Intervista: The Bloody Beetroots

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the bloody beetroots

di Elia Alovisi

Sir Bob Cornelius Rifo, unico uomo dietro al nome The Bloody Beetroots, sorride tantissimo. Ha un’energia rara, che cerca di trasmetterti fin da subito. Ti saltella incontro, ti stringe la mano guardandoti negli occhi, si mette seduto e attento ad ascoltarti – e poi parte a macchinetta. Usa un sacco di parole in inglese (trascritte pari pari, per la cronaca). Si prende bene a parlare di tecniche di registrazione, di studi, di programmi, di analogico vs. digitale. Si sta divertendo moltissimo, a girare il mondo con una maschera da Venom a portare in giro la sua musica. Essendo partito da Bassano del Grappa, la cosa è impressionante. La posta in gioco non è mai stata così alta, però: se fino a Romborama, suo disco d’esordio, la formula era inquadrabile nel termine “elettronica”, il nuovo Hide sembra voler fagocitare qualsiasi etichetta. Ci sono dentro ospiti a catinelle (e che ospiti), divertissements, chitarre, orchestre, batterie vere, tutte quelle cose da discone rock che con l’elettronica non ci hanno praticamente mai fatto molto a che fare.

Sir Bob, però, sembra voler cambiare le cose. È preciso al millimetro nello spiegarsi (non confondete “The Bloody Beetroots” con “The Bloody Beetroots Death Crew 77” con “The Bloody Beetroots Live“, che son cose diverse, non sia mai). Ed è molto convinto di quello che sta facendo: parla del suo progetto con passione, tirando in mezzo ragionamenti sul fare e vivere la musica che non sai se prenderli come sinceri o spari a salve. Perché ok le persone, la storia del rock, l’analogico eccetera – ma allora il risultato deve essere epico. Un discone che resta nella storia. Se così non dovesse essere, avremo ottenuto comunque qualche pezzo divertente per carburare le nostre serate zarre, qualche pezzo riuscitissimo e qualche ciofeca. Ma restiamo all’esperienza di Sir Bob.

Perché Hide? A parte la maschera, non sembri un tipo molto riservato. 

Sir Bob Cornelius Rifo: “E invece sì (sorride). Hide perché ci sono tante cose nascoste dentro l’album. Ci sono un sacco di layer e influenze musicali che riuscirai a capire dopo tanti, tanti, tanti ascolti. Ad esempio i 6/8 di Raw, il cambio in 4/4, il farmi prendere per il culo da Tommy [Lee, ospite sul pezzo]. L’ispirazione di Bach su The Furious. Che altro… tantissime cose che manco io ricordo. Dovrei ascoltarmelo ancora un paio di volte per capire che cosa ho fatto (ride)”.

Quindi, a livello di lavorazione, è un disco su cui hai passato più tempo rispetto a Romborama.

SBCR: “Sì, molto di più. È stata un’avventura incredibile, un disco concepito in quattro anni. Ho girato un sacco di studi di registrazione, ho imparato a mixare su desk analogici, ho imparato a riprodurre quei suoni naturali di cui avevo bisogno, utilizzando anche tecnologie dell’epoca. Cercare di mixare tutto preservando la vera pasta del suono che avevo in mente. Perché Hide è una sorta di bridge temporale tra la musica del passato e questa musica del presente. Vuole dare un’estetica futuribile alla musica. L’idea di base era questa. Non dimenticare, andare a citare la fonte direttamente dov’era anziché copiarla o semplicemente citarla. Da questo il mio volere di incontrare Paul [McCartney], Peter [Frampton], Tom[my Lee] e Penny [Rimbaud], che sono i vecchiardi tra gli ospiti”.

Quanto c’è di live e quanto di campionato sul disco?

