto: “Wow! Gary Numan! Che bomba”. Ma cosa conosco io di Gary Numan? Si beh, scavando nei ricordi della mia adolescenza di provincia paranoica, conosco Cars, conosco Are Friends Electric?, mi ricordo Telekon e quel poco altro che ho appreso più recentemente dal seminale racconto di Marco Drago sulla new wave. Mi sono dunque andato a documentare, sono andato a cercarmi una biografia, ho comprato dei dischi che non conoscevo (vinile di Warrior e di Dance trovati ad un prezzaccio più vari cd in nice price) ed ho ascoltato tutto quello che sono riuscito a trovare sui vari siti e programmi per l’ascolto in streaming.

Gary Anthony James Webb -in arte Numan – è stato un tassello importante nella storia della musica pop, un ponte necessario che ha unito il post punk a quel suono che poi sarebbe diventato prototipo della new wave, definendo un’estetica e una tecnica che si sarebbero confermati come un punto di riferimento per decine di band dopo di lui.

Lo incontriamo a Camden in occasione del suo concerto londinese di promozione di Splinter – Songs from a Broken Mind, con pagine e pagine di domande da fargli. “Qual era il tuo ricordo più vivido con John Foxx?” o “Ci racconti del tuo bassista Paul Gardiner?” e ancora “Come hai vissuto la Londra del 1979?”, “Chi più di tutti ti ha influenzato? Hai mai pensato di essere parte di un movimento nei primi anni ottanta?”. Ma è stato chiaro fin da subito che Gary non volesse parlare del passato, ma che volesse invece concentrarsi sul presente. Il motivo non ci è dato saperlo, non sappiamo se sia stufo di parlarne o se siano brutti ricordi, di fatto questo Gary Numan è focalizzato sul presente e sul futuro più che mai. Cosa piuttosto in linea col personaggio in effetti.

Hai passato diverse fasi durante la tua lunga carriera. All’inizio eri legato più ad un’estetica sci-fi, ad un’idea di futuro fantascientifico in stile Ballard e Dick, poi una fase più urbana, un dandy della prima metà degli anni ’90, per finire con un presente decisamente industriale. Come ti immaginavi il futuro quando avevi vent’anni? Avresti mai pensato che saresti stato questo Gary Numan che sei ora?

“Ora va meglio, ma quando avevo vent’anni, quando ero un teenager, mi immaginavo un futuro fantascientifico, perché avevo una forma di sindrome di Asperger, la quale unita all’essere un teenager, mi faceva preferire l’essere isolato, senza amici; non mi permetteva di socializzare, mi sentivo molto meglio tra macchine, automobili, tra gli aeroplani. Non che sia mai stato una persona socievole e a suo agio tra la folla, ma l’Asperger sicuramente amplificava tutto questo. La mia musica ha risentito parecchio di ciò: macchine, synth, umanoidi, mi sembravano terreni meno pericolosi, più sintetici.”

A proposito di macchine, so che eri un pilota, mi ricordo di un video della BBC in cui atterravi con un aeroplano dopo aver fatto alcune acrobazie…

“Si si, mi piaceva molto volare, ma ho smesso ora, con mia moglie dopo il terzo figlio abbiamo deciso che forse non era più il caso di guidare aeroplani…”

Come mai questi cambi di stile? Lo trovo una cosa molto intelligente.

“Beh grazie. Intorno al 1994 ho incontrato Gemma, mia moglie, la quale mi ha incoraggiato, mi ha supportato e mi ha insegnato ad avere più confidenza in me, riportarmi a fare quello che mi è sempre piaciuto, cioè suonare e fare musica. Nello stesso tempo mi ha fatto conoscere questo (allora) nuovo genere musicale per me, l’industrial. Ho potuto rimettermi a fare musica con la passione che avevo a vent’anni, ma in un genere nuovo, che non conoscevo. È come se fossi tornato indietro nei miei passi ma con un’attitudine nuova, cosa che mi ha dato amore per la musica; così mi ci sono buttato a piene mani.

Non mi divertivo più, tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90 scrivevo musica davvero per pagarmi i debiti: era tutta una questione di business, di soldi, di popolarità e di classifiche”.

Questo tuo ultimo cambio di direzione è stato supportato da grandi band degli anni 2000, le quali ti hanno indicato come loro principale modello musicale.

“Il primo disco del 1994, di questo ultimo periodo, era Sacrifice: un disco anti-religioso, con un grande focus su quello che stavo facendo, quello che avevo fatto, e sul mio futuro. Nel 1994 avevo finalmente trasformato la musica in un hobby, senza pensare alle radio, al business e alle classifiche, senza ascoltare nessun consiglio. Sono tornato ad essere orgoglioso e testardo esattamente come quando avevo iniziato trent’anni prima. Quando ho iniziato a fare musica mi sentivo su una strada sicura, una strada che io avevo tracciato nella mia testa, e quando provavano a darmi consigli, seguivo comunque la mia strada. Quando poi ho iniziato ad ascoltarli, è come se avessi messo un piede fuori da questo tracciato, questa strada, ed è proprio lì che mi sono perso. È proprio in quel momento che non sono più riuscito a ritrovare la mia strada, che sapevo essere giusta. La cercavo ma non mi ritrovavo più. Fu allora che incontrai mia moglie Gemma, la quale mi ha semplicemente indirizzato…”

Sei come Dante che ritrova la retta via grazie a Beatrice… (commento proprio da c****one, mi sono stato antipatico quando l’ho detto).

