Intervista: IANVA

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(Foto: Emanuela Zini)

di Stefano Morelli

Questa è la seconda occasione in cui Rumore incontra il percorso del collettivo genovese; se ben ricordate accadde già nell’ottobre del 2010 all’indomani della pubblicazione di Italia: Ultimo Atto, saggio sulla condizione spirituale dell’Italia sorto in seguito alla folgorante poetica dannunziana di Disobbedisco! Oggi il contesto critico degli IANVA, aspetto che sorprende ma nella razionale considerazione dei fatti, appare più che mai centrato nel suo riflettere la liquefazione/dissoluzione dei tempi, specie se consideriamo quanto Canone Europeo stabilisca una presa di posizione vera e propria rispetto alla dispersione culturale del vecchio continente, e al contempo sappia imprimere un nuovo e rinvigorente timbro al tracciato avanguardista del rock italiano. Un’avanguardia, intendiamolo subito, capace di guardare alla tradizione autorale italo-francese e al contempo di incidere rispetto a un pathos futurista che vede i suoi natali nella new wave, nel post punk (quello dell’intransigenza noir: versante nu folk) e nel post industriale. Il Canone Europeo è in sostanza rivendicazione (porta in testa la corona emotiva di Hellas, lo stesso titolo dell’ultima poesia composta da Shelley nel 1821). Rivendicazione di un sentimento, di un senso, di un carattere, meglio ancora di una bellezza, che ci ha condotti oggi sino qui. Ci sono opere che hanno la forza di essere generazionali, di segnare l’avvento di un orizzonte nuovo (se ci pensate bene accadde col progressivo, con la new wave italiana, con la spinta indipendentista del rock anni Novanta), di essere rigorose e al contempo degne di uno spirito artigianale, e quindi di permanere nella loro unicità. Bene, IANVA incarna oggi quel ruolo estetico e, piaccia o meno, sono qui a testimoniarlo. Ne parliamo, reduci dalla calura estiva, col deus ex machina del progetto: Renato ‘Mercy’ Carpaneto.

Partiamo da una riflessione: c’è una continuità a ben vedere tra i temi del precedente La Mano di Gloria e l’avvento del Canone Europeo. In quel libro, come nel disco, l’accusa era rivolta a un sistema creato ad hoc per elidere e cancellare non solo la memoria ma la dignità dell’umano, mentre nel Canone si avverte la volontà di affermare una traccia (umana, artistica, storica) quale ultima istanza per non capitolare, almeno individualmente…
Renato ‘Mercy’ Carpaneto: “Quando mi capita di considerare tutta la mia personale vicenda creativa, mi rendo conto che IANVA è un frutto tardivo. Un dispositivo d’immaginazione a misura di adulto. Grazie al quale mi è riuscito di dare forma a un campionario di suggestioni che evidentemente necessitavano di tempo per precisarsi. Aggiungo che il collettivo di talenti che ha assecondato e reso concrete queste ideazioni aveva bisogno, a sua volta, di un percorso di maturazione. Oggi sento di poter dire che si è lavorato alla costruzione di qualcosa di durevole. Sono certo che qualcosa resterà e questo chiarisce e in parte giustifica questa ‘continuità’. Ciò incrocia però un ulteriore e non rimediabile fenomeno: il naturale invecchiamento fisiologico di tutto ciò che per tre o quattro decenni cruciali è stato, per definizione, “giovane”. Sebbene si direbbe che a nessuno sia riuscito davvero di crederci, è arrivato il turno di essere “superati”: arte come veicolo di dissenso, codici espressivi di sovversione, comunità estetico-stilistiche di nicchia. Tutte cose che ormai stanno accompagnando un’intera generazione di mezza età alla senescenza e che per i giovani contemporanei risultano inconcepibili ed incomprensibili. A differenza di coetanei ridotti a mendicare supplementi di attenzione verso inverosimili ‘nuove tendenze’, noi ci rivolgiamo esclusivamente a chi è già attrezzato per capirci. Gli altri li consideriamo persi. Se poi così non fosse, meglio per loro”.