SBCR: “C’è molto, molto, molto poco di campionato. Il 95% dell’album è stato suonato. Anche The Furious, in cui puoi pensare ci sia un’orchestra sintetica, c’è in realtà un’orchestra di 25 elementi. Ho cercato di suonare e far suonare tutto il possibile, avevo bisogno di un apporto umano. Era la grande priorità di questo album. Fondere tocco umano e digitale”.

Secondo te l’elettronica è un genere poco umano?

SBCR: “Sta diventando poco umana. Stiamo privilegiando il tool digitale rispetto a quello analogico. È una cosa da non dimenticare. L’essere umano ha bisogno di qualcosa di analogico, perché ha bisogno di esprimersi, di un tempo per ascoltare e uno per produrre. Non sempre le cose fatte in fretta – perché ce lo permette la tecnologia – sono le migliori. Anche per questo la genesi di Hide è stata così lunga. Volevo molta umanità in questo disco, nonostante sia un disco di dominio digitale per quanto riguarda la master session”.

Non trovi che per un artista che fa elettronica sia difficile ottenere un riconoscimento per un disco, piuttosto che per una canzone? Ti faccio l’esempio di Crookers: da noi un ascoltatore medio non conosce quel nome per i pezzi di Tons of Friends, ma per Festa Festa.

SBCR: “The Bloody Beetroots forse è conosciuto per Warp. Ma The Bloody Beetroots non è solo quello, è anche quello. Non decidi quando una tua canzone diventa famosa o no, la fai e poi il pubblico risponde back, e quello per tanti motivi: per il trend, perché quella generazione aveva bisogno di una canzone. Ma questo album non ha paura di confrontarsi con il pubblico, perché è un album che parla di musica. Quindi io, che non credo nei generi musicali, ho voluto fare della musica per rispondere alle domande che mi sono fatto in questi quattro anni di evoluzione di The Bloody Beetroots. Spesso, specialmente in questo nuovo periodo della musica elettronica, le persone pensano a qualcosa d’altro anziché alla musica. Io, qui, ho fatto proprio questo. Sentivo la necessità di farlo. Perché il nuovo è la ricerca dell’uomo, se vuoi. L’evoluzione della vita. E se vivi la tua vita in un contesto musicale, il tuo modo di esprimerti e tradurre la tua vita è la musica, allora viene naturale fare un album come Hide. Puoi immaginare che esperienza sociologica incredibile ha fatto questo progetto in 7 anni di evoluzione”.

Come hai fatto ad approcciare e conoscere Paul McCartney?

SCBR: “La storia è semplice. Abbiamo un amico in comune, Youth dei Killing Joke. Con lui ho prodotto Church of Noise nel 2011, con Dennis dei Refused. Parlando, ci si fa delle domande e ci si risponde anche (ride). Mi chiese, “Bob, stai cercando delle new features per il tuo album? Ho due nomi, Penny Rimbaud dei Crass e Paul McCartney”. Quindi mi consegnò le parti di una canzone di The Fireman, il progetto suo e di Paul, e iniziai a giocarci. E se conosci bene il progetto The Bloody Beetroots, sai che distruggo il materiale sonoro per far nascere sempre qualcosa di diverso – e feci la stessa cosa con Out of Sight, spingendomi un po’ più in là. Rimandai questa demo a Youth, gli piacque tantissimo, capimmo che forse poteva essere una canzone e quindi tornai ai RAK Studios a ri-registrare tutti gli strumenti utilizzando le tecnologie dell’epoca. La mandammo a Paul, a lui piacque – avevo ridisegnato la voce di Paul con Melodyne, questo software che cambia la melodia – ma non suonava bene. Quindi gli chiesi di ri-registrarla ed ufficializzare questo nostro connubio. Disse sì, mi invitò nel suo studio e passammo un giorno assieme a registrare. È stato incredibile. Un grande maestro di umiltà. È lui il primo che mi ha insegnato a non credere nei generi musicali ma nella musica in sé. Ed è incredibile come la musica mette insieme queste cose, e ti fa capire che niente è impossibile se c’è il vero pathos. Quel drive che ti porta a credere in questa grande parola, in questo grande contenuto allora magari un giorno riesci a fare qualcosa come Paul McCartney”.