“Molto poetico in effetti. Ma sono ancora su quel tracciato ora, so cosa voglio, so quello che mi piace, ciò che mi diverte, so quello che non mi piace”.

Il tuo ultimo disco si chiama Splinter – Songs from a Broken Mind. Ti consideri una mente rotta? Ti sei mai considerato così?

“Ai tempi in cui scrivevo il disco era un periodo piuttosto nero. Intorno al 2006 ci sono stati alcuni momenti piuttosto cupi, abbiamo avuto il secondo figlio [di tre], e lei ha avuto una depressione post parto che è continuata fino alla successiva gravidanza. In quel periodo – per dirla con un eufemismo – era crudele. Quindi stavamo vivendo un periodo difficile, la mia carriere non decollava, in più ho compiuto cinquant’anni. Cosa che lì per lì non mi ha dato problemi, ma che poi si è rivelata un tassello difficile da gestire. Eravamo entrambi depressi. Così lei ha avuto la forza di ristabilirsi, di riprendersi, mentre io non pensavo a nulla. È come se avessi vissuto in una bolla. Non mi interessavo di nulla: la mia carriera andava a rotoli, la mia relazione andava peggio. Non ho scritto una canzone per anni. E non me ne fregava niente. Andavo a fare alcune serate, suonavo in giro sempre gli stessi pezzi, e la mia popolarità diminuiva, scemava. Ma non me ne fregava niente perché vivevo nella mia bolla; prendevo pillole per stare meglio e per tirarmi su di morale.

Poi finalmente ho capito che le cose non potevano andare avanti così, che non si poteva continuare così. É li che ho deciso di mettere su un progetto con un amico. Si chiamava Death Son Rising. Il progetto mi ha aiutato a smetterla con le pillole a darmi una certa soddisfazione. Lì ho iniziato a scrivere Splinter, che appunto parla di quel periodo”.

Infatti c’è un pezzo che si chiama Lost, parla in particolar modo di quel periodo? È molto toccante.

“Sì, parla proprio di quel periodo, del matrimonio e della depressione post parto. In un certo modo, scrivere dei tuoi problemi è come andare dall’analista. Devi pensare profondamente a quello che scrivi. Quando scrivi una canzone devi pensare esattamente alle parole da usare. È una terapia. È grazie a quella canzone che ho realizzato che mi ero comportato come uno stronzo”.

Pensi che la musica abbia fatto di te una persona migliore? Come saresti stato senza musica?

“Penso che la musica sia stata fondamentale nella mia formazione. Senza la quale probabilmente sarei stato…. diverso, più difficile. Sarei stato probabilmente più timido, come all’inizio della mia carriera. Devo dire che mia moglie mi ha davvero aiutato. Lei hai un fratello affetto dalla sindrome di Asperger, per cui sapeva come trattarmi. Abbiamo lavorato insieme perché io divenissi cosciente dei miei comportamenti tipici dell’Asperger, tanto che ora riesco a capire quando ho un comportamento Asperger e riesco a correggermi, e riesco ad avere un’intervista faccia a faccia con te ad esempio… la quantità di “stranezza” in me, ora riesco a modularla”.

Gary-Numan-Cars-cover

Una domanda stupida: so che vivi a L.A e so che Cars parla di automobili e del tuo odio per il traffico. Come fai a vivere a Los Angeles, città in cui solamente si guida e si è fermi nel traffico?

“Hai ragione! Non sono un grande fan delle grandi città, e amo L.A. perché è enorme e se la conosci e sai come muoverti, riesci ad evitare tutte le autostrade. A parte questo, amo il tempo, il clima, la gente. Sono molto amichevoli, specialmente se la paragoni con Londra e l’Inghilterra in generale… Poi in verità è che voglio muovermi nel mondo della cinematografia. Scrivere musica per film è ora il mio futuro progetto”.

Bè hai sempre un po’ flirtato col cinema. Ricordo che in Outline del 1990 avevi campionato alcune frasi da film di fantascienza come Terminator, Blade Runner e Alien…

“Si, quello era solo rubare… No seriamente, musicare immagini è sempre stata una mia passione. Anche in Splinter trovi alcuni momenti molto cinematografici. In un certo modo ho usato questo disco come un CV per il mondo della cinematografia. Farò la colonna sonora di un film già girato dal titolo From Inside, una storia apocalittica animata senza happy ending. Molto interessante”.

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Il live la sera stessa è stato piuttosto interessante pur non avendo più nulla da che spartire con il “vecchio” Gary Numan, persistono elementi wave nel contesto industrial che ora il musicista inglese propone. Se è vero che i nomi che vengono al pettine ora sono Nine Inch Nails e Marilyn Manson, rimane un sostrato di synth che accompagna tutto il live, il quale rimanda pur sempre ad un passato glorioso. Sono rimasto colpito dall’esperienza che trasuda un live del genere, il quale pur non essendo nelle mie corde, mi ha decisamente lasciato a bocca aperta.

Redazione Rumore
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