(Foto: Emanuela Zini)

L’alienazione attuata tramite l’omologazione del costume e del pensiero, lo sviluppo senza progresso, sociologia marxistico-pasoliniana…
R.M.C.: “Già, per noi l’omologazione costituiva un orrore in agguato. Al contrario, per i giovani d’oggi si tratta spesso di un’aspirazione frustrata. Data questa lieta cornice, si capisce perché è stato così facile diventare veggenti. Anche se, col senno di poi, l’epos de La Mano Di Gloria si è rivelato fin troppo consolatorio perché presupponeva l’esistenza di ciò che, a tutt’oggi, non ha dato alcun segnale di esserci davvero: una minoranza di uomini la cui alterità è irriducibile al punto tale da far loro preferire la morte alla rassegnazione. E quella di una quota mimetica di ceto intellettuale sufficiente a preservare l’indispensabile, cioè di fornire un’anima all’azione di questi nuovi “irredenti”. Questa non può che discendere da un impianto di pensiero completo. Siccome però ogni medaglia ha il suo rovescio è altresì evidente che basta davvero poco per incarnare con legittimità, efficacia, eleganza, e persino con qualche voluttà, la figura dell’artista o dell’esteta dissidente. Paradossalmente: l’atteggiamento mentale del mettersi a disposizione, il senso di missione spogliato da ogni velleità di affermazione individuale, il disporsi al servizio di Qualcosa Di Più Grande tipico del monachesimo medievale, sarebbero attualmente le più sicure garanzie di non avere gettato via il proprio tempo. In momenti come questi tornano ad essere vitali i calligrafi e i copisti. La regola d’arte si ritrova ad essere sconveniente avanguardia, ad un passo dalla clandestinità”.

Tra l’altro, il messaggio dell’opera si pone oltre l’Italia stessa e prende in considerazione l’Europa. Consegna esempi concreti di persone e di gesta come baluardi di un sapere e al contempo di un’attitudine. Giuseppe Verdi in qualche modo è l’elemento connettivo/evolutivo rispetto alla considerazione tragica del finale di Italia: Ultimo Atto. In tal senso può rappresentare il cuore oltre l’ostacolo, un futuro ipotizzabile guardando al ‘passato’?
“Abbiamo preso seriamente in considerazione lo stilema del melodramma verdiano perché, a suo tempo e in ambito nazionale, ha costituito l’interfaccia nel mondo dei suoni di quella temperie storica che a me è sempre piaciuto definire come Romanticismo Attivo. Una cosa è certa: nella civiltà occidentale le grandi “mareggiate” della Storia sono sempre state preannunciate, e in qualche misura preparate, da fenomeni equivalenti nel mondo delle arti e della cultura. Solo in un secondo tempo, in forma estetizzante e semplificata, ricadevano nel costume per ridefinirlo. L’essenza stessa della civilizzazione occidentale è da ricercarsi nella prassi del ‘pensare altrimenti’ rispetto alla stagnazione degli ordini costituiti. Chi si incaricava di iniziare a pensare questo altrove, spesso si serviva delle categorie dell’estetica e non della politica. Da qui l’opera di vigilanza riguardo le forme e i contenuti della creatività e l’opzione censoria o quella repressiva. Oggi il dissenso non viene più represso; per la semplice ragione che tutto concorre e opera a evitare che esso si costituisca. La cultura e le arti, per non ritrovarsi marginalizzate, sono costrette a inseguire l’ispirazione nei “bassifondi”. Dunque, se un tempo il giovane borghese e il popolano, grazie allo spirito di emulazione indotto dalle arti “alte” – Verdi, Stendhal, Schiller o Wagner, per esempio – potevano scegliere di tenere delle condotte esistenziali o di operare delle scelte cruciali egualmente nobili, oggi agiscono all’opposto. L’intellettuale e l’operatore artistico, pur di non esser ficcati nel novero di ciò che “non interessa alla gente”, si scoprono disposti a fingere che quella stessa gente, gli stili che crede di esprimere, le micragnose e risibili aspirazioni da cui si fa guidare, costituiscano uno spunto ideativo inevitabile. All’origine di ogni grande evento, di ogni fenomeno storico, di ogni trasformazione, c’è sempre una fase preparatoria in cui le idee si sollevano e si accalcano come una tempesta che va montando. Oggi non accade nulla, perché è stato creato una sorta di vuoto d’aria dove le idee, che comunque non cesseranno mai di essere prodotte, precipitano nell’istante stesso in cui sono formulate”.