Invece Penny dei Crass come ha lavorato al suo pezzo?

SBCR: “Penny da un po’ gira il mondo con una band free jazz recitando le sue poesie. Il testo di The Furious è tratto da una di esse – ce ne sarà un’altra in uscita su Spotify, A Prayer. Lui è una persona fantastica che ha voluto sfidare sé stesso e tentare di usare The Bloody Beetroots come chiave per uscire dal ghetto punk, in qualche modo. Penso che meriti molta attenzione, che vada riscoperto. Come va riscoperta la storia dei Crass. Quello che sto facendo io è quello che facevano loro: rendere le persone confuse per poi farle pensare”.

All the Girls, con Theophilus London, com’è nata?

SBCR: “Avevo bisogno di qualcosa di soul all’interno dell’album, che poi se vedi è un po’ il follow-up di quella cosa che avevo fatto con i Cool Kids in Romborama. Theophilus ha un flow pazzesco, e delle liriche molto interessanti. Mi sembrava giusto fare con lui questo pezzo perché è super-sloppy, terzinato. C’erano in lizza lui e Mos Def. Ma Theophilus è arrivato prima, con un flow che mi piaceva. Sto sempre attento a quello, non scelgo mai il featuring perché voglio l’hype. Lui ha fatto un ritornello pazzesco, ed era giusto omaggiare le donne in qualche modo. Sono una grande componente della nostra vita (ride). Anche per sdrammatizzare un po’ questa parte concettuale di Hide molto profonda”.

Tommy Lee che persona è? Si vedono i postumi della sua carriera? 

SBCR: “Sono almeno quattro anni che Tommy non usa alcun tipo di sostanza. Ha smesso anche di fumare. Quindi è ritornato diciassettenne. È tornato lì dove è partito con i Mötley. Lui è la mia famiglia californiana. Ci conosciamo da anni, siamo proprio amici per la pelle. Ci cuciniamo la pasta, giochiamo con il cane… non avevo neanche pensato a chiedergli di suonare, ma vista l’intenzione di Hide ci siamo trovati una sera e abbiamo deciso di registrare questa cosa in totale libertà. Provando i 6/8, facendomi prendere per il culo da lui per una svolta disco all’interno di un pezzo heavy metal”.

Quindi devo immaginarti in un villone con piscina stile Playboy Mansion?

SBCR: “Sì, esattamente (ride). Non sono quel tipo là, Tommy forse. Lui sta con Sofia [Toufa], una ballerina dei Mötley che poi è stata presa sotto la sua ala da Deadmau5 ed esce come SOFI. Una ragazza dolcissima, giovane, gioca sempre con il loro cane. Che si chiama Bowie (ride)”.

Che cosa ti ha spinto a chiedere una collaborazione a Peter Frampton?

SBCR: “Sai, tutte le persone pensano che il Talkbox sia stato inventato dai Daft Punk… e allora, dico, “No”! (ride) C’è qualcosa prima. Stevie [Wonder], Peter, un sacco di persone. Quindi l’ho contattato, lui ha accettato, ci siamo trovati a Los Angeles e ci siamo divertiti un sacco. Lui è come mio zio, è super (ride). Ho imparato un sacco di cose su come adattare le voci al Talkbox, come registrarlo, come armonizzarlo. Era come andare a scuola”.

Dato che il disco si conclude con un pezzo sulla melodia di Volevo un gatto nero, devo pensare che da piccolo tu sia stato un grande spettatore dello Zecchino d’Oro.

SBCR: “Esattamente, è una mia grande influenza (ride). È stata una follia, ricordo di avere scritto la struttura della canzone pensando allo Zecchino D’Oro, ho scritto un foglio lunghissimo con la struttura della canzone e l’ho portata in studio chiedendo di portarla sul programma. Ma era tutto dentro la mia testa, la prima volta che ho scritto una struttura – neanche una composizione – per poi tradurla in quel modo”.