In Nessuna Croce Manca emergono due concetti importanti. Primo: citi ‘progressisti armati’ che fan rima con ‘mercati’. Secondo: additi l’incapacità di ammettere che nazione significa anzitutto preservare, custodire. Da quali ragioni intime si è originato questo momento?
“Il progressismo è sempre armato. Perché arriva inevitabilmente il momento in cui una comunità si mostrerà restìa ad abbandonare un precedente e collaudato sistema di vita a favore di un altro in tutto e per tutto ignoto, rispetto al quale dispone solo delle rassicurazioni – o più spesso dei magnificat – dei suoi promotori. A quel punto è solo una questione di tempo prima che quest’ultimi, esauriti gli argomenti persuasivi e non prima di aver giocato ogni carta ricattatoria, passino alle vie di fatto. Il progresso esige solo di essere abbracciato e mai discusso. Con le buone o con le cattive. Si tratta del brano più prossimo alla mia personale – e per fortuna solo metaforica – ‘messa in mutande’, sentivo il bisogno di una canzone che raccontasse qualcosa sul mio conto. Quel che ritenevo valesse la pena di essere messo nero su bianco. Per altro, se dritta al punto, un’unica canzone è più che sufficiente per dire tutto ciò che serve del suo autore. Davvero non capisco quei colleghi che passano la vita a scrivere e cantare solo di loro stessi. Quanti eventi salienti può mettere insieme una singola vita umana? A meno che tu non sia Piero Ciampi, Brel, Cohen o Herbert Pagani, e possa vantarti una vita “trafficata” quanto le loro. Ma per noi contemporanei, che viviamo col riduttore incorporato perché ci pensa la precarietà economica a non farti uscire dalla tua caselletta, non è più interessante e vario farsi ispirare dal respiro della Storia? In questo modo, per lo meno, quando il campo si stringe sull’individuo, riesce un po’ più facile provare pietà, empatia e persino affetto per il soggetto. Di fronte alla Tragedia l’individuo si ‘riduce’ e manifesta incertezza, angoscia, smarrimento. L’eroismo stesso diventa un atto spoglio, sorretto non dalla retorica ma da un senso dell’ineluttabile che è, a mio avviso, la più elevata delle configurazioni accessibili all’animo umano”.

Malgrado le ovvie differenze rispetto a tempi e contesti, si rintraccia in Canone Europeo una certa affinità di spirito rispetto a Canzoni Preghiere Danze… dei CCCP. In quel passaggio si pre-avvertivano già certi eventi; anche lì c’è disperata critica ma al contempo rivendicazione come negli IANVA di oggi… penso alle “vite spezzate ricucite alla cazzo”.
“Sì, ma a non essere raffrontabili in alcun modo sono i rispettivi contesti storici. A quei tempi c’era ancora un paese che poteva, più o meno lecitamente, chiamarsi Italia. Era il 1989, l’anno zero del mondo contemporaneo e della fine ben più che simbolica del ‘900. In capo a un paio d’anni ci saremmo trovati a vivere su un altro pianeta. In una ciancia planetaria dove ogni “esperto”, vero e sedicente, girava con la bocca piena di globalizzazione, di fine della Storia, di turboliberismo e melting-pot. Fu il primo golpe di carattere globale e ne sarebbero seguiti altri. C’è un particolare, però, che ci tengo a ricordare ogni volta che posso: al tempo quasi nessuno denunciò queste mostruose macchinazioni per quel che erano. Con il risultato che abbiamo permesso a questi Stranamore da strapazzo di costruire il futuro entro cui ancora oggi, infelicemente, risiediamo. Mi spiace, ma su questo punto devo essere netto, per rispetto della verità. All’epoca eravamo in pochi a rilasciare dichiarazioni di nettissimo e inequivocabile rigetto, additati come folli, messi alla gogna, sospinti ai margini e zittiti. I CCCP non erano tra questi, per quanto il loro ultimo disco con quella ragione sociale qualche orticaria qua e là l’aveva provocata. Ma era in arrivo il contingente fiorentino a raddrizzare la prospettiva con l’impollinazione CPI. Quindi no: IANVA è l’evoluzione adulta, meditata e, mi si consenta, più professionale, di un percorso che comunque nasceva all’opposizione e ha sempre rappresentato, attraverso varie forme e declinazioni, una piccola ma tenace sacca di resistenza culturale, molto spesso anche strenua. Con tutto quello che, nel bene e nel male, può derivare da un simile atteggiamento”.

Prendo spunto dal concetto politico del Monarca espresso da Dante per toccare il tema centrale di Come Ferro Battente, ossia la Nazione. Nel Novecento l’errore più evidente è stato il nazionalismo, ossia il tentativo di ripristinare un ordine tradizionale senza linfa, senza il contenuto spirituale che ne determina equilibrio e giustizia. C’è qualcosa di cavalleresco nella rabbia di questo brano (che è preghiera), ma ti chiedo: la lucidità dell’inattuale è ormai oasi per i solitari?
“Il brano nasce da uno spirito ‘della rovina’ più che ‘sulla rovina’. Il che non è davvero la stessa cosa. Un dato è sotto gli occhi di tutti: quella maceria civile di cui il tradizionalismo paventava l’avvento è l’habitat entro il quale scorrono le vite di tutti noi. È pur vero che l’argomento preferito degli europeisti mainstream, del partito della sovranità decrescente, consta nell’addossare la responsabilità di due ecatombi mondiali ai nazionalismi e ai conseguenti protezionismi economici. Ma dimenticano di dirci che quel tipo di nazionalismo nasceva negli ambienti del laicismo liberal/massonico, contigui all’alta finanza e pressoché identici a quelli che oggi esprimono la UE, la globalizzazione e le altre strutture contemporanee. Dunque dov’è la verità? La verità è che la natura non prevede alcun diritto, men che meno umano. Solo comunità fortemente radicate e consapevoli, coese attorno a principi immutabili e trascendenti, possono avvertire l’urgenza a fare “qualcosa di grande insieme”. La creazione, la conservazione e l’estensione dei diritti e delle tutele, sono diretta conseguenza di questo sentimento comune, e non certo nate per germinazione spontanea nell’orticello delle libertà individuali. Pensare, anzi imporre di credere, come da dogma liberista contemporaneo, che un ordinamento civile possa scaturire dalla libera concorrenza di miriadi di egoismi individuali è una scempiaggine allo stato puro. Semplicemente ridicola, non fosse che sta causando lutti e catastrofi. Escludo dunque che possa alloggiare alcunché di alto o di cavalleresco in contesti quali l’autoproclamato ‘umanitarismo’ contemporaneo”.

La Nazione è qui l’equivalente del Bosco di Jünger, in sostanza…
“Sì, ma non solo. Vi concorre molto di quanto abbiamo imparato al principio delle nostre vite. Un certo modo di percepirsi. Una nozione psicologica elementare, ma inestirpabile, delle proprie origini. Come si attiene un bambino alle consuetudini della sua gente? Vive, mangia, prega, gioca, gioisce in un certo modo e non in un altro. Senza nutrire alcun dubbio che quello sia il solo modo possibile di stare al mondo. Perché non possiamo più permetterci questo lusso? L’abitante del Malawi, l’indio del Chapa e il tuareg del Rif possono e noi no. Perché mai? Chi cazzo l’ha stabilito? Per assumerci l’onere di un simile orfanaggio, per vivere e produrre in una dimensione tanto prosaica, estranea e spoetizzata, noi occidentali di frontiera dovremmo farci pagare a peso d’oro… e invece ci decurtano pure i salari! Passare al bosco significa entrare in azione per salvarsi la vita. Leggere, studiare, rifiutare di farsi influenzare da musiche orripilanti e mode idiote, come legittima difesa. Sabotare il fondale illusorio del consenso negandosi anche come semplice comparsa”.