Tornando in Italia: Jacopo degli Zu come è entrato a far parte del progetto?

SBCR: “Sai, tutti i miei session musician sono sempre nascosti, quindi questa cosa la nasconderemo: lui si chiama Battle con Bloody Beetroots. Fa parte di un altro progetto, che è The Bloody Beetroots Live, dove mi avvalgo di musicisti per tradurre in modo ancora diverso quello che scrivo. Attualmente Battle è passato alle tastiere e Grinch suona la batteria – era il primo batterista di un progetto chiamato Bloody Beetroots Death Crew 77. Quella di adesso è una nuova macchina, con tanti strumenti suonati e un’estetica, un grado di performance molto molto forti. Lui l’ho conosciuto tramite Giulio Favero, siamo amici da tanto tempo e per una serie fortuita di casi ci siamo trovati nello stesso posto ad ascoltare la stessa musica”.

Segui ancora quello che succede attorno al tuo paese, a livello musicale?

SBCR: “No, vivo a Los Angeles. Torno in Italia a trovare la mia famiglia ma sono completamente disinformato su quello che succede nell’Italia di oggi a livello musicale. Sono felice che Sony mi abbia preso sotto la sua cappella per esplorare questo mondo che io non conosco e vedere se riusciamo a comunicare con una demografia diversa, aprire qualche finestra nuova. In sostanza faccio ancora parte della nicchia. È vero che The Bloody Beetroots fa sold out in Italia, ma lo fa in una data. Non è ancora in grado di abbracciare quella demografia da grandi concerti. Mi piacerebbe farlo perché ho tante cose da comunicare, voglio informare le persone, vorrei parlare a voce alta. Ho un ottimo team al momento, che sta crescendo, e con Sony speriamo di aprire nuove porte”.

Per quanto riguarda Los Angeles, invece?

SBCR: “Sai, vivo in questo mondo fatato in cui a volte mi arrivano delle cose e sento che magari una persona può essere congeniale alla mia idea, e allora mi dico, “Oh, devo lavorarci insieme!” Però mi sveglio da un mondo notturno. Più che altro mi piace molto vivere la mia vita, e quindi i miei rapporti sono più sul versante umano che su quello musicale. Cerco molto le persone, cerco di farmi raccontare delle cose che poi traduco in musica. Se ascoltassi musica per tradurre musica non so se avremmo lo stesso risultato”.

Deciframi un po’ la copertina del disco. La bandiera americana è importante, a logica.

SBCR: “’Cause I’m from Los Angeles, man! (ride) È stata disegnata da Tanino Liberatore, che ha fatto anche la copertina di Romborama“.

Quell’immagine era davvero grezza. 

SBCR: “Abbiamo gli spigoli adesso. (ride) Tanino è funzionale al progetto: creare questo bridge temporale è la copertina. Disegnare qualcosa di analogico che poi viene stampato in digitale. Poi era necessario proseguire la nostra lunga storia d’amore. Lui mi insulta almeno 25 volte al giorno per tutte le modifiche che voglio. Era la chiusura perfetta per il disco, tutto ha un senso”.

Che cosa ti aveva portato a indossare una maschera inizialmente? E ha ancora un senso tenerla?

SBCR: “Dicono mai dire mai, no? Però ce l’ho, teniamola. La vicinanza di Bassano con Venezia, come la forte cultura della commedia dell’arte, ti fanno capire quanto è importante una maschera per l’iconografia che sviluppa. Per i tipi di sentimenti che trasla al tuo ascoltatore, alla persona che ti sta davanti. Ogni persona può essere Bob Rifo, chiunque può far parte di The Bloody Beetroots. Devi solo metterti quella maschera. A me serve come catalizzatore: attrarre l’attenzione per poi mostrare loro tutto questo”.

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