Il Canone Europeo, da un punto di vista prettamente immaginativo e sentimentale, quanto deve al Bowie di Station To Station? Alla sua magia dantesca e alla sua preghiera per un futuro riarso nel Principio? Anche qui, malgrado l’indice rivolto alla decadenza dei tempi attuali, si avverte un disperato bisogno di senso, di quell’equilibrio dato dall’Amore…
“Siamo nell’assoluta sincerità e quindi è giunto il momento di fare i conti anche con gli idoli. Ciò che all’epoca fece rovinare al suolo la mia già vacillante fede nei moduli espressivi new wave-ottantiani fu l’uscita di Never Let Me Down. Pazienza che una ‘sommossa’ generazionale come quella fosse finita in sbobbe da mensa aziendale come gli U2, ma che Bowie, il Sommo, l’Emissario di Thule, l’Androgino Divino da cui ogni cosa degna derivava, potesse scendere a tali livelli era il segnale per iniziare a sbaraccare, un marcatore di fine-epoca. Contesto clamoroso se pensi che la caduta arrivava da altezze sideree, come appunto anche quelle di Station To Station. Attenzione: qui si parla, a mio avviso, di una delle opere d’arte più centrate e rappresentative di quell’ultimo quarto di ‘900 di cui, idealmente, costituiva una sorta di spettrale atrio. Ritengo che equivalga, per profondità, implicazioni e conseguenze, a opere come Arcipelago Gulag in letteratura o La Caduta Degli Dei nel cinema o, ancora, nelle arti performative, alle azioni ‘rovinose’ di Bas Jan Ader e alla sua epica del fallimento, il pianto al culmine della disfatta. Ho vissuto quella voga culturale, quella del neo-decadentismo mid-70’s, in modo del tutto istintuale e viscerale. Ricordo con piacere Manuel Insolera, che su Ciao 2001, il magazine giovanile per eccellenza di quel tempo, insisteva su questo concetto di rock mitteleuropeo e decadente. Spingeva cose italiane come i Decibel, i Revolver, i Krisma, Faust’O, o straniere come Harmonia, La Düsseldorf, il punk già in odore di evoluzione alla Metro e persino certa musica disco se sufficientemente glaciale… e il tutto palesemente contro gli orientamenti redazionali”.


(Foto: Emanuela Zini)

Quindi alla musica del Bowie mitteleuropeo, dei Roxy Music, degli Sparks, del Lou Reed di Berlin, associ idealmente la stagione della tua “seconda venuta al mondo”?
“Non ho problemi ad ammettere che ogni mia scelta o preferenza di allora nasceva condizionata da questi artisti. Solo in un secondo momento avrei ascoltato e amato altrettanto visceralmente i precedenti dischi glam di tutti loro. Compresi gli antecedenti, (Iggy and the Stooges, Mott the Hoople), i conseguenti (Ultravox!, Tubeway Army, i primissimi Japan o Simple Minds), i dimenticati talenti (Doctor of Madness, Gloria Mundi, Cuddly Toys) e le band del giro Blitz Club come Visage o i primissimi Spandau: tutta roba che, fino a quando ha tenuto la barra dritta, era davvero godibilissima. Avvertivo che qualunque cosa stesse avvenendo da quelle parti mi riguardava. Era un groviglio di suggestioni contraddittorie, lontanissime dal nostro quotidiano: lusso e decadenza, splendore e tetraggine, sensualità e ascetismo, mondanità e misantropia, decorativismo e sintesi, superumano e sottoumano, ipermodernismo e anti-modernità. All’epoca era abbastanza difficile rendersi conto che tutta questa gente, Bowie compreso, in fondo scherzava e flirtava col ‘rigore del freddo’, senza prendere nulla troppo sul serio. Ma intanto le prime letture impegnative, da Huysmans a D’Annunzio, da Heidegger a Nietzsche, da Conrad a Jack London fino a Kraus, Meyrink, Kafka, Bulgakov, Jünger, Isherwood, le dovevo all’esigenza di iniziare a orientarmi nel mondo intellettuale dei miei idoli. Per quanto ci riguarda abbiamo deciso di far suonare il nostro disco come l’ennesima distopia. Ossia come se quella rivoluzione eurocentrica nella musica moderna, che allora sembrava imminente, ci fosse effettivamente stata e avesse avuto successo. Come sarebbe suonato un disco di musica d’autore italiana, intrisa di valori combattivi, in un mondo di suoni discendenti direttamente da quella rivoluzione? Ecco, dunque, il “Canone”. Ciò che non è, ma che sarebbe necessario fosse. La riconciliazione tra diverse tradizioni, separatamente condotte su differenti binari morti, che tornano a sferragliare all’unisono nella finzione di un’ora. La casa di bambole di passate grandezze monumentali che noi approntiamo affinché ognuno possa conservarla”.

L’album è anche luogo di uno specifico lavoro sulle voci: preciso, intenso, soppesato, nell’indirizzare toni e timbri. Puoi darci chiarimenti su questo punto, sull’aspetto del declamare melodioso e/o fermo? E sul contributo blu di Ruggeri?
“Frank Sinatra affermava che il vero cantante non è quello dal range vocale sovrumano, che quando si appresta a emettere una nota spalanca la bocca come se dovesse ingoiare un pollo intero. E neppure quello che riuscirebbe a svisare leggendo i necrologi del “New York Times”. Ma quello che, semplicemente, qualunque cosa canti riesce a convincerti, ti spinge a credergli. Come un buon attore: lo vedi e poco dopo dimentichi che sta recitando. Condividiamo totalmente. Solo che, nel nostro caso, non sempre è facile cogliere la cifra. Le tematiche che tocchiamo, i personaggi ai quali prestiamo la voce, sono chiaramente lontanissimi dalle nostre esperienze personali e dalla nostra realtà quotidiana. Ma la musica può diventare un medium molto potente. Al punto che quasi ci pare di poterne percepire i moti dell’animo, le esaltazioni, il dolore della capitolazione. Riteniamo insomma che la chiave giusta sia quella di prendere quanto facciamo con la dovuta serietà e rispetto, come si conviene quando si parla di persone scomparse, ma senza alcuna rigidità finto-accademica. Una metrica puntuale, un tono fermo, ma aperto alla comprensione, alla pietà. Un modo di narrare schietto, rude, ma amichevole. Amorevole in qualche caso. Enrico Ruggeri, da questo punto di vista, è un vero maestro. Sicuramente tra i più dotati in assoluto tra tutti quelli che scrivono in lingua italiana. Certe caratterizzazioni umane o notazioni ambientali, siano esse di interni polverosi o di scorci tormentati dagli elementi non meno che da un apparentemente insensato lavorìo umano, sono pagine di perfetta letteratura. Hai presente con quale naturalezza sa modulare le corde dell’ironia e quelle dell’empatia? E’ quello che io definisco, con tutto il reverenziale rispetto che il termine ancora m’incute, un autore”.

E rispetto alla partnership coi Disciplinatha e Santini? Codice ‘industriale’ laibachiano a parte, penso in primis all’attitudine situazionista anarcoide, al loro ‘usare il nemico’ per mettere a fuoco contraddizioni e ipocrisie della società. Motore che vi accomuna in qualche modo…
“Ero consapevole del fatto che le nostre strade si sarebbero incrociate. Il primo incontro l’ho avuto con Dario che, impressionato da Disobbeddisco!, venne a presentarsi a un nostro gig. Da allora il nostro legame si è andato rafforzando e all’amicizia si è sommata un’identità ideale e programmatica. Del resto mi sentivo fortemente in debito con loro, visto che tutta la prima fase della vicenda Disciplinatha fu uno degli spunti principali nella progettazione del modulo IANVA. Cristiano è diventato il nostro fonico di fiducia, all’inizio per i nostri rari live e di recente anche in studio. Inoltre mi sono occupato, lavorando su commissione, della maggior parte dei testi per il disco che sancirà il loro rientro. Insomma: è una collaborazione estesa che, ci auguriamo, possa presto o tardi manifestarsi anche in forme più frontali. Ciò che stiamo costruendo si ricollega a quanto dicevo prima: pensare altrimenti e incentivare anche nell’ascoltatore una prassi analoga, non importa in quale direzione sceglierà poi di avventurarsi. Oggi come oggi è la stagnazione la condizione che comporta i rischi peggiori e che, sul piano emozionale, predispone ad un fatalismo e a una rassegnazione che tutto sono fuorché europei e occidentali. Non dobbiamo permettere alcuna bonaccia: o si cerca di fomentare la tempesta o è meglio starsene a casa propria. Quindi, per ora, facciamo i richiamati che tornano in prima linea”.

L’esempio dell’Italia che si batte rintraccia qui in Cellini e Guillet i riferimenti storici di base, tra l’altro i brani sono due arie che raccolgono un folk dai risvolti mediterranei oltre che francesi, qualcosa non distante dai primi Litfiba con impeto neo espressionista. Pare quasi un’antitesi alla decadenza positiva (quella poetica francese incarnata da Rimbaud, Lautréamont e Baudelaire) esposta altrove. Un gioco di risvolti?
“Già, pare davvero che qualcosa dei primi Litfiba salti sempre fuori. Sembra essere una specie di dazio che uno paga senza neppure più accorgersene. È come per gli Iron Maiden nel metal italiano. Con una differenza, però: gli Iron Maiden non hanno mai rinnegato la loro originaria fanbase. Poi consideriamo che ai tempi i fiorentini guardavano ad esempi che per noi non hanno mai cessato di essere fonte d’ispirazione. Non solo le morriconate, dunque. Ma anche chi a Morricone era debitore a sua volta, in ambito wave e new romantic: Adam And The Ants in primis. Che dire poi dei Theatre of Hate/Spear Of Destiny e dei deliri para-eroici escogitati da Kirk Brandon. Ce la metteva tutta per essere pugnace e stentoreo, per far risuonare ogni singolo brano come una chiamata alle armi. E infine soprattutto loro: gli Stranglers. Riascolti recenti me li hanno confermati come una delle mie band favorite di sempre. Li accosto a musicisti come i Damned, Paul Roland o i Kinks, personalità in grado di generare una mitologia personalizzata manipolando con garbo, ironia, affetto e competenza, mitologie preesistenti: iconografie bizzarre, narrazioni tradizionali, prontuari pop d’autore, digressioni colte ma con irresistibile attitudine weird. L’intelligenza può essere giocosa, diventare una sorta di scapestrata avventura. Per me si parla di assoluti maestri. È abbastanza ovvio, quindi, che dovendo narrare di personaggi come Cellini o Amedeo Guillet ricorressimo a soluzioni che suggerissero un’impressione di prodezza. Con un approccio magari smargiasso, ma sorretto comunque da una forza d’animo e da una limpidezza d’intenti indiscutibili. Dopotutto si tratta di due personaggi che in comune avevano unicamente quest’attitudine a incarnare quello spirito della ‘sprezzatura’ che è stato, e forse potrebbe tornare a essere, una delle tante peculiarità italiane. Scrivere di loro mi ha fatto tornare in mente molte cose, te ne dico solo una: Domenico Modugno che interpreta Scaramouche e canta l’epica sigla finale lanciato al galoppo lungo una strada polverosa. Non so come spiegarlo, certe cose mi hanno fatto bene. Dunque, una forma di decadenza positiva c’è comunque e senza scomodare i poeti maledetti”.

Ne L’Alba Delle Ceneri toccate lo scottante tema del suicidio novecentesco, sorta di atto eroico e affermativo, di estremo sgarro a quella ‘vita’ imposta dalla società moderna. Lo rimarcava in tempi non sospetti anche Cioran e Mishima ne diede forse l’atto più esemplare…
“Col tema del suicidio ho un conto aperto da qualche decennio. Chi conosce qualcosa della mia produzione pre-IANVA sa bene a cosa alludo. Solo che allora si trattava di imbrigliare un’idea fissa. Oggi, forse, di un supplemento d’indagine. Se qualcuno non se ne fosse accorto, gli ambienti culturali contemporanei sono tutti intenti a una silenziosa, furtiva opera di inumazione della cosiddetta “cultura della crisi” novecentesca. Lo scopo? Sottrarre il più prossimo e immediato termine di raffronto che potrebbe rivelare agli occhi del mondo il fondo di meschinità, vigliaccheria e inutilità, attualmente toccato dal ceto intellettuale. E ciò vale per la media. Nei casi peggiori, che sono poi quelli che godono delle maggiori cure e attenzioni da parte della macchina mediatica, possiamo tranquillamente parlare di complicità e collaborazionismo. Se analizziamo le categorie pressoché esenti dal rischio suicidario, risulterà evidente un tratto comune a tutte: una carenza o un’assenza di empatia con l’altro da sé. La vita nella sua forma pura, elementare, non mediata da una complessa costruzione affettiva, culturale, relazionale e simbolica, non ha nulla di saggio né di bello”.

Ma oggi non si rischia che l’atto cada nel dimenticatoio (un po’ come l’amato combattente di Resurgente morto al fronte). Ossia l’Anarca, il Ribelle, non sono più utili su un piano come quello attuale?
“Il suicidio, piaccia o meno, è una funzione evoluta della psiche umana. Certamente è il risvolto tragico di patologie mentali severe, ma è indubbio che si origini da ‘specializzazioni’ estremamente avanzate della sfera cognitiva e abbia le sue radici in stratificazioni di sorprendente profondità e varietà, che riguardano sì l’individuo ma anche la sua cultura di appartenenza, il tipo di legame etico ed estetico che lo associa alla comunità, le suggestioni narrative interiorizzate lungo tutta l’esistenza. Se si eccettuano le potenti indagini filosofiche di Camus e Durkheim, credo che il primo a cercare, con esiti a mio avviso brillanti, di circoscrivere e descrivere questo vero e proprio “spirito dell’aria” sia stato il critico letterario britannico Al Alvarez : Il Dio Selvaggio è da sempre uno dei testi basilari della mia vicenda creativa. Ciò che però Alvarez non poteva sapere, scrivendo nei primi anni ’60, è che la sua postazione critica si situava sul ciglio di un immane campo di battaglia, quello delle idee novecentesche. Ciò assicurava l’agevole osservazione di una carneficina ancora freschissima. Da lì a poco tutto si sarebbe trasformato in cronaca, poi in circo mediatico e quindi in liquefazione comunicativa. Nel brano, quasi per una sorta di scherzosa scommessa, ci siamo sforzati di includere il maggior numero possibile di illustri suicidi. In numero di molto eccedente rispetto a quelli evocati per nome o cognome o solo per allusione e similitudine. Da Walter Benjamin a Ian Curtis, da Franco Lucentini a Dead dei Mayhem, da Pavese ad Adrian Borland. Certi artisti rock che abbiamo amato da ragazzi e che, in spregio alla primogenitura americana, si pensavano avamposti estremi di una tradizione culturale europea dopotutto ce l’hanno fatta: sono anche loro in quello spettrale club. Ma tutto ciò non sarebbe stato tanto agevole senza lo scoppiettante e, a suo modo, sbilencamente solenne Tutto Il Ferro Della Torre Eiffel, lo scritto di Michele Mari“.

Nell’artwork sono presenti statue di angeli e combattenti, si tratta di ‘milizie dello spirito’ e si ricollegano al senso tragico e avventista dell’opera. Simboli eterni intendiamoci, ma carichi di una desolazione a tratti divisioniana e wendersiana. Più che di fatalità, però, avverto qui l’esigenza del destino. Sono inviti a cogliere il destino con consapevolezza più che con rassegnazione, o sbaglio?
“Non sbagli, ma d’altronde chi ha la spudoratezza di augurarsi pubblicamente l’inconsapevolezza? Nei fatti concreti siamo tutti compresi tra una sorta di sventata fanciullezza che si rifiuta di pensare al domani e una rassegnazione da decrepiti con un piede nella fossa. Siamo diventati superflui, sotto ogni punto di vista: nazionale, culturale, produttivo, generazionale, esperienziale, civico, genetico. Oltretutto non si nascondono neppure più. Ce lo ripetono ogni giorno, a tutte le ore, su tutti i maggiori media. Attuano tutte le politiche del caso affinché le tempistiche naturali della nostra dipartita dal mondo vengano accelerate: fatti un giro in un qualsiasi pronto soccorso. Personalmente mi viene spontaneo ricorrere, in cerca di protezione e conforto, alle figure simboliche che in una remota infanzia, appresi quali archetipiche della mia cultura e della mia gente. Dunque, angeli, santi, dèi. Persino gli eroi. Sì, gli eroi. Lautréamont, potesse farsi un giro in una periferia contemporanea, perderebbe di colpo ogni velleità luciferina e si ficcherebbe in un eremo a pregare e a confezionare ordigni rudimentali per l’ultima battaglia”.